Clara sereni. Una storia chiusa

La protagonista del libro è Giovanna, una giudice costretta ad anticipare il pensionamento e a far sparire le sue tracce. Per evitare le ritorsioni conseguenti al ruolo decisivo avuto in un processo per mafia, taglia i ponti con la sua vita precedente, saluta la vecchia madre, cambia identità e si nasconde in una casa di riposo.

Per motivi diversi, Clara Sereni, a sessantasei anni, fa una scelta analoga, andando a vivere in un piccolo appartamento all’interno di una residenza per persone anziane: ancora una volta, dunque, autobiografia e immaginazione si confondono. E ancora una volta la scrittrice si muove tra la forma narrativa del frammento e la tensione verso il romanzo unitario: il libro stavolta è suddiviso in capitoli contrassegnati dai nomi dei mesi che si susseguono dal marzo di un anno non definito al febbraio di quello successivo; all’interno di ogni capitolo Giovanna, ora diventata Giulia, e Claudia, l’assistente sociale, registrano e commentano gli accadimenti quotidiani di cui sono partecipi o spettatrici. Alle loro voci si alternano quelle di alcuni dei residenti che raccontano le stesse vicende in prima persona, ciascuno dal suo punto di vista, mescolandole con ricordi e fantasie.
In una narrazione polifonica, messa insieme con frammenti ritagliati dalle storie di persone diverse per il loro passato, per cultura e condizione economica, costrette a vivere fianco a fianco dalla mancanza, più o meno grave, di autonomia e dalla solitudine, più o meno assoluta, Sereni abbraccia in uno sguardo complessivo la storia del nostro paese e dipinge l’affresco di un’intera generazione. La generazione degli uomini e delle donne, che dopo aver attraversato gli anni del fascismo e della seconda guerra, hanno vissuto un’epoca di passioni contrapposte e poi la disillusione di speranze a volte travolte da violenza e sangue. Come nel Lupo mercante, dove si concentrava quasi unicamente sull’universo femminile, lo sguardo della scrittrice è definitivamente disincantato e l’amarezza è il sentimento che percorre questo penultimo romanzo.

Tra i tanti protagonisti spiccano le figure di Olga e Carlo, legati da una militanza politica che ha origini diverse. Olga non ha più vissuto davvero, da quando ha perso un figlio in circostanze che neppure a Carlo è mai riuscita a raccontare: «Una volta ha farfugliato di una manifestazione e degli spari della polizia, un’altra ha raccontato che è morto in carcere per le botte, l’anno scorso mi ha detto che erano stati i fascisti durante un attacchinaggio di manifesti. Una volta mi ha detto che era stato avvelenato da agenti del Sifar, per una questione di segreti di Stato, un’altra che era morto in un cantiere».
Ne conserva la memoria con un rito che rinnova puntualmente nell’anniversario di ciascuno degli innumerevoli eventi in cui una protesta di operai o contadini in lotta per i loro diritti, o anche una semplice manifestazione sindacale, si è conclusa con una strage, da Portella della Ginestra, a Reggio Emilia, a Piazza della Loggia e così via: lo fa accendendo un numero di candele e moccoli uguale a quello delle vittime. Lo fa di nascosto, perché la cerimonia rischia di provocare un incendio, ma ha un complice fidato in Carlo che l’accompagna nelle frequenti spedizioni necessarie a procurarsi il materiale.
Carlo è stato partigiano e ha anche lui un segreto: conserva la sua pistola e ogni tanto va in luoghi nascosti a sparare, con la scusa di provarla per assicurarsi che sia ancora efficiente. Olga lo chiama Johnny, un nomignolo in cui è facile cogliere l’allusione al libro di Fenoglio. Carlo è più intransigente di lei nel tenere il conto delle morti causate dalle stragi di cui si può addossare la responsabilità allo Stato, come quelle provocate dal crollo della diga del Vajont, e la convince a ricordare con decine e centinaia di candele ciascuna delle vittime, affollando il calendario di ricorrenze luttuose. Ma a un certo punto è proprio lui che si stanca del rito, sente che è arrivato il momento di lasciare tranquilli i morti, per pensare ai vivi: «Mi piacerebbe costruire qualcosa di nuovo. Anche piccolo piccolo, però nuovo. […] Voglio tenermi bella stretta la memoria nell’insieme, la consapevolezza delle responsabilità. Ma mi sembra che il ricordo minuto, la celebrazione del singolo delitto, l’enfasi sulle singole vittime possano portare solo alla vendetta, e così tutto continua all’infinito […] A me importa molto di chi oggi campa, di quello che succede adesso, qui sotto casa e noi mica ce ne occupiamo. I morti di adesso non contano per nessuno, tanto non si sa nemmeno come si chiamano, o caso mai hanno nomi starni: se pure un nome ce l’hanno, che lì da dove vengono non c’è nemmeno l’anagrafe».

