Un prodotto chiamato donna

«Il corpo della donna in pubblicità: la scorciatoia preferita per chi è a corto di idee»
dal blog di Massimo Guastini, presidente dell’Art Directors Club Italiano.

Oggi si fa un gran discutere di educazione al rispetto sapendo che la violenza nasce e si sviluppa all’interno di un contesto sociale: la rappresentazione ritenuta “normale” ma oggettivizzata delle donne è uno degli elementi di tale contesto. C’è una linea di continuità tra simbolico e materiale: se un medium popolare filtra una descrizione del genere femminile legata a un ruolo degradatoo a tratti che ne minano la dignità, i comportamenti di ambedue i sessi ne rimangono fortemente influenzati.
Le pubblicità, pervasive come non mai, veicolate da parole e da immagini in ogni luogo con ogni canale a tutte le ore di tutti i giorni, vendono qualcosa di più dei prodotti. Vendono valori, vendono i concetti di amore e sessualità, di desiderabilità e successo, additano gratificanti prospettive di felicità. Forse ancora più importante, vendono il concetto di normalità. Ci dicono chi siamo e chi dovremmo essere, assumendo una funzione non solo descrittiva ma propositiva. Anche se in superficie sembrano rinnovarsi, per entrare facilmente nell’immaginario confidano su stereotipi radicati.
Umberto Eco parlava in proposito di «retorica consolatoria».
Per decenni la società civile ha lavorato per rendere più rispettosi i più diffusi canali di rappresentazione del genere femminile. Si pensi all’istituzione della Fondazione Pubblicità Progresso del 1971, o alla nascita (66 anni fa) dello Iap, l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria. Nel 2008 il Parlamento europeo ha approvato la proposta di abolire la pubblicità sessista.
Nei Codici di autodisciplina varati fin da allora non si asserisce che il corpo umano se scoperto è volgare: volgare è la sua mercificazione, insopportabile è sfruttare il corpo di una donna (o peggio, una sua parte) e usarlo come specchietto per le allodole per vendere cose.
Nel frattempo però abbiamo dovuto sorbirci per decenni, e continuano a imperversare, legioni di specialisti di particolari anatomici commercializzati, creatori di pesanti allusioni ritenute ironiche come «te la diamo gratis» (la montatura degli occhiali, la patata, la palestra), «vienimi dietro» (lo scooter), «daglielo il mano» (il cellulare), «la vogliono montare tutti» (la moto), «montami a costo zero» (pavimento), «fantastica all’etto» (la mozzarella), «amo l’attrezzo» (ferramenta),«carne naturale a km zero» (le bistecche), «mettile a 90 gradi» (la lavatrice), ecc.

Ovunque la figura femminile, distolta da qualsiasi dimensione soggettiva ed esperienziale, diviene puro segno al servizio della società dei consumi. Accade perfino ai corpi infantili.
Esponendo un nudo o un suo pezzo (lato A, lato B) si può pubblicizzare qualunque merceologia, dalla carne al caffè, dalle piastrelle alle betoniere. Perfino i cofani funebri. Abbiamo dovuto registrare (ne ho raccolto un pecoreccio repertorio) donne-cavatappi, donne-bancone, donne-tavolo, donne-prosciutto, donne-torta, donne-mattone, donne-caramelle («una tira l’altra»). «Guardami, accarezzami, toccami, scuotimi, provami. Io sono la tua Giulietta». Donne che friggono le patate o lavano vetri e pavimenti in abbigliamento succinto. Tutte obbligatoriamente nude o seminude; magari decapitate, il volto è superfluo.
Dal profumo ai gioielli, dagli orologi alle scarpe, anche le grandi firme ricorrono a immagini sexy per attirare l’attenzione: un’attenzione che presenta in controluce un’immagine tremendamente riduttiva e banalizzata del genere maschile, inchiodato senza scampo ai propri istinti, bisognoso di sentirsi stuzzicato con mezzucci dozzinali, protagonista di battute da caserma. La tua vita sessuale non è soddisfacente? Ti offriamo noi una fantasia migliore.
Tutto misero, tutto già visto, tutto vecchio.

La novità che ci porta quest’ultimo scorcio del 2025 è un emendamento al Codice della strada a firma del capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia Lucio Malan e dell’ex sindaco di Catania, anch’egli FdI, il senatore Salvo Pogliese: propongono di eliminare il divieto — datato 2021 — «sulle strade e sui veicoli» di «qualsiasi forma di pubblicità il cui contenuto proponga messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali».
Il motivo? I divieti sono forme di censura, limitano la libertà di espressione. Questa posizione di politica culturale è paradossalmente condivisa dal movimento Pro-Vita, che la libertà la limita persino alle insegnanti; è paradossalmente nata in seno a un partito che vara leggi speciali contro le proteste delle piazze, che vieta le parole nelle università, che invoca pene più dure contro chi critica.
La parola ‘libertà’ volteggia così spesso nell’aria che si deteriora: il sovvertimento del lessico, la torsione dei concetti sono stati praticati con successo fin dai lontani anni ’80 del secolo scorso, quando si fece credere che accaparrarsi l’etere da parte di privati fosse un atto di libertà; quando si scambiò per autodeterminazione l’assoggettamento dei corpi femminili agli imperativi del consumo; quando si aggiunse -ismo alla radice del termine e si elevò il mercato a unica legge, perfino nelle scelte di candidate alle elezioni. Il tutto avvenne in modo non solo soft ma seducente, fu rivestito di lustrini e paillettes, gonfiato di promesse di successo. Si chiamarono bigotte e retrograde le persone che non si adeguavano all’andazzo, si confuse l’etica con il moralismo.
Oggi viviamo i cascami di quel tempo, molto più cupi. Ex membri di gruppi eversivi, militanti di estrema destra, nostalgici del fascismo, amici di regimi autoritari, esternano a ruota libera in nome della libertà.
Non c’è niente di bigotto o di illiberale nel parlare di rispetto e di dignità. Noi donne possiamo sentirci sessualmente disponibili, possiamo indossare capi succinti, però non è la nostra unica aspirazione, non attraversiamo la vita tra smanie sessuali, non ci proponiamo come esche.
Reagire a un clima che ci umilia non è togliere spazio alla vita e al desiderio, bensì riconoscere come inaccettabile un sistema di sopraffazione mascherato da libertà.

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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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