La violenza sessuale come arma di guerra

Sono ostetrica da molti anni e da poco ho deciso di rimettermi in gioco e iniziare un nuovo percorso di studi: la psicologia ha sempre suscitato in me un grande interesse ed è anche una materia che posso facilmente integrare nel mio lavoro attuale.
Quando è stato il momento di scegliere l’argomento della tesi, mi è stata assegnata come materia psicologia sociale: è una branca della psicologia che studia il comportamento umano all’interno dei gruppi sociali, approfondendo dinamiche complesse come l’influenza sociale, il comportamento di gruppo, il conformismo, gli stereotipi e i pregiudizi.
Essendo interessata a trattare un argomento legato alla discriminazione e alla violenza di genere, ho proposto il tema della violenza sessuale come arma di guerra, dandole il taglio richiesto dalla psicologia sociale. Il lavoro che ne è scaturito è stato molto stimolante per diversi motivi: ci sono pochi studi che si interessano dello stupro come arma di guerra e anche chi ne parla si sofferma raramente sulle cause sociali di queste violenze sistematiche ai danni delle donne, inoltre mi ha permesso di approfondire fatti storici poco noti e poco esaminati all’interno del più vasto insieme dei crimini contro l’umanità.
La storia può e deve essere riletta in chiave femminista e questa tesi si sforza di farlo. A scuola si studiano le guerre e si imparano i nomi e le vite dei grandi condottieri: il tutto è costantemente declinato al maschile e le donne assumono quasi sempre un ruolo marginale, se non del tutto inesistente.
Chi si occupa di violenza di genere conosce molto bene il prezzo pagato dalle donne durante le guerre e si rende pienamente conto che analizzare i conflitti solo in termini di soldati, bombe, vincitori e vinti non è intellettualmente onesto e tantomeno attribuisce alla popolazione civile il suo ruolo di vittima disarmata, ma la silenzia, incasellandola sotto la fredda definizione di “danno collaterale”. Questa tesi si impegna a dichiarare nero su bianco che le donne stuprate in guerra non sono solo numeri, ma sono persone i cui diritti sono stati gravemente violati e la cui sofferenza merita giustizia e riconoscimento.

La tesi è così strutturata:
il primo capitolo analizza i ruoli di genere all’interno dei contesti bellici: da una parte il genere maschile, detentore del potere e delle scelte politiche, e dall’altra il genere femminile come parte passiva che subisce le conseguenze di tali scelte. La forza e la mascolinità dell’uomo si misurano anche sulla sua capacità di proteggere la sua proprietà, donne comprese, motivo per cui violare la donna del nemico significa infliggere una grave punizione all’ego maschile, minandone l’onore e colpendolo nella sua virilità: la cultura patriarcale che sorregge le guerre si mostra chiaramente in queste dinamiche di possesso e potere che rendono il corpo delle donne un vero e proprio terreno di battaglia, su cui vince il più forte.
Il secondo capitolo si addentra nello specifico degli argomenti prettamente legati alla psicologia sociale. Si approfondiscono i concetti di discriminazione, deumanizzazione e genocidio, soffermandosi anche sulla teoria del disimpegno morale di Albert Bandura, secondo la quale esistono dei meccanismi che facilitano il processo di autoassoluzione nei soldati che commettono determinati crimini. Il rispetto degli ordini e della gerarchia, fondamentale negli eserciti, favorisce l’attuazione di condotte violente, giustificate dall’obbligo per i militari di adempiere ai compiti prescritti. Inoltre, vengono citati anche gli studi di Zimbardo, riguardanti la deumanizzazione degli individui che vengono declassati a esseri inferiori, animali o insetti, favorendo quindi l’attuazione di comportamenti violenti nei loro confronti.
Un altro tema trattato è la deinviduazione, ovvero come le dinamiche di gruppo vanno ad annullare o diminuire la percezione della responsabilità del singolo e questo porta i membri a sentirsi legittimati a compiere gesti efferati quali stupri e violenze sulla popolazione civile.
Infine, si parla del tema dello stigma sociale che le donne vittime degli stupri di guerra devono affrontare: dall’allontanamento dal proprio villaggio, al serio rischio di essere uccise per ripulire l’onore della famiglia.
Il terzo capitolo entra nel dettaglio pratico, riportando esempi di violenze sessuali utilizzate come arma durante i conflitti, partendo da due episodi molto noti: la guerra in Bosnia-Erzegovina (1992-1995) e il genocidio del Ruanda (1994). Inoltre, ci si sofferma anche su altre guerre meno note, come il conflitto in Repubblica democratica del Congo (Rdc), in Tigray e il genocidio degli Yazidi.
Si sono anche approfondite le storie di due figure importantissime nella lotta contro la violenza sessuale: Nadia Murad e Denis Mukwege, entrambi vincitori del premio Nobel per la Pace nel 2018.

