Nel mondo dell’arte è conosciuta come Edita Broglio, ma il suo vero nome era Edita Walterowna von Zur-Muehlen. Nata nel 1886 a Smiltene, in Lettonia, allora una provincia dell’impero russo, apparteneva a una famiglia aristocratica le cui origini si allungavano fino alla più antica nobiltà feudale dell’area baltica. Quando giunse a Roma, nel 1912, fu accolta con favore negli ambienti vivaci e internazionali della capitale: Edita aveva ventisei anni, alle spalle una vita complessa e per certi versi rocambolesca, nell’anima la passione intensa per la pittura e in generale per l’arte, che aveva soppiantato tutto il resto durante il soggiorno a Parigi. Ma procediamo con ordine.

Dopo la morte della madre, fu lo zio paterno Raimund von Zur-Muehlen, apprezzato cantante d’opera nelle corti zarista e prussiana, a infondere nella giovane nipote l’amore per l’arte, la letteratura e gli ideali libertari. Edita cominciò ad avvicinarsi ad ambienti rivoluzionari, che lo Stato zarista costringeva alla clandestinità, e a prestare servizio come crocerossina a Riga; in seguito, a causa degli avvenimenti della Rivoluzione russa del 1905, il clima sociale si fece ostile per le famiglie aristocratiche ed Edita si trasferì col padre a Königsberg, allora territorio prussiano, dove cominciò a frequentare l’Accademia di Belle Arti. Il centro del mondo artistico di quegli anni però era a Parigi ed Edita sentì forte quel richiamo. Nella capitale francese, dove andò a vivere già dal 1910, più che seguire gli studi accademici preferì frequentare le vaste sale del museo del Louvre, respirare l’aria del passato studiando la pittura e la scultura classica e quelle rinascimentali; fu conquistata anche dagli ambienti legati ai Balletti Russi e dall’arte contemporanea, soprattutto dai linguaggi fauve e dell’Espressionismo di Monaco.
Dopo Parigi, sollecitata anche dalla frequentazione del Museo del Louvre e dallo studio dell’arte classica e rinascimentale, Edita compì un viaggio in Italia, prima a Firenze e successivamente a Roma che, dal 1912, divenne la “sua” città. Giovane, benestante, senza legami, con un’ampia cultura europea e un profondo senso di indipendenza, si inserì nel mondo artistico della capitale con felice disinvoltura, accolta nel salotto di Olga Resnevič Signorelli, lettone come lei (https://vitaminevaganti.com/2023/07/08/via-xx-settembre-n68-il-salotto-internazionale-di-olga-resnevic-signorelli/), dove conobbe artisti e artiste legati agli ambienti più innovativi della capitale.


La pittura di quel periodo, che la stessa Edita definì «incandescente» e che doveva molto alla forza della luce mediterranea, accendeva di magica intensità i colori sulla tela, si allungava in distorsioni dal basso oppure in visioni dall’alto che, più che rimandare al reale, sembravano guidare verso dimensioni oniriche. Un periodo che «è stato — sono parole della stessa Edita — emotivo e fenomenico, ispirato all’influsso del [sic] dardeggiante iridescenza dei raggi solari fattisi luce scintillante la quale investe le cose, ridotte evanescenti sino ad esserne divorate. Ancora mi rivedo camminare per i viali e le redole, in una luce vertiginosamente smagliante e da essa assorbita, fatta leggiera, incorporea come goccia di rugiada mattutina assorbita dal calore solare e svanita nel nulla».

L’esordio pittorico dell’artista coincise con quello del gruppo della Secessione romana: Edita espose sia nella prima (1913) che nella seconda edizione (1914), accanto a tante pittrici e pittori che avevano imboccato nuove vie di espressione. Si portava dietro il bagaglio dell’arte europea, l’espressionismo tedesco ma anche molto Cézanne. «Alta, fragile, il suo sorriso bianco sotto i capelli biondissimi aveva qualcosa d’infantilmente incantato e anche di spontaneamente affabile»: così l’ha descritta Anna Banti (Quando anche le donne si misero a dipingere, 1982) aggiungendo poche righe dopo: «Poiché detestava gli alberghi alloggiava presso una stramba famiglia di estetizzanti che, approfittando della sua naturale generosità, saccheggiarono il suo guardaroba senza che lei se ne accorgesse». La tranquillità economica, che fino ad allora l’aveva accompagnata, ebbe una svolta negativa con la morte del padre e proseguì il declino negli anni della prima guerra mondiale e delle vicende rivoluzionarie russe: le rendite scomparvero, divenne difficile mantenere lo studio in cui lavorava e frequentare l’ambiente romano.
Decise così nel ‘15 di trasferirsi ad Anticoli Corrado, il paese di Pasquarosa Marcelli Bertoletti (https://vitaminevaganti.com/2025/08/23/pasquarosa-marcelli/), delle modelle e degli artisti alla ricerca di nuovi linguaggi, un ambiente certo meno ambizioso rispetto alla capitale; nel 1917, sempre inseguita dalle difficoltà economiche, volle intraprendere nuove strade alla ricerca di miglior fortuna.

