Il romanzo di Andrea Bajani L’anniversario si è aggiudicato il Premio Strega 2025 tra una cinquina di autori e autrici finaliste (Nadia Terranova, Elisabetta Rasy, Michele Ruol, Paolo Nori).
Il libro era stato proposto dallo scrittore Emanuele Trevi con la seguente motivazione: «È una storia eccezionale, quella di Bajani, che infrange un vero e proprio tabù: nelle prime pagine del libro incontriamo il protagonista che ci racconta dell’ultima volta che ha visto i suoi genitori, prima di voltare le spalle per sempre alla sua famiglia, disgregata dalla violenza del padre-padrone e dalla muta, disperata sottomissione della madre […]». La trama è tutta qui, non ci sono fronzoli o espedienti narrativi che arricchiscono l’ordito della storia. Essa si presenta scarna ed essenziale, raccontata in prima persona dal protagonista che ripercorre la vicenda personale e quotidiana della sua famiglia. Non vi sono avventure, non c’è suspence, non ci sono colpi di scena o dialoghi indimenticabili. Qualcuno potrebbe ritenere tediosa e lenta la lettura di questo libro, se non fosse che ogni situazione descritta, apparentemente banale, presentata nel suo svolgersi ordinario attraverso gli anni che passano dalla fanciullezza all’età adulta del protagonista, penetra nell’animo di lettori e lettrici fino a creare una sensazione viva di soffocamento e di angoscia. Essa è emanata dalle figure dei due genitori del protagonista: un padre, per l’appunto, padrone, violento e inconsapevole (forse) del suo comportamento che oggi potremmo definire ‘disfunzionale’, e una madre succube, arresa a ogni tentativo di emersione da una realtà che la sotterra fino a farla quasi del tutto scomparire nel suo essere persona con bisogni, sentimenti, desideri, volontà propria.
Ci sono passaggi davvero conturbanti perché realistici: «mia madre non aveva un corpo, o meglio non ne aveva uno indipendente. Anche come corpo, lo era per emanazione di mio padre»; «Dovrei dire che uscivano a passeggiare, ma l’espressione con cui l’azione è rubricata nella mia memoria è che mio padre “la portava a passeggio”. Questo è il modo in cui lui definiva quel tempo trascorso insieme fuori casa, come se portasse a spasso il suo cane». Anche nel rapporto tra la madre e le sue amiche si riflettono dinamiche di potere maschile: «Quello che mia madre viveva era un patriarcato differente, più vicino a un totalitarismo: mio padre teneva i conti, guidava l’auto, stabiliva le linee dell’educazione di noi figli, si occupava della nostra istruzione, e a lei restava la gestione spicciola del cambio letti, cucina e pulizie. Ovvero, lei restava dentro un potere assoluto in cui il marito era la voce, e il braccio, della legge. Va da sé che questo impediva qualsiasi reale solidarietà tra lei e le sue due amiche. La loro subordinazione nell’ordine sociale non coincideva necessariamente con la sottomissione domestica in un regime repressivo, che invece da noi era la pietra angolare di tutto l’edificio». Poi giunge il momento in cui il padre trasferisce la famiglia da Roma a un paesino del Piemonte: è il 1978 e questo passaggio segna la definitiva condanna al silenzio e alla sottomissione perpetua della madre in una casa dove, fino agli anni Novanta, non era ammesso dal padre nemmeno avere un telefono (interessante la parte in cui si racconta l’avvento del telefono nella famiglia).
