Dopo un pranzo ricco di specialità italiane e locali, corredato da numerosi e proficui scambi fra tutti/e i/le partecipanti, le relazioni del 23 ottobre durante il 1° Convegno internazionale di Toponomastica Inclusiva hanno continuato ad intrattenerci nel pomeriggio della prima giornata di convegno. L’assortito nucleo tematico Toponomastica europea ha presentato diverse prospettive ed esperienze provenienti dal Vecchio Continente, evidenziando incredibili risorse e strumenti. Una di queste è quella presentata da Lorenzo Ferrari che ha curato Mapping Diversity, progetto di giornalismo dei dati promosso da Obct e dallo European Data Journalism Network tra il 2021 e il 2024. L’iniziativa si propone di analizzare l’odonomastica europea per capire come le città si rapportano alla propria memoria collettiva e quanto spazio vi trovino le donne e le figure extraeuropee. Realizzato da 12 giornalisti di 8 Paesi, il progetto ha mappato 32 grandi città in 18 Stati, raccogliendo e analizzando oltre 155.000 nomi di strade, grazie a dati di OpenStreetMap e Wikidata. I risultati presentati da Ferrari, consultabili su mappingdiversity.eu, rimarcano — come è facile intuire — forti squilibri di genere: in media solo il 9% delle intitolazioni riguarda donne — percentuale incontrata già durante la mattinata di convegno —, con punte del 19% a Stoccolma e minimi sotto il 3% in Europa orientale. Ripercorrendo le linee tracciate nelle relazioni precedenti, si è reso evidente che le figure femminili più celebrate sono prevalentemente religiose. Ma il grande merito di quest’indagine è l’aver scoperto anche bias storici e geografici dietro queste intitolazioni (o dietro la mancanza di queste), rendendo più facile intervenirci: nel suo complesso, il valore di Mapping Diversity risiede nel configurarsi come uno strumento aperto e collaborativo per aiutarci a riflettere sulla memoria pubblica e sulla diversità culturale nello spazio urbano europeo, con la speranza di una futura parità di rappresentanza.

Con Mapping a City’s History through its Street Names: A Whimsical Tour of London, la giornalista e scrittrice Deirdre Mask, autrice del volume The Address Book, ci ha condotto in un percorso di scoperta della toponomastica come strumento di lettura della storia sociale e culturale delle città. La sua relazione, densa di suggestioni storiche e aneddoti, ha tracciato un viaggio nella Londra medievale e moderna, rivelando come i nomi delle strade si configurino quali testimoni viventi di usi, mestieri, credenze e trasformazioni urbane. Dai toponimi descrittivi — come Cheap Side, l’antica via del mercato — ai processi di ridenominazione dell’età vittoriana, Mask ha mostrato come la mappa della città sia, in realtà, un sistema simbolico complesso, nel quale le strade definiscono identità e appartenenze, intrecciando linguaggio, potere e memoria collettiva. Nel corso dell’Ottocento, l’espansione urbana e le nuove esigenze postali imposero criteri di ordine e standardizzazione, determinando tuttavia la cancellazione di molte tracce popolari e di memorie radicate nel tessuto cittadino. È in questo contesto che figure come John Snow, con le sue mappe epidemiologiche, o Charles Booth, con la rappresentazione cromatica della disuguaglianza sociale, trasformarono la cartografia urbana in uno strumento di analisi e consapevolezza civile. I moderni sistemi digitali, come What3Words, promettono di rendere l’indirizzo uno strumento universale e accessibile, ma, al tempo stesso, rischiano di svuotarlo del suo valore storico e simbolico, privandolo di quel legame con la memoria e con il vissuto collettivo che la toponomastica tradizionale custodiva. In conclusione, grazie alla prospettiva di Deirdre Mask, emerge con chiarezza come i nomi delle strade non siano semplici coordinate geografiche, bensì un linguaggio di segni, un archivio civico e politico che restituisce la storia delle comunità che li hanno generati. Ogni targa, ogni nome inciso nello spazio urbano diventa così una narrazione stratificata — un frammento di memoria condivisa che continua a parlarci dei secoli, dei poteri e delle vite che hanno costruito le città che abitiamo.

