Dal 15 al 26 ottobre, la capitale è tornata a ospitare la Festa del Cinema di Roma che, giunta alla sua ventesima edizione, celebra un importante traguardo: il programma è stato molto ricco e ha coinvolto visioni e registi/e istituzionali, riuscendo a dare spazio anche a nuove e meritevoli proposte.
La Festa ha avuto luogo ancora una volta all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone: l’architettura firmata da Renzo Piano per dieci giorni si è trasformata in una città del cinema dove le sale hanno accolto le proiezioni e i cast, incontri con il pubblico e il red carpet.
Il festival ha avuto inizio nel 2006 ma in pochi anni si è imposto come uno dei principali appuntamenti internazionali dedicati alla settima arte: riconosciuto dalla Fiapf (Fédération Internationale des Associations de Producteurs de Films) come festival competitivo ufficiale, la Festa del Cinema coniuga in maniera ineccepibile i prodotti dell’industria cinematografica, senza tralasciare il suo valore culturale; per la comunità di fan è anche un’occasione per veder sfilare i propri idoli su un red carpet dove i flash illuminano i volti più amati del grande schermo. Prima di iniziare, è necessario un avvertimento: dodici giorni non bastano per vedere tutto ciò che è presente in programma, purtroppo; tuttavia per chi, come me, passerebbe ogni giorno al cinema, si ha la possibilità di riempire la propria watch list e tornare in sala!
Ora, però, «spegniamo le luci», come in Giulietta degli spiriti. L’immagine che fa da sfondo al festival, scelta da Franco Pinna, ci ricorda il capolavoro felliniano a sessant’anni dalla sua uscita: ritorniamo alla dimensione più intima della settima arte, vediamo il futuro, tracciamo idealmente una connessione con il passato che, in quest’edizione, ci accompagna e ci guida.
La varietà del programma ha preso forma nelle sue diverse sezioni, tutte unite dalla volontà di raccontare il mondo attraverso lo sguardo del kinoglaz, la lente del cine-occhio. Il Concorso Progressive Cinema – Visioni per il mondo di domani è stato il cuore competitivo della manifestazione: dedicato a opere internazionali che interrogano il presente, ha presentato i titoli che si sono contesi i premi principali. A vincere il Premio come Miglior Film La mia famiglia a Taipei (Left-Handed Girl) di Shih-Ching Tsou: in un esordio insieme leggero e profondo, che unisce realismo poetico ed emozione diretta, la narrazione segue Shu-Fen, madre single schiacciata dai debiti e dalla depressione, mentre cerca di crescere le sue due figlie, la ventenne I-Ann e la piccola I-Jing; attraverso il loro sguardo ingenuo emergono le fragilità di una famiglia sospesa a mezz’aria tra la sicurezza della tradizione e la spinta verso le occasioni della modernità, in un contesto dove — come sollecita il titolo — essere mancini è ancora motivo di stigma. Cosa accadrebbe, invece, se a narrare la storia di un giovane uomo fosse una regista? Beh, a conquistare il Gran Premio della Giuria è Nino di Pauline Loquès: alla vigilia del suo compleanno, Nino scopre che il suo mal di gola, in realtà, è un cancro; senza poter rientrare in casa, per tre giorni attraversa Parigi che gli restituisce volti familiari, amori sfiorati, amicizie e volti sconosciuti che lo ascoltano meglio di chiunque altro. In questo vagare lieve, la malattia si rivela soltanto il detonatore di una ricerca più profonda: capire chi è, cosa conta davvero, cosa resta quando la vita improvvisamente si incrina — e noi non possiamo fare nient’altro se non vagare in cerca di un soffio di vita.
La pellicola che si è aggiudicata il Premio alla regia è Wild Nights, Tamed Beasts, l’esordio di Wang Tong. Una giovane badante dal fascino enigmatico e un guardiano di zoo stringono un rapporto fragile, che fiorisce ai bordi della malattia del padre di lei; nel loro avvicinarsi, la realtà sembra scivolare in zone più elusive: i movimenti di macchina fluidi, gli split screen e le visioni che si insinuano nella quotidianità rendono il film un ritratto empatico della solitudine delle persone anziane, ma anche un viaggio emotivo che si libra tra lucidità e sogno.
Dall’Italia Gli occhi degli altri di Andrea De Sica, un’esperienza eroticamente suggestiva ed estetica che si fa man mano disturbante. Ispirato al celebre scandalo Casati Stampa — quando nel 1970 il marchese, accecato dalla gelosia, uccise la moglie Anna Fallarino e il suo giovane amante prima di togliersi la vita — il film cala il pubblico in una relazione fatta di desiderio, di sguardi e pulsioni incontrollabili. Filippo Timi e Jasmine Trinca incarnano questa coppia con la regia di Andrea De Sica, che ricrea un universo inquieto e barocco che è valso a Jasmine Trinca il Premio Monica Vitti come Miglior Attrice. Certo, con gli occhi di oggi non sarebbe guastata una riflessione più profonda e consapevole sul tema.