Il protagonista ricorda anche episodi di violenza fisica, non tanto i gesti del padre, quanto le reazioni della madre: «Mia madre era rimasta in cucina, si teneva sullo sfondo anche in quella scena. Ma non c’era, per una volta, né timidezza né timore. […] Tutto prendeva in qualche modo concretezza ora, in quella distruzione che avevamo sotto gli occhi, mia madre con gli occhiali rotti che rimetteva a posto casa, due uomini con le mostrine della Polizia che scendevano le scale del nostro condominio, e io che l’aiutavo. […] Per qualche pasto mio padre condannava la tavola al silenzio, noi figli speravamo che si finisse al più presto di mangiare, e mia madre raddoppiava una sua maniera specifica di essere servile dopo la tempesta, in cui era il pentimento a dettare ogni gesto che compiva intorno a lui». Tutto come in un paradigma — afferma il protagonista — in cui la tacita e costante affermazione della madre è «sarò una moglie diversa, sarò quello che vuoi tu». E ancora a seguire un’altra carrellata di episodi raccontati e corredati dalle riflessioni a posteriori di un figlio che — avendo vissuto tutta la sua vita familiare nel terrore — alla fine abbraccia l’unica decisione che può salvarlo e che conduce alla domanda finale del romanzo: «Si possono abbandonare i propri genitori? O meglio, ci si può sottrarre a loro, semplicemente togliendo il proprio corpo di mezzo con un gesto netto e definitivo?».
Tutta la narrazione è condotta sul duplice binario del riferimento alle vicende familiari da una parte e dall’altra della riflessione metaletteraria che l’autore porta avanti, riflettendo sul genere che meglio avrebbe potuto dare forma alla storia e che non poteva che essere il romanzo: «Questo accedere, attraverso l’invenzione, a ciò che il ricordo non possiede, è precisamente la forza brutale del romanzo. Che si disinteressa quasi sempre del reale e fornisce sempre il vero». Una storia che si universalizza anche con la scelta di non nominare specificatamente i personaggi: un modo per vederci i tanti padri, madri, fratelli, sorelle, suoceri di famiglie che — direbbe Tolstoj — sono infelici a modo proprio.
Ho letto diverse recensioni che bocciano il libro di Bajani come un’operazione commerciale che sfrutta furbescamente — secondo alcuni — il tema del rapporto tra genitori e figli, spesso ricorrente nella narrativa italiana, o il tema ormai “abusato”, quasi inflazionato, del patriarcato e della violenza di genere — secondo altri. Ammesso che di un’urgenza come la violenza contro le donne e le dinamiche patriarcali nella società si possa parlare come di qualcosa di inflazionato, superato, furbamente sfruttato, non comprendo le critiche che sminuiscono il romanzo in questione. Non è certamente un capolavoro (i premi non intercettano quasi mai capolavori, si sa), ma la scrittura di Bajani ha il merito di affrontare con lucidità e realismo i meccanismi familiari che ritengo essere stati (ed essere ancora) molto comuni e ricorrenti nelle famiglie delle nostre nonne e anche delle nostre madri. E non ci sarebbe bisogno nemmeno che si faccia riferimento alla violenza fisica contro le donne (seppur presente nel romanzo): le forme di sottomissione e violenza femminile che emergono nel libro sono variegate, dalla violenza economica a quella verbale e psicologica, una violenza che, di fatto, rende la donna un essere invisibile in famiglia, come invisibile finisce col diventare la vita e la persona stessa della madre del protagonista. Si inseriscono, poi, in questa cornice le altre dinamiche, spesso terribili, legate a suoceri e consuoceri, figli maschi e figlie femmine, che contribuiscono ad aumentare l’atmosfera claustrofobica che pervade la narrazione e che diventa angosciante proprio perché realistica. Il romanzo, infatti, produce proprio un certo fastidio in quanto — a mio avviso — come popolo familistico e tradizionalmente attaccato all’idea di famiglia di per sé, da difendere come nucleo positivo sempre e comunque (“i panni sporchi si lavano in famiglia”, recita il proverbio), questa narrazione svela tutte le ipocrisie di tale modello esistenziale e familiare.
Per questo L’anniversario di Andrea Bajani risulta essere un libro che val la pena leggere per lasciarci scovare e mettere a nudo di fronte alle nostre intime e borghesi convinzioni.

Andrea Bajani
L’Anniversario
Feltrinelli, 2025
pp.128
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.