Ci spostiamo in Slovacchia con Milota Sidorova, già direttrice dell’Office of Participatory Planning del Metropolitan Institute of Bratislava e oggi vicepresidente dell’Institute for Territorial Planning della Repubblica Slovacca. Nel suo intervento, Fair Share City: Bratislava’s Gender Planning Approach, Sidorova ha proposto un’analisi lucida e provocatoria sulla rappresentazione di genere nella toponomastica della capitale. Il punto di partenza è stato un semplice database comunale, contenente circa duemila tra strade e piazze: da questi dati, ha realizzato una mappa interattiva capace di visualizzare criteri e tendenze nelle scelte odonomastiche. Il risultato è chiaro, ma sconfortante: solo 17 strade su 2.000, pari allo 0,85%, portano nomi femminili, mentre nessuna piazza è intitolata a una donna. Quelle poche vie esistenti si trovano per lo più in aree periferiche, sono di dimensioni ridotte e marginali rispetto alla rete principale. Le categorie più ricorrenti, ha evidenziato Sidorova, rimandano a figure maschili, elementi naturali, castelli, vini o simboli del passato sovietico — segni di un immaginario urbano ancora fortemente ancorato a riferimenti patriarcali e storicizzati. Una condizione che riflette, secondo la relatrice, la persistente assenza delle donne dai luoghi del potere politico e decisionale, e che trova nella toponomastica un suo corrispettivo simbolico: le strade, come gli spazi pubblici, raccontano chi è stato autorizzato a lasciare traccia e chi, invece, è stato escluso dal racconto collettivo. Come già ricordava Mask, anche Sidorova vede nei nomi delle strade un gesto politico: uno specchio dei valori di una società, ma anche uno strumento di inclusione, se utilizzato consapevolmente. Come nominiamo le strade rivela inevitabilmente come immaginiamo la città. Da qui è nata una campagna civica promossa insieme ad attivisti/e e colleghi/e, per incentivare nuove intitolazioni femminili e coinvolgere urbanisti/e e candidati/e alle prossime elezioni locali, con l’obiettivo di inserire nei programmi un impegno concreto per riequilibrare la rappresentanza di genere nello spazio urbano.

A seguire, la relazione Fair Shared City. Vienna’s Gender Planning Approach, presentata da Eva Kail, urbanista austriaca e pioniera del gender mainstreaming nella pianificazione urbana di Vienna. Da oltre trent’anni, Kail lavora per trasformare la capitale austriaca in un modello internazionale di uguaglianza di genere nello spazio urbano, ridefinendo il modo di pensare e progettare parchi, abitazioni, trasporti e spazi pubblici secondo criteri di accessibilità, sicurezza e inclusione. La sua ricerca mostra come le città — storicamente pensate da uomini per uomini — possano evolvere in luoghi capaci di rispondere ai bisogni di tutte e di tutti, grazie a un approccio di gender planning attento alle pratiche quotidiane. Dalla progettazione dei parchi che tengono conto delle esigenze delle ragazze, alla pianificazione dei trasporti che riflette i percorsi di cura, studio e lavoro, ogni intervento diventa un gesto di riequilibrio e partecipazione. Attraverso progetti pilota e un metodo basato su dati, processi partecipativi e valutazioni d’impatto — i cosiddetti fairness check — Kail ha fatto di Vienna un laboratorio vivo di urbanistica equa e condivisa. La sua visione sottolinea che la città non è solo un sistema tecnico o infrastrutturale, ma uno spazio sociale, in cui la qualità della vita dipende dalla capacità di progettare con e per tutte le persone.

L’architetta e ricercatrice Serafina Amoroso ha presentato la sua relazione dal titolo Toponomastica femminile come azione cartografica, un intervento che interpreta la toponomastica come cartografia attiva: non mera rappresentazione dello spazio, ma dispositivo critico e capacitante, capace di rendere visibile l’azione e la presenza delle donne nello spazio pubblico. Ispirandosi alle letture operative della cartografia di Deleuze e Guattari e di Suely Rolnik, Amoroso ci ha invitato a ripensare l’epistemologia dell’architettura e della città, non come semplici esiti socio-culturali, ma come forze generative di immaginari collettivi. Nominare le strade diventa così una pratica discorsiva e politica, in cui i nomi riflettono poteri, memorie e ideologie: includere figure femminili eterogenee significa ampliare la leggibilità urbana — come suggerivano Jane Jacobs e Kevin Lynch — e favorire nuove narrazioni condivise. Amoroso ha tuttavia messo in guardia contro una lettura della “città-testo” ridotta a esercizio puramente simbolico o elitario: senza alfabetizzazione critica e partecipazione collettiva, ha osservato, rinominare non genera senso, ma rischia di rimanere gesto isolato. Da qui la necessità di promuovere azioni ibride, capaci di coniugare mappatura digitale, biografie e dati, come dimostrano i progetti City of Women e GeoChicas — quest’ultimo volto a visualizzare il divario di genere collegando ogni intitolazione alle relative biografie — insieme alle indagini condotte in città come Madrid, Malaga e Siviglia, che mettono in luce asimmetrie simboliche e lenti progressi nel riconoscimento pubblico delle donne. Nel suo intervento, ha inoltre richiamato una genealogia di spazi creati da donne per le donne — club, case del popolo, lavatoi — e di pratiche performative capaci di costruire memoria collettiva attraverso gesti di anti-monumentalismo e azione civica. Ne emerge una proposta operativa che intreccia approcci disciplinari diversi: analisi e raccolta dati, narrazioni accessibili (come podcast o storytelling multimediali), coinvolgimento attivo degli e delle abitanti ed educazione critica rivolta a cittadini e cittadine, tecnici e tecniche e istituzioni.
L’obiettivo, ha concluso Amoroso, è chiaro e profondamente politico: trasformare la toponomastica in un atto trasformativo, capace di riequilibrare memorie, poteri e usi della città, restituendo alla nominazione il suo valore di gesto collettivo e di cittadinanza attiva.