Anche Dante ha combattuto le sue battaglie per l’applicazione della Costituzione e la difesa della democrazia. È stato insegnante e preside e ha pronta per ogni circostanza una bella frase latina. Convinto com’è sempre stato che le armi migliori per difendere la democrazia si trovino nella cultura e nei libri, è tormentato dalla scomparsa di una nipote che, benché uscita indenne dall’accusa di terrorismo, non dà notizie di sé alla famiglia da molto tempo. Occuparsi della biblioteca non gli basta, ma ha una nuova passione, incomprensibile per il mondo che lo considera uscito di senno: con fili di seta colorati ricama su tele preziose frasi e parole da non dimenticare. Ne ha fatto una piccola mostra, ma pochi sono venuti a vederla e nessuno lo capisce; neppure la figlia Franca, che, finita l’esposizione, si affretta a staccare di mala grazia le stoffe dai pannelli e a impilarle in cima all’armadio a muro: «Mette una sopra l’altra le parole in disordine, senza lasciar loro un senso: perché “lavoro”, come nella mostra, andrebbe accanto a “proprietà privata”, e “popolo” accanto a “potere”. Ammucchia ammucchia, a costo d rovinarne il tessuto, ed è inutile che provi a dirle qualcosa […] mi direbbe che sono parole vecchie, oggi ci vuole ben altro. Che la Costituzione non l’ha mai letta, perché è un mattone. […] Per me, fuori dal mucchio, ho tenuto proprio la parola “Costituzione”, che le assomma tutte: anche se i muri sono già troppo pieni, me la terrò sul tavolino, vicino al televisore, per ricordarmi di me. Che so ricamare, mica altro. Oppure chiederò se posso appenderla in biblioteca, che qualcuno ci faccia almeno un pensiero sopra».
A essere incuriosito da quella parola e a chiedergli una copia della Costituzione sarà proprio Carlo, che però gliela restituirà deluso: quel libro non parla di lui, non rappresenta l’Italia reale. E quando Dante gli chiede di suggerirgli una parola da ricamare, una parola che gli sembri importante, risponde: «”Le parole sono parole e basta, valgono il fiato che serve per pronunciarle e volano via subito”. “Ma se per esempio ti dicessi “resistenza”? […] “Ti direi che la resistenza di un ferro da stiro non so aggiustarla”».
Le cornici per i pannelli della mostra, e anche il telaio per ricamare, a Dante glieli ha costruiti Federico, che è bravissimo a fare lavoretti di fino. Federico ha alle spalle un passato burrascoso di cui testimonia una cicatrice che gli sfigura il volto, senza tuttavia cancellare del tutto una fisionomia che a Giovanna/Giulia ricorda qualcosa. Ma custodisce caparbiamente anche un altro segreto: suona la tromba da virtuoso e, perché nessuno lo senta, esce spesso di nascosto e si allontana il più possibile. «Qui tutti hanno paura dell’inverno, si lamentano per ogni alito di vento. Per me arriva sempre troppo tardi, con il freddo la mia passeggiata quotidiana si allungherà: quando posso coprirmi il viso con la sciarpa non rischio i sussulti di chi incrocio e neanche gli sguardi pietosi. Al parco non c’è un cane, così posso suonare tranquillo. La donna con cui vivevo, conquistata con un assolo di tromba anche se allora non ero granché bravo, quando mi vide tutto ustionato sussultò. Dopo, quando il trapianto riuscì male, mi guardava sempre con compassione. Faceva tutto quel che serviva, ma un bacio non me lo diede mai più».

