Riflessi nel mare

Ho sempre amato il mare. È parte di me, è casa. Dal balcone di casa mia lo vedo chiaramente, è davanti a me: dista qualche kilometro, ma io lo scorgo senza difficoltà. Vedo quel blu che si staglia all’orizzonte, le sfumature di colore che si mischiano con il cielo, quasi sempre intensamente limpido. E, poi, qualche costruzione qua e là: antichi casali di pietra, piccole case di campagna, tutti immersi fra gli uliveti e i ciliegeti rigogliosi.
Quando ero più piccola non vedevo l’ora arrivasse il momento di passare una giornata in spiaggia e svegliarmi presto non era un problema. Il sole ancora timido, la città ancora assonnata e, vicino a me, la borsa pronta dalla sera prima: questo era ciò che bramavo di provare per l’intero anno scolastico. Ed eccomi pronta per partire, insieme alla mia famiglia e, ogni tanto, qualche conoscente. Non vedevo l’ora che il mio corpo venisse a contatto con la fresca brezza marina: per me era impagabile sentire sotto il palmo dei piedi le conchiglie, la sabbia ancora fresca e pungente, e poi l’acqua: fresca, a volte un po’ troppo, ma questo non mi fermava.
C’era qualcos’altro, però, che mi tratteneva: qualcosa che provavo a dimenticare.
Prima di potermi tuffare, veniva il momento di dovermi svestire dagli abitini leggeri che mi coprivano il costume, che mi proteggevano. Spogliandomi, non potevo più nascondere quei rotolini sul mio addome e delle gambe troppo “piene” che spesso chi era intorno a me non tardava “scherzosamente” a commentare.
Crescendo, quelle parole mi sono ritornate spesso alla mente, e l’estate acquisiva ogni anno di più quel sapore dolce-amaro, motivo per cui non riuscivo a godermi pienamente la mia stagione preferita. Nonostante il caldo, cercavo di tenere coperto quanto più potevo del mio corpo di bambina prima, poi di adolescente, e infine di giovane adulta. Per molti anni quella che guardavo allo specchio era un’immagine deformata, un’astrazione, una continua e catastrofica metamorfosi del mio fisico. Non importava come fossi davvero: ero comunque sbagliata, imperfetta. Ma ero, e forse un po’ lo sono ancora, una bambina. Quelle parole risuonavano come un’eco nella mia testa, e non mi lasciavano mai. Oramai, non solo l’estate: anche la primavera, l’autunno, l’inverno. Tendevo a guardare il mio riflesso allo specchio meno che potevo, in occasioni necessarie ma irrimediabilmente dolorose. Mi guardavo intorno: speravo di avere un corpo diverso, non importa di chi, ma un altro. Uno qualsiasi, ma non il mio. Mi ero convinta di non andar bene, in nessun modo: chiunque vedessi era meglio di me.
Qualcosa, poi, ha iniziato a cambiare. Avevo capito che avevo ascoltato troppo le parole di chi mi idealizzava, di chi mi voleva diversa, in perfetta forma. Mi ero chiesta: «Ma quale dovrebbe essere la forma perfetta?». Quel dubbio ha rappresentato il mio punto di svolta. Quella mia esitazione, candidamente ingenua, mi aveva fatto aprire gli occhi: mi ero resa conto che per me tutti quei discorsi erano vuoti, insensati e che non mi importava di come le altre persone apparissero. Perché avrei dovuto preoccuparmi della mia forma fisica, allora?
Sono certa, dopotutto, che molte altre bambine, ragazzine e donne abbiano provato quello che ho provato io. Per molti anni, sono stata troppo concentrata su quelli che mi avevano convinto fossero difetti per rendermi conto che altrettante donne, fieramente, vestivano a loro gusto, audaci, non curanti dello sguardo altrui.
Così ho iniziato anche io. Ora cammino per strada con più libertà, ma anche con più consapevolezza, perché lo sguardo giudicante di estranei ed estranee, parenti o persone vicine, purtroppo, esercita ancora il suo peso.
E forse sì: alcune volte guardo il mio riflesso allo specchio pensando che potrei essere diversa, ma non mi importa. Va bene così. Vado bene così.
Ora posso tuffarmi nel mare.

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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