Chiese perciò ai fratelli Bragaglia un ingaggio come attrice e nel loro studio conobbe il pittore, scrittore ed editore Mario Broglio. «Fu subito chiaro» prosegue nel suo ritratto letterario Anna Banti «che la coppia Broglio-Zur-Muehlen era, per così dire, predestinata, soprattutto per il modo comune di intendere la pittura in un linguaggio intensamente intellettuale. Più che dipingere, infatti, essi “parlavano pittura” e, naturalmente incessantemente discutevano». Si conobbero per caso e non si lasciarono più, arte e vita familiare mescolate in un intreccio in cui la relazione tra loro, ha scritto Martina Corgnati in Artiste. Dall’Impressionismo al nuovo millennio (2004), non sembra articolarsi in termini di sacrificio, «ma piuttosto di valorizzazione e scambio reciproco». È la ricostruzione storiografica successiva, almeno sino alla metà degli anni Sessanta, ad aver mortificato il contributo di Edita nella fondazione, nell’attività editoriale e artistica della rivista Valori plastici, attribuendo quasi in modo assoluto a Mario Broglio la paternità della pubblicazione e la mente ideatrice, trascurando e lasciando in un cono d’ombra il contributo della pittrice. Eppure Mario aveva sottolineato l’importante ruolo avuto da Edita nel suo ritorno alla pittura: «La verità è che io non avrei ripreso a dipingere se tu non me ne avessi fatto rifiorire il gusto tenendo la fiammella accesa con costanza e amore. Ma io debbo pure dire che la nostra intelligenza ha lavorato sempre insieme e io ti sono venuto dietro come un bambino».


Con il gruppo di artisti che si coagulò intorno alla rivista Valori plastici, Edita espose alla Fiorentina primaverile (1922) introdotta dalle importanti parole di Alberto Savinio: «L’esempio della signora Edita Walterowna Zur-Muehlen ci dà sicuri affidamenti che l’arte plastica, trattata dalle donne, si avvia verso sicuri destini. Maschi, inchinatevi». Nel generale ritorno all’ordine europeo, l’arte espressa da Valori Plastici si presentò come linguaggio pittorico proiettato idealmente tra tradizione italiana (trecentesca e quattrocentesca) e innovazione. Le opere e i disegni di Edita, esposti a Firenze e pubblicati sulla rivista, contribuirono a delineare i contorni di questa nuova espressione che, come scrisse sempre Alberto Savinio, «seppe indirizzarsi per una via di consolidamento della forma e degli aspetti».
La pittura di Edita Walterowna Zur-Muehlen, che nel 1927 sposò Mario acquisendo il cognome maritale Broglio con cui è più conosciuta, proseguì negli anni Venti e Trenta con un linguaggio «di purezza cristallina, d’immobile trasparenza, senza vicende o casualità, di un mondo invariabilmente fermato in una visione rigorosamente composta e librata in sigle compositive e in toni raffinati e contenutissimi», come scrisse Carlo Ludovico Ragghianti per il catalogo della mostra fiorentina Edita Broglio del 1971.

Una pittura che guardava alla tradizione italiana trovando in un passato rivisitato «una miniera inesauribile» e nelle proporzioni, nella forma e nella tridimensionalità il cammino alternativo rispetto alle esperienze di avanguardia. Un rigore spaziale e compositivo che servì a Edita per «distinguere tra parvenza e realtà» delle cose, come scrisse lei stessa nel catalogo del ’71, in una ricerca artistica che esigeva «disciplina, moderazione, ubbidienza» perché «solo la forma è capace di dare vita al contenuto».

I suoi dipinti apparivano immobili e stranianti, pur nell’esattezza e nella purezza della forma, i colori sobri, nella chiarezza della luce, erano declinati in minime variazioni di estremo lirismo, come in Uova fresche realizzato alla fine degli anni Venti.

Il linguaggio della pittrice si esprimeva con un periodare simile a quello di altre ricerche dell’arte italiana tra le due guerre, non lontana dall’esperienza di Giorgio Morandi o di Felice Casorati, ma a lungo priva della medesima attenzione e considerazione. La sua colta ricerca artistica ha dimostrato una conoscenza approfondita dei grandi esempi del passato, in primo luogo quello di Piero della Francesca che aleggia nei ritratti femminili della fine degli anni Trenta, come Ritratto, del 1938, che la pittrice espose l’anno successivo alla III Quadriennale d’Arte Nazionale di Roma sotto lo pseudonimo di Rocco Canea.


Dopo la morte del marito Mario, nel 1948, Edita ritornò a una ricerca più personale e particolare, restando a vivere nella casa di San Michele di Moriano, in provincia di Lucca, dove si erano trasferiti e dove Mario era morto. Una vita appartata, in solitudine ma immersa ancora nell’arte. La realtà che riproduceva nei dipinti appariva per certi versi sospesa, con un linguaggio pittorico che richiamava le atmosfere silenti e immobili del Realismo Magico, in cui protagoniste erano molto spesso le figure femminili.

Un’aura di mistero che il maestro Giorgio De Chirico, suo grande amico e ammiratore, sembrò allargare alla sua esistenza ricordando un episodio: «Edita era una donna strana ed enigmatica. Ricordo che una notte, io con Broglio ed alcuni nostri amici eravamo andati a passeggiare dalle parti di Valle Giulia. Era tardi forse mezzanotte. Broglio ci aveva detto che aveva lasciato Edita a casa. Ad un certo momento abbiamo sentito un canto misterioso che veniva da un albero vicino a noi, ci approssimammo e vedemmo Edita a cavallo su un grosso ramo che cantava una aria strana con gli occhi che guardavano le stelle. Ora io mi domando come si può stare a casa e allo stesso tempo su un albero che distava parecchi chilometri dalla casa di Edita».

Dal ’55 tornò a vivere a Roma, a volte esponendo le sue opere, come per esempio nella Quadriennale romana del 1959, continuando a lavorare per Valori plastici e in seguito, già molto anziana, curandone l’archivio. Dopo la morte avvenuta all’inizio del 1977, riposa nel cimitero acattolico di Testaccio.
In copertina: Paese incandescente (part.), 1913, olio su compensato.
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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.
