Artista dal talento ecclettico, capace di spaziare dalla pittura alla decorazione murale, a quella pavimentale e alla ceramica, studiando e recuperando anche antiche tecniche, Maria Immacolata Zaffuto ebbe un legame breve con le mostre della Secessione romana, visto che espose un solo dipinto nell’edizione del 1916; la sua fu però un’interessante e articolata carriera artistica che vale la pena di raccontare per cercare di dissolvere le nebbie che a lungo l’hanno avvolta. Su di lei restano i giudizi positivi che studiosi e critici scrissero, soprattutto dopo la morte improvvisa avvenuta nel maggio del 1942, nel pieno della carriera; costituiscono invece tracce più deboli le opere realizzate, più d’una andata persa, altre non ricordate o non documentate.

Nata in Campania, ad Aversa, nel 1892, Maria Immacolata si formò negli ambienti dell’Accademia di Belle Arti di Roma, probabilmente seguendo i corsi di Giulio Aristide Sartorio. Presto attiva nel fermento culturale romano del secondo decennio del XX secolo, Maria Immacolata si cimentò negli anni successivi con le arti applicate e fu coinvolta in alcune commissioni di Stato destinate a decorare luoghi pubblici e a celebrare il regime.
Come artista comprese fino in fondo l’importanza dell’aspetto tecnico delle arti, pilastro fondamentale per sostenere qualsiasi forma di creatività espressa dall’ingegno umano, ritenendo «la conoscenza tecnica […] non più vincolo alla sensibilità, né fredda ricerca […]» ma «espressione inconfondibile del nostro temperamento, perciò elemento d’arte». Il nome di Maria Immacolata Zaffuto si lega in particolar modo all’encausto, un’antica tecnica decorativa in uso nella civiltà romana, alla quale l’artista dedicò una parte significativa dei suoi studi e delle sue ricerche, già a partire dagli anni Dieci. Frequentati i corsi del restauratore e studioso della pittura romana Tito Venturini Papari presso la Scuola preparatoria Arti Ornamentali di via di San Giacomo a Roma, Immacolata diede un orientamento molto particolare alla sua carriera producendo, fin dal 1918, interessanti raffigurazioni come l’opera Mandorli in fiore, che costituisce la copertina di questo articolo. Se nella raffigurazione dei rami di mandorlo l’artista volge lo sguardo verso influenze giapponiste, nelle opere successive le immagini, spesso dedicate al mondo animale, vengono organizzate per campiture piatte e omogenee che raggiungono felici esiti decorativi.

La passione per la sapienza tecnica e per la materia pittorica la portarono a procedere decisa lungo questa strada, vicina alle riflessioni che, proprio negli stessi anni, Giorgio De Chirico esprimeva sul «ritorno al mestiere». «Mi dedicai alla pittura ad encausto in quel momento d’incertezza e di dispersione caratteristico e comune a tutti i giovani i quali durante i loro studi cercano affannosamente d’indirizzarsi verso una meta» — confessò Zaffuto (il brano si trova nel libro di Francesca Lombardi Passeggiate romane. Le artiste e la città) — «essa mi apparve come un mezzo di disciplina, e attraverso il lento lavorio tecnico, ed alla bella materia che con esso venivo creando, mi ritrovai». Quasi fosse giunta a un approdo sicuro, nel 1924 diede alle stampe un piccolo volume dal titolo L’Encausto, in cui trovarono spazio le sperimentazioni pratiche, al quale seguì sei anni dopo un’altra pubblicazione sullo stesso tema. Sono entrambi segni evidenti dell’interesse, ben consolidato, per l’aspetto concreto e tecnico dell’arte, quasi una forma di alto e raffinato “artigianato” che non possedeva nulla di meno rispetto alle altre ricerche artistiche. L’encausto era, secondo le parole di Zaffuto, una forma di pittura «italianissima nella sua essenza cromatica e nella sua tecnica» allacciata «strettamente all’arte del ben costruire italiano».