Di Federico è segretamente innamorata Eugenia, che si crede ricambiata ed è gelosa di qualsiasi altra donna si trovi anche per caso seduta accanto al suo idolo. Rimpiange la città in cui è nata, Napoli, e commenta cantando ogni minimo evento. La sua passione sono le canzoni napoletane, ma intona volentieri le arie delle opere liriche famose. Sogna di poter ballare ancora il valzer tra le braccia di Federico o di un altro dei suoi presunti spasimanti, anche se le ginocchia scricchiolano e l’artrite la divora. È sempre ansiosa del cibo e frustrata dalla consapevolezza delle differenze di classe, evidenti anche in quel piccolo mondo: «Non è giusto. Qui fanno sempre le preferenze: la fetta di cocomero che danno a Giulia è molto molto più grande della mia, che oltretutto è piena di semi e non si sa come mangiarla. E del pollo a lei hanno dato il petto e a me la coscia rinsecchita: se si credono che non me ne sia accorta stanno freschi. A lei la trattano meglio perché sanno che è ricca, ce n’ha di quattrini. E allora glieli facessero spendere, invece di regalarle la roba. Tutto a lei e niente a me. Menomale che io ho Federico e non me lo faccio rubare».

All’altro estremo della scala sociale, si trova — o almeno si trovava, da giovane — Virginia, soprannominata Vandaosiris, per la passione con cui continua a sfoggiare abiti profumi e creme, testimonianze del suo passato di attrice. Di tanto in tanto la viene a trovare e la porta a fare un giro in macchina il nipote Lorenzo, e lei ne è contenta, anche se non ignora che le visite sono motivate più dal desiderio di spillarle soldi che dall’affetto. Finché, un giorno, Lorenzo arriva al volante di una macchina di lusso: le racconta di averla comprata grazie a una vincita al grattaevinci e si mostra insolitamente generoso, al punto da insistere perché si unisca a loro, per una scarrozzata e magari un gelato, anche Margherita — una donna tristissima, sempre vestita di nero, che ha un figlio tossico, coinvolto in traffici pericolosi — della cui compagnia Virginia farebbe volentieri a meno: «Lorenzo si mette alla guida, io naturalmente accanto a lui. Margherita siede dietro. L’auto mi sembra potente, però lui va proprio piano, sceglie strade mai viste e lunghe. dicendo che così si evita il traffico. Lorenzo chiacchiera e fa mille domande a Margherita e ride e scherza. In genere si annoia visibilmente e cerca di andar via il più presto possibile, invece stavolta sembra non pensarci proprio e alla fine sono io che chiedo di tornare».
Ma al rientro nella sua stanza Margherita la trova devastata: «La mia vita, o quel che ne resta è in pezzi: la poltrona sventrata, il materasso sbudellato, gli abiti buttati in terra, i pochi piatti che ho in frantumi, un disastro. Tutte le foto strappate, anche quella di Roberto, che tengo sul comodino. L’unica cosa che mi viene in mente è andare via, scappare. Ma non so dove. Questo doveva essere il mio rifugio dai ricatti dalle botte dai furti. Da rubare non ho più niente, anche Roberto lo sa benissimo».
Toccherà a Giulia accogliere Margherita nella sua stanza ed è a lei che la donna consegnerà la chiavetta che era l’obiettivo dei ladri — di cui evidentemente Lorenzo è complice — riaccendendo nella ex giudice il desiderio di tornare a indagare: una nota noir che movimenta la vita monotona di tutti i residenti. Come il ritorno di Marta, la nipote perduta di Dante: sarà lei a riuscire a mettere insieme gli ospiti della residenza nel coro che sorprende Carlo e Olga al ritorno da una cerimonia diversa da quelle luttuose che hanno condiviso per anni. Contagiata dal desiderio di vita di Carlo. Olga ha accettato di sposarlo, per cogliere finalmente qualche briciola di felicità.
Per festeggiarli, le voci dissonanti di coloro con cui si trovano a condividere la quotidianità riescono ad accordarsi, sia pure per un’ora, nel tentativo di riconoscersi in un’appartenenza comune; e accettano che la loro storia individuale sia definitivamente chiusa.

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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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