Quando vedo in tv le immagini degli incontri tra i grandi leader, che decidono la morte e la vita, le sorti del mondo e le nostre… dietro ai discorsi paludati e alle foto di rito in giacca a cravatta mi vengono in mente considerazioni poco politiche e molto antropologiche.
L’immaginario collettivo, come i muri delle città, gronda di figure anatomiche maschili. Che in quella zona del corpo risiedano capacità supreme è fuori discussione. La “potenza” virile è da tempo immemorabile connessa all’esercizio del potere e alle conseguenti metafore, ricorrenti nelle retoriche pubbliche. «Ce l’ha piccolo», senza bisogno di precisare che cosa, è grave insulto e tremenda preoccupazione fin dalle elementari. «Impotente» richiama l’atto sessuale, un ruolo ritenuto per millenni il solo attivo.
Mica sono parti anatomiche come le altre!
Il gioco di elencare i nomi delle zone erogene è antico, e vi si sono ripetutamente cimentati linguisti e poeti, in uno sfrenarsi della fantasia che documenta al contempo la loro centralità e il loro fascino.
Paradossale che una cultura così prodiga di attenzione per gli organi sessuali poi ritrovi la pruderie per cancellarli nei cartoni animati o nei pupazzi: i leoni della foresta hanno criniere, zampe, code ma non peni. Anche così bambini e bambine imparano che sono “cose sporche” (come ai tempi di Pio IV che voleva distruggere quella Cappella Sistina così traboccante di nudità). E si sa che nulla attrae come il proibito.
Testicoli significa ‘piccoli testimoni’ perché anticamente si giurava su di loro per sancire la solennità di quanto si pronunciava. Ancor oggi si toccano per scaramanzia. Gli attributi sessuali maschili sono ben visibili e la società conferisce loro un valore simbolico di potenza e di forza: l’uomo è angosciato dall’incubo di perderli (per questo non basta la linguistica, ci vuole la psicanalisi). Beppe Grillo arrivava addirittura a pretendere che le abbia lo Stato, le palle; tutti ne scongiurano la rottura come catastrofe, benché non sia piacevole “averle piene”.
I preziosi pendagli sono fragili e si rompono (o girano) con inusitata frequenza. Sono quelli che le donne — mostruosa propaggine — devono mostrare di avere per farsi valere (evidentemente dimostrando con ciò di esser fuori dalla norma per il solo fatto di avere potere): ostentano quell’insieme di caratteristiche che solo il maschio possiede, ovvero forza, coraggio, determinazione, competenza, coerenza (un uomo con le ovaie, che per restare nelle definizioni correnti sia sensibile, gentile e dolce non è previsto).
L’elemento centrale cui gli attributi si abbinano è il lemma più fragoroso nel repertorio della trivialità: ne han contate quasi mille parole per designarlo, il cazzo, e si sa che è la parola più usata nel Bel Paese. Attestato come tale nella lingua scritta dagli inizi del ‘300 — con dubbie origini etimologiche — da allora è onnipresente. Belli ne mise in rima 52 sinonimi: qui un esempio.
Sonajji, pennolini, ggiucarelli,
E ppesi, e ccontrapesi e ggenitali,
Palle, cuggini, fratelli carnali,
Janne, minchioni, zebbedei, ggemmelli.
Fritto, ova, fave, fascioli, granelli,
Ggnocchi, mmannole, bruggne, mi’-stivali,
Cordoni, zzeri, o ccollaterali,
Piggionanti, testicoli, e zzarelli…
Gioacchino Belli
Il potere fallico cerca autoesaltazione nel linguaggio. È la rappresentazione di un’Italia con la patta perennemente sbottonata, una fissazione nazionale, un coro di fallolatria, nella convinzione o nella speranza che Italians do it better.
Così centrale ma per converso così futile, così banalizzato da diventare materiale inerte, jolly espressivo, quasi un tic, sinonimo del generico ‘cosa’: «che cazzo fai?». «Non me ne frega un cazzo» (= niente); «col cazzo» (= neanche per idea) «grazie al cazzo» (è ovvio). «Perché io so’ io, e voi non siete un cazzo!».
La smania di economia linguistica rattrappisce ogni manifestazione espressiva e mutila la fantasia. Così usurata la parola volgare si fa scialba, perde carica semantica. Profetico Italo Calvino nel 1978, quando invitava a usarla in modo non automatico, «se no è un bene nazionale che si deteriora».
Idolatrato e fantasticato come nessun’altra parte del corpo, pure ha quasi sempre un implicito sottofondo di negatività. Testa di cazzo o cazzone o pirla o minchione o coglione o bischero o pistola sono indicativi di quest’uso spregiativo, quasi se ne assumesse un’antitesi “naturale” con la razionalità e la saggezza. Il termine si trasla nel verbo che indica ira (incazzarsi): ci sono tanti sinonimi di ‘arrabbiato’, ‘infuriato’, ‘incollerito’ ma si usa sempre e solo quello che deriva dall’organo di riproduzione maschile, che si muove per i fatti suoi, che non solo “conquista” ma “sfonda”, “chiava”, “castiga”. Non va “provocato”. “Preda di un raptus” è dietro l’angolo.
Ormai le pareti delle camerate e dei bagni pubblici o le curve degli stadi sembrano troppo strette: la volgarità incontinente si espande a macchia d’olio nei mass media, nella pubblicità, nelle università, nella politica, nei salotti, in bocca a personaggi pubblici come a persone sconosciute. Tutte/i si nascondono dietro il comodo paravento dell’apertura mentale, dei costumi evoluti e della nuova morale, della strizzata d’occhio postmoderna.
La plurilodata rottura con i codici formali si basa sull’estetica del primitivismo dei corpi; nel dito medio sguainato e nel gesto dell’ombrello c’è ripetizione compulsiva, azione apparentemente sottratta a ogni intenzionalità, antropologia primordiale che ha il fine di sessualizzare la retorica politica. Si è convenuto: che buona comunicazione! che capacità politica di talento! E tra un gestaccio e un rutto, un insulto e una pernacchia ci si riduce a chiamare schiettezza la trivialità esibita come marchio di fabbrica.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

Splendida analisi, cui l’ironia aggiunge sale e incisività. Grazie, adoro chi mi diverte!
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