A 16 anni ho deciso di smettere di consumare carne.
Nel tragitto che mi portava al liceo che frequentavo, poco distante dal plesso, un mattatoio. Generalmente raggiungevo scuola sentendo musica agli auricolari, o capitava spesso che trovassi sulla strada amici e amiche, e che parlassimo del più o del meno prima di iniziare le lezioni. Ma, una mattina, dopo aver fatto delle analisi, ero dovuta entrare alla seconda ora: quel giorno, nella fretta, avevo dimenticato le cuffie, e non avevo trovato nessuno con cui parlare. Nel silenzio del percorso, avvicinandomi, un’eco dapprima indistinto, che poi si è fatto nitido: un nitrito incessante e disperato di cavalli. Quel suono mi aveva riempito la testa e non riuscivo a pensare ad altro. Volevo andare a fondo, e ho cominciato a documentarmi: niente erba rigogliosa, pascoli felici, “morti indolori”, come mi avevano fatto credere. Quel giorno ho scoperto che in Italia vengono macellati ogni anno circa 700 milioni di animali. Quando è accaduto che la necessità di nutrirci abbia portato all’ideazione e alla creazione di un sistema di vere e proprie macchine della morte?
È solo in tempi recenti che il consumo di animali si è fatto così smisurato e crudele: se ripercorriamo la storia della nostra cucina, vediamo senza equivoci che buona parte dell’alimentazione era composta da verdure e legumi; a riprova di ciò, possono essere utili le testimonianze di chi ha vissuto parte della vita prima del boom degli anni fra il 1950 e il 1970. In questo ventennio, il benessere economico ha ampliato l’offerta, accresciuto le aspettative di vita, consentendo un tenore molto diverso rispetto al passato. Come è facile che accada, però, la smania del “progresso” può essere cieca, dove occorre che lo sia: in questa corsa, nel frattempo, abbiamo continuato a credere che fosse possibile e sostenibile cibarsi di corpi di animali fatti nascere col solo fine di essere macellati. Dopotutto, non è solo questo che dovrebbe farci rabbrividire: è l’idea che il nostro pianeta sia diventato una fabbrica. Dimentichiamo le foreste, la biodiversità, la speranza di respirare aria pulita. E, soprattutto, accettiamo che 60-70 miliardi di animali nel mondo sono stati allevati nell’ultimo anno in strutture intensive e sono stati proprio loro a costituire la gran parte del commercio. Secondo il Wwf, «Oggi nel mondo il 70% della biomassa di uccelli è composto da pollame destinato all’alimentazione umana. Solo il 30% sono invece uccelli selvatici»: un intero pianeta consumato dalla nostra fame, dalla nostra insaziabile voracità.
Forse è ora che smettiamo di credere alle favole, alle pubblicità che vediamo in tv, alle pretese di qualità ed eccezionalità di questi “prodotti”. Lasciamo per un attimo da parte l’ipocrisia a cui ci hanno abituato: ritenere inconcepibile cibarsi di specie considerate domestiche e accettare senza esitazione l’uccisione incontrollata di suini, bovini, ovini. Non pensiamo, per qualche istante, alle fattorie, meta di visite di scolaresche, in cui bambine e bambini familiarizzano con mucche, cavalli, agnelli e conigli, per poi ritrovarsi a mangiarne, dopo aver fatto loro qualche carezza. Vorrei che questa potesse essere solo una provocazione, ma basta un po’ di onestà per riconoscere queste o simili dinamiche; le parole che sto usando non sono crude esagerazioni, sono parole precise per descrivere fenomeni reali.
Ritorniamo, quindi, ai macelli e alle pratiche sistematiche e organizzate di uccisione. Mi viene in mente una delle ultime puntate del podcast Pianeta B12 che tratta acutamente tematiche etiche e di sostenibilità e in cui ospiti di diversi contesti forniscono loro pareri e testimonianze. Una recente puntata ha visto come protagonista lo scrittore Gianluca Gotto: a un certo punto dell’intervista, racconta di aver assistito a «uno spettacolo dell’orrore, che non avevo considerato potesse succedere. C’erano questi animali che venivano presi dagli operatori, agganciati a un nastro trasportatore per il collo. A un certo punto loro si dimenavano passando su questo nastro trasportatore, c’era una lama che gli tagliava la testa». Quello che il romanziere evidenzia è il terrore sui musi dei polli, l’odore della morte che pervade la stanza. Questo è ciò che avviene dietro le porte chiuse dei macelli e non è un caso isolato: è il culmine di un processo fatto di torture e violenze.
