I libri possono sortire su di noi effetti diversi: possono emozionare, indurre a riflettere, lasciare contrariati, stupire, indignare. Oppure possono angosciare e attaccare addosso un senso di nausea che va via a fatica dopo aver voltato l’ultima pagina. È esattamente quanto ho provato dopo aver letto La vegetariana, un romanzo di Han Kang, scrittrice sudcoreana che ha vinto il Nobel per la Letteratura nel 2024. Sulla nostra rivista si è scritto di lei in occasione della sua premiazione.
Nella motivazione per il conferimento del premio si legge: «Nella sua opera Han Kang affronta traumi storici e insiemi invisibili di regole e, in ciascuna delle sue opere, espone la fragilità della vita umana. Ha una consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, i vivi e i morti, e nel suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice nella prosa contemporanea». Chiaramente, non conoscendo il coreano, non posso apprezzare la prosa originale dell’autrice, ma nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra per l’edizione Adelphi quello stile poetico e pungente si percepisce pagina dopo pagina.
Il romanzo narra di una donna, Yeong-hye, che, dopo aver avuto un sogno inquietante, decide di diventare vegetariana e di non mangiare più carne. Questa sua decisione, che si rivelerà man mano sempre più irremovibile, avviene sotto gli occhi del marito e dei familiari (padre, madre, fratello, sorella e cognato) che non accettano la trasformazione della donna e tentano in ogni modo — anche drastico — di dissuaderla. La trama si dipana agli occhi del lettore in modo sempre più angosciante e inquietante, perché in realtà la storia di Yeong-hye è solo apparentemente la storia di una diversa scelta di nutrizione: il vegetarianismo a cui la protagonista si converte è solo l’abito esteriore di una lenta, inesorabile e profonda discesa agli inferi che la donna attraverserà, tra la violenza di una società e dei familiari che non la comprendono, non la ascoltano, per i quali lei è inesistente e lo diventerà fino a quasi scomparire fisicamente smagrendo al limite, sprofondando sempre più in un silenzio orrifico che rimbomba nelle orecchie di lettori e lettrici fino a scuotere le viscere.
La parabola discendente di Yeong-hye è descritta dall’autrice in uno stile originale: le tre parti di cui è composto il romanzo sono, infatti, tre punti di vista sulla storia, o meglio sulla protagonista. Il primo è quello del marito, il signor Cheong, che racconta in prima persona il suo essere spettatore della trasformazione inconsueta e per lui assurda della moglie («Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante»). Il secondo è il punto di vista del cognato di Yeong-hye, marito della sorella In-hye, raccontato in terza persona. Egli è un videoartista che si incaponirà nel convincere la cognata — dopo averla vista nuda e aver provato un’insana eccitazione per lei — a prestare il suo corpo per un progetto che prevede la ripresa filmica di due soggetti che hanno un rapporto sessuale totalmente tatuati di fiori. Il terzo e ultimo capitolo narra in terza persona il punto di vista della sorella di Yeong-hye, In-hye. Giunta alla separazione con il marito dopo gli eventi occorsi (narrati nella seconda parte) e rimasta l’unica a stare accanto alla sorella ormai ricoverata in una clinica psichiatrica per anoressia nervosa e schizofrenia, In-hye si divide tra le cure del figliolo Ji-woo e i disperati tentativi di salvare la sorella. Ma tutto ciò che Yeong-hye ha scientemente deciso di fare, dalla decisione di non mangiare più carne fino al totale annientamento della sua persona (al punto da voler vivere come una pianta), è la parabola di una ribellione silenziosa e ostinata alle convenzioni sociali in cui la donna è relegata sin dall’infanzia (periodo in cui si scopre, nel romanzo, che risiedono le radici dello scivolamento dell’equilibrio mentale di Yeong-hye): si ribella come donna, come moglie, come figlia, e tenta di uscire dall’invisibilità in cui la società condanna le donne scegliendo la strada dell’autodistruzione, del totale dissolvimento della propria essenza di essere umano.
Non è facile spiegare un romanzo come questo, non è facile riassumerlo: un libro come La vegetariana può essere compreso (forse) solo se letto, e nel leggerlo occorre essere disposti ad abbassare ogni difesa, ogni schermo di ipocrisia, ogni moto di riluttanza per comprendere che, in realtà, il destino di Yeong-hye non è eroicamente amaro o fiabescamente eccezionale, ma molto comune e diffuso nella nostra società capitalistica, patriarcale e manipolatoria, più di quanto si possa pensare. Ciò che rende davvero immortale un’opera d’arte è la sua capacità di parlare oltre i confini delle nostre appartenenze e di interrogarci senza lasciare risposte definitive, circoscritte: il romanzo di Han Kang lascia lettrici e lettori senza fiato e senza risposte fino all’ultima pagina, girata la quale si spera di trovare una chiave, una via d’uscita, un epilogo, ma si rimane a brancolare tra una sensazione di nausea profonda e una malinconica tristezza per la consapevolezza della nostra umana fragilità che non sempre si può riparare.
Davvero un’opera da Nobel.

Han Kang
La vegetariana
Adelphi, 2016
pp.176
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.