The Nobel Peace Prize 2018

Quando era poco più che ventenne, Nadia Murad ha subìto sulla sua pelle la prigionia e le violenze da parte dei miliziani dell’Isis dopo che diversi membri della sua famiglia sono stati uccisi, mentre Denis Mukwege è un ginecologo che ha aperto il Panzi Hospital, primo ospedale per l’assistenza sanitaria e psicologica delle vittime di stupro in Rdc.

Nadia Murad e Denis Mukwege

Una ricerca effettuata proprio sulle cartelle cliniche del Panzi Hospital ha evidenziato che solo il 6% degli stupri è stato commesso da civili, mentre tutti gli altri sono stati perpetrati da militari.
Sono state messe in luce anche differenze significative tra le violenze compiute da civili e quelle compiute da soldati: i militari agiscono quasi sempre in gruppo, si macchiano di crimini come la schiavitù sessuale e mettono a segno le violenze irrompendo nelle case delle vittime oppure sorprendendole durante il lavoro nei campi o nelle foreste.
Le violenze descritte dalle donne vanno dalle mutilazioni dei genitali alla penetrazione con oggetti acuminati e contundenti con il chiaro intento di umiliare e arrecare danni irreparabili agli organi riproduttivi.
Anche la guerra in Bosnia Erzegovina è stata una triste testimonianza dell’uso dello stupro come arma di guerra, in quanto è stata dimostrata l’esistenza di campi di stupro in cui le donne venivano condotte e stuprate ripetutamente per provocare gravidanze indesiderate. L’obiettivo era la pulizia etnica della popolazione bosniaca tramite l’uccisione dei membri di sesso maschile e lo stupro delle donne per generare figli di stirpe serba.
Le dichiarazioni delle vittime e i dati presentati all’interno del mio elaborato di tesi rappresentano una piccola goccia di verità e consapevolezza in un oceano di omertà e vergogna. Non smetterò mai di ribadire il concetto che il riconoscimento sociale dello stupro come crimine di guerra permette di punire i colpevoli e assicurare che le vittime ricevano la giustizia che meritano, distruggendo lo stigma associato e garantendo alle donne il supporto sanitario, psicologico e sociale di cui hanno diritto.
Portare in un’aula universitaria una tematica così poco conosciuta è stato per me motivo di orgoglio e spero che sia solo il punto di partenza, affinché la violenza sessuale nei conflitti armati diventi argomento di ricerca ed esca dall’oblìo in cui è stata per troppo tempo confinata.

Qui il link alla tesi integrale: https://toponomasticafemminile.com/sito/images/eventi/tesivaganti/pdf/348_Uboldi.pdf

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Articolo di Elisabetta Uboldi

Laureata in Ostetricia, con un master in Ostetricia Legale e Forense, vive in provincia di Como. Ha collaborato per quattro anni con il Soccorso Violenza Sessuale e Domestica della Clinica Mangiagalli di Milano. Ora è una libera professionista, lavora in ambulatorio e presta servizio a domicilio. Ama gli animali e il suo hobby preferito è la pasticceria.

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