Dalla Francia, invece, due voci, un obiettivo: trasformare la toponomastica in una leva civica e culturale. Tullia Ciancio parte dall’esperienza storica della “Ville d’Ames” — la rinomina al femminile del 1974 — letta però come esempio statico: senza condivisione e continuità, l’intitolazione non basta a cambiare davvero la città. A Tours, dove nel 2021 solo il 4% delle strade portava nomi femminili, nasce così La Rue aux Siennes, un processo partecipativo che coinvolge direttamente la cittadinanza nella proposta e nella scelta dei nomi, secondo criteri etici e un approccio intersezionale, che include donne, minoranze di genere e culturali, figure locali e internazionali. Il risultato è tangibile: 150 nomi raccolti, 60 già applicati — da Hélène Fournier a Monique Wittig o Ada Lovelace — non solo per nuove vie, ma anche per giardini, piazze e edifici pubblici. La vice-sindaca Elisa Pereira-Nunes ha integrato il progetto in un piano comunale per l’uguaglianza, che comprende spazi pubblici più inclusivi (panchine, aree di sosta accessibili), eventi di sensibilizzazione, e percorsi formativi anti-bias rivolti a scuole e servizi. L’iniziativa si è poi estesa a reti internazionali di città e a una mostra itinerante, portando la riflessione fuori dagli uffici e dentro la vita urbana. Quello che ne risulta è una toponomastica vivente, che unisce memoria storica e futuro, trasformando l’atto di nominare in un gesto politico e collettivo — replicabile oltre il mandato politico e capace di generare continuità nel tempo.

Nel corso di questo ricco pomeriggio ho avuto anch’io la possibilità di intervenire, insieme a Leonie Chevalier, in rappresentanza della Cattedra Unesco in Toponomastica Inclusiva dell’Università di Ginevra, diretta da Frédéric Giraut. Chevalier ha presentato un ampio percorso di ricerca e formazione dedicato alla critica dei nomi dei luoghi come strumento per leggere il potere, la memoria e l’identità collettiva. La Cattedra considera infatti la toponomastica non solo come un esercizio linguistico, ma come un processo socio-spaziale e politico: un dispositivo che definisce chi ha il diritto di nominare, chi resta invisibile e come la memoria pubblica si traduce nello spazio urbano. Le principali linee di ricerca affrontano temi quali la rappresentazione di genere e delle minoranze, la decolonizzazione simbolica dei paesaggi, la valorizzazione dei saperi vernacolari e la promozione di diagnosi partecipative locali (Local Participatory Toponymic Diagnosis – LPTD) per rendere più equo il modo in cui nomi e luoghi si incontrano.
In questo quadro si inserisce il Policy Brief Public Place Naming: Towards a Gender Inclusive Cityscape, che propone metodologie e strumenti per riequilibrare la presenza femminile e minoritaria nella toponomastica urbana, prendendo come riferimento virtuoso la città di Ginevra e il progetto 100Elles. Il mio intervento ha riguardato invece il Mooc (Massive Open Online Courses) Dénommer le monde: la politique des toponymes, lanciato nel 2023 dall’Università di Ginevra come primo corso universitario globale dedicato alla toponomastica critica. Composto da sei moduli, il corso esplora la denominazione dei luoghi come linguaggio di potere, affrontando temi quali pluralità linguistica e giustizia simbolica, memorie coloniali e di genere, marketing territoriale e mercificazione dei nomi, frontiere e cooperazione transnazionale, fino alle nuove pratiche digitali di mappatura partecipativa (Gis, OpenStreetMap). Accessibile a studenti, a chi fa ricerca, funzionari/e pubblici/che e a tutta la cittadinanza, il Mooc mira a diffondere una cultura globale della denominazione inclusiva, capace di unire teoria e pratica, accademia e cittadinanza.

In questa prima e intensa giornata di convegno siamo giunti/e alla conclusione che nominare il mondo significa ridefinirne le narrazioni, trasformando la toponomastica in uno spazio di giustizia spaziale, culturale e di genere — una leva per costruire città più consapevoli, inclusive e democratiche.
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