Gli animali destinati al macello in Italia vivono esistenze brevissime, brutalmente recise ben prima di avvicinarsi al loro arco vitale naturale. Fra le prime vittime ci sono i polli da carne — i richiestissimi e osannati polli “da allevamento a terra” — che in condizioni naturali potrebbero vivere 5-8 anni, ma vengono uccisi dopo appena 40-50 giorni. In quei pochi giorni trascorsi in vita, sono rinchiusi in capannoni sovraffollati, immersi nell’odore acre di ammoniaca, con spazi così ridotti da impedire persino di aprire le ali. Nella campagna del 2023 nei confronti di Lidl in difesa dei polli, Essere Animali denunciava: «Sovraffollamento, rapido accrescimento che porta a deformazioni e sofferenze, morte precoce, problemi all’apparato locomotorio, carenze igienico-sanitarie, ma anche violenze da parte degli operatori». Corpi che si spezzano sotto il peso della carne che li rende “prodotti da banco”.
Lo stesso destino spetta ai maiali, che in natura vivrebbero fino a 15 anni, ma che qui finiscono al macello tra i 6 e gli 11 mesi. Le scrofe, sfruttate come macchine da riproduzione, trascorrono tutta la loro esistenza in gabbie di metallo che non permettono loro nemmeno di girarsi. A proposito della maternità per le scrofe CIWF descrive: «La gabbia provoca grandi sofferenze e stress alla scrofa. In quello spazio angusto può stare solo in piedi, o sdraiata, e non può compiere altri movimenti che pochi passi avanti e indietro. In più, non ha spazio per depositare i propri escrementi o per grufolare, soffre di fame cronica ed è apatica. Queste condizioni la portano a sviluppare comportamenti stereotipati, come mordere le sbarre». A questo si aggiungono mutilazioni sistematiche: code mozzate, denti limati, castrazioni a sangue vivo, senza anestesia, come confermato dalle indagini sotto copertura di Animal Equality. Il “circo dell’orrore” continua con i bovini. Animali che potrebbero vivere vent’anni vengono invece uccisi da vitelli, già a sei mesi, o intorno ai 24 mesi per la carne. Nel 2018, le immagini raccolte in un macello del Nord Italia mostravano bovini coscienti appesi per una zampa e dissanguati, con il sangue che scorreva mentre gli occhi degli animali restavano vigili e atterriti.
Dietro le porte chiuse dei macelli italiani, spesso lontani dai nostri occhi, la realtà è questa: vite che in natura durerebbero anni si consumano in poche settimane o mesi, ridotte a numeri su una linea di produzione. Le immagini raccolte negli ultimi anni non sono eccezioni: sono frammenti di una quotidianità che resta invisibile a chi consuma la carne confezionata al supermercato. Persino i rapporti ufficiali, dal corpo veterinario del Ministero alla Commissione Europea, parlano di stordimenti inefficaci, controlli insufficienti, strutture obsolete: un linguaggio burocratico, freddo, che tradotto significa dolore vivo e sofferenza. E allora mi chiedo: fino a che punto possiamo accettare che la logica della produzione cancelli ogni traccia di dignità animale? Non troveremo la risposta nei regolamenti, nelle leggi, o negli standard di produzione. Possiamo trovarla noi, chiedendoci cosa si nasconde dietro un piatto di carne.
Per approfondire:
- Essere Animali — Indagini sotto copertura (pagina indice). Essere Animali;
- Animal Equality — Pagina inchieste macelli/indagini italiane. Animal Equality Italia;
- Audit Dg Sante (report d’audit Italia — gennaio 2021). European Commission;
- Articolo Corriere (2016) su indagine allevamenti fornitori prosciutto Parma. Corriere della Sera;
- Indagini e reportage recenti su Levoni / altri casi (Essere Animali 2024). Essere Animali.
Copertina via ISDE News.
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