Anson Boon guadagna il Premio come Miglior Attore, nel primo lungometraggio in inglese di Jan Komasa, Good Boy, thriller psicologico in cui Tommy, un diciannovenne, viene tenuto prigioniero da una famiglia con l’intenzione di rieducarlo. Quella che nasce come una punizione si trasforma presto in un percorso perturbante in cui Tommy e i suoi carcerieri finiscono per specchiarsi l’uno negli altri. Le certezze si sgretolano, i ruoli si ribaltano, e il confine tra chi domina e chi subisce diventa sempre più labile.
Una menzione che sento di fare va anche ad altri titoli: 40 Secondi di Vincenzo Alfieri, Sciatunostro di Leandro Picarella e Winter of the Crow di Kasia Adamik, il film che più mi ha colpita di questo festival.
Il vero laboratorio di libertà creativa, il territorio in cui i linguaggi si mescolano e le regole vengono riscritte si situa accanto al concorso principale, rappresentato dalla sezione Freestyle, uno spazio aperto a film indipendenti, opere prime, documentari e serie televisive. Tra i titoli più attesi figurano California Schemin’ di James McAvoy, La camera di consiglio di Fiorella Infascelli, Il grande Boccia di Karen Di Porto e Malavia di Nunzia De Stefano. Proprio da questa sezione è arrivato un altro importante riconoscimento: il Premio Miglior Opera Prima Poste Italiane, assegnato a Tienimi presente di Alberto Palmiero. Il film racconta la storia di Alberto, un giovane regista ormai disilluso che lascia Roma e le sue ambizioni logorate per tornare nella città in cui è cresciuto. Tra ritmi più umani e i volti che pensava di aver dimenticato, ritrova una quiete inattesa che lo spinge a interrogarsi su ciò che desidera davvero. Da questa incertezza prende forma il suo esordio da autore e interprete: un’opera sorprendente, capace di conquistare tanto la critica quanto il pubblico.
Un forte impatto è stato dato dalla sezione non competitiva Grand Public, dedicata ai film di ampio respiro, pensati per incontrare l’emozione collettiva della sala. Qui hanno trovato spazio titoli che hanno fuso intrattenimento e qualità, da rielaborazioni come Hedda di Nia Da Costa e Hamnet di Chloé Zhao, passando da Dracula – L’amore perduto di Luc Besson o Couture di Alice Winocour; appartenenti a questa categoria anche tre film che ho profondamente apprezzato: Cinque secondi di Paolo Virzì, Vie privée di Rebecca Zlotowski e Rentaru Kazoku di Hikari. Ciascuna di queste pellicole ha la capacità di arrivare in zone della vostra anima che forse ignorate, eppure sapranno lasciare dei segni duraturi come solo alcuni film hanno il potere di fare.
Per la prima volta, la Festa ha introdotto un Premio Miglior Documentario, a testimonianza della crescente attenzione verso il cinema del reale: il riconoscimento è andato a Cuba & Alaska di Yegor Troyanovsky, con una menzione per Le Chant des forêts di Vincent Munier, due opere che catturano la nostra attenzione sullo schermo ma ci ricordano che il mondo in cui viviamo vede ogni giorno guerra e urgenza climatica. Il Premio del Pubblico Terna, votato direttamente dal pubblico, ha invece premiato Roberto Rossellini – Più di una vita di Ilaria de Laurentiis, Andrea Paolo Massara e Raffaele Brunetti, un documentario che restituisce la grandezza del maestro italiano. Non sono mancati, infine, i riconoscimenti speciali alla carriera, che hanno reso omaggio a figure del cinema mondiale dei nostri giorni: Lord David Puttnam ha ricevuto l’Industry Lifetime Achievement Award, Richard Linklater e Jafar Panahi il Premio alla Carriera, Edgar Reitz il Master of Film, mentre Nia DaCosta è stata insignita del Premio Progressive alla Carriera; il Premio Lazio Terra di Cinema, promosso dalla Regione, è stato assegnato a Can Yaman, per il suo contributo alla valorizzazione del territorio attraverso l’industria audiovisiva.
La ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma si è conclusa con la proiezione della pellicola vincitrice Left-Handed Girl — assegnata dalla giuria presieduta da Paola Cortellesi — che potremo vedere in Italia a partire dal 23 dicembre. Tuttavia, ciò che questo festival ha lasciato non si può esprimere solo attraverso le premiazioni: durante quelle intense giornate di ottobre, sono state raccontate molte storie — alcune vere, altre frutto di implacabile immaginazione — e altrettante emozioni hanno accompagnato ciascuna proiezione. E forse questo è il grande merito del cinema: la possibilità di perdersi e ritrovarsi infinite volte in un film, di riconoscersi e di conoscere ciò che prima si ignorava.
In copertina: foto via Gruppo Acea.
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