Professionista sempre più determinata e consapevole, Zaffuto partecipò a numerose esposizioni romane (dal 1918 al 1922 a quelle della Società Amatori e Cultori; nel 1922 alla Prima mostra Primaverile di Fiamma all’Aranciera di Villa Borghese), alla I Esposizione Biennale Nazionale d’Arte di Napoli (1921) e, fin dalla prima edizione del ’23, alle Biennali delle Arti Decorative di Monza, divenute poi Triennali col trasferimento a Milano. Nel ‘23 la Biennale venne organizzata secondo suddivisioni regionali per celebrare, pur nell’idea dell’unità nazionale, la vitalità e l’originalità dei diversi territori e la molteplicità delle tradizioni artistiche italiane. Zaffuto fece parte del Comitato regionale e del Comitato esecutivo della sezione laziale — uno dei pochi nomi femminili in un’ampia platea di figure maschili — che organizzò, nel padiglione dedicato, un percorso espositivo formato da più stanze che ricostruivano gli ambienti di un appartamento, dall’ingresso fino alla sala della musica, passando per le camere da letto e il soggiorno. Le sale presentavano arredi (sedie, letti, divanetti, tavoli) e complementi d’arredo (tendaggi, cuscini, tappeti, ceramiche, paraventi) firmate da numerose artiste, da Mary Pandolfi a Tullia Rossi, Olga Modigliani, Matilde Festa Piacentini solo per citarne alcune; Immacolata Zaffuto presentò diversi encausti decorativi e il successo della sua partecipazione venne premiato con la medaglia d’argento, riconoscimento alla sua attività di ricercatrice e pioniera nello studio dell’encausto e all’idea di una pittura che «dovrebbe ritornare ad abbellire e completare le nostre moderne architetture», non solo dimore private, ma anche luoghi e monumenti pubblici. Questo allargamento delle possibilità decorative dell’encausto fu messa in pratica in occasione della mostra a Roma del Centenario della Società Amatori e Cultori di Belle Arti, tra il dicembre del ’29 e il gennaio del 1930, quando l’artista presentò pannelli a encausto per decorazioni di intere pareti di case di campagna e fondali per fontane; un altro riconoscimento al suo ruolo di studiosa dell’antica pittura parietale romana l’aveva ricevuto nel 1926, aggiudicandosi il concorso bandito dal Governatorato di Roma per il progetto decorativo di una scuola elementare e l’esecuzione, secondo il piano vincente, di un’aula della scuola di piazza Mazzini a Roma, lavori non giunti fino a noi.
L’esperienza alle Biennali delle Arti Decorative di Monza, per certi versi centrale nel percorso della sua vita artistica, proseguì nel 1925, quando Immacolata Zaffuto mantenne il ruolo nel Comitato esecutivo presieduto per la seconda volta da Duilio Cambellotti, e nel 1940, alla Triennale delle Arti Decorative di Milano, manifestazione chiusa in modo anticipato rispetto alle precedenti edizioni per l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno. Il clima generale era mutato: i comitati erano stati direttamente nominati con decreti del Duce e posti sotto la supervisione della Presidenza del Consiglio e dei ministeri e delle corporazioni coinvolte, le arti decorative venivano considerate prodotti nazionali con fini propagandistici e celebrativi e i nomi femminili, pur restando negli elenchi espositivi, uscirono da quelli organizzativi.

Se la carriera di Maria Immacolata Zaffuto come pittrice e studiosa di encausto fu scandita dalla partecipazione ad altre mostre romane e nazionali, la sua passione per la materia e le tecniche la portò a cimentarsi anche con la ceramica e col mosaico. Portano infatti la sua firma, insieme a quella del collega Giulio Rosso, i disegni per i mosaici pavimentali che ornano l’ampio porticato d’ingresso della stazione Ostiense a Roma, progettata da Roberto Narducci e inaugurata nel 1940 in vista dell’Esposizione Universale del ’42. L’uso del mosaico nelle opere pubbliche era uno dei punti centrali della propaganda del regime, che direttamente voleva ricollegarsi alla tradizione imperiale e glorificare i tempi presenti.

Le scene, organizzate in riquadri allineati, furono realizzate con tessere in ceramica bianca e nera, e non col più nobile e tradizionale marmo, a formare un percorso storico-celebrativo che dalle origini mitiche di Roma ripercorre il ruolo centrale e millenario della città nella storia, prima centro dell’impero e in seguito fulcro del mondo cattolico e successivamente dell’era fascista. Ancora appare incerta l’attribuzione a Rosso o a Zaffuto di ogni singolo riquadro, ma la partecipazione della pittrice è accertata dai documenti, anche se il nome di Maria Immacolata resta spesso in secondo piano (quando non taciuta) rispetto al nome di Giulio Rosso, considerato l’interprete del progetto.

Il ruolo di Zaffuto nella prima metà del Novecento, ancora da riscoprire completamente, ebbe un certo rilievo in quegli anni difficili e ostili al protagonismo femminile. Altre esperienze decorative la misero in evidenza: quella per la sede della Cassa di Risparmio di Tripoli, la partecipazione al padiglione italiano per la mostra Coloniale di Parigi e al padiglione della Civiltà Cattolica alla Triennale d’Oltremare di Napoli, alcune scuole del Governatorato di Roma e la decorazione di una sala della stazione Termini. Poco è rimasto di tutti i suoi lavori, anche se a quest’ultima impresa, mai completata per la morte improvvisa dell’artista, potrebbero risalire due pannelli esposti lo scorso anno nella mostra Artiste a Roma. Percorsi tra Secessione, Futurismo e Ritorno all’ordine nel Casino dei Principi di Villa Torlonia. Operai e Cantiere con figure, dipinti entrambi a encausto, costituiscono il suo “ritorno all’ordine”, reso con figure solide dalla postura monumentale i cui gesti, lenti e quasi sacrali, nobilitano e celebrano il valore della fatica e del lavoro.

Zaffuto, artista e studiosa, al lavoro tecnico-pittorico consacrò tutta la vita, secondo quell’ideale di «ritorno al mestiere» che sembrò ribaltare i termini valoriali dell’attività artistica. «Chiusa fino alla gola nel suo camiciotto da operaia […] piccola di statura, i mobili occhi vivacissimi, sempre pronta ad accendersi d’entusiasmo per l’arte», secondo le parole del critico Francesco Sapori, Maria Immacolata fu anche insegnante e all’insegnamento si dedicò in modo parallelo, e non secondario, rispetto all’attività pittorica, espositiva e di ricerca. Fu docente nell’Istituto femminile Margherita di Savoia di Roma e tenne corsi di pittura ed encausto nella Scuola preparatoria Arti Ornamentali di via di San Giacomo, che precedentemente l’aveva vista promettente allieva.

Mantenne sempre fede alla sua concezione dell’arte e a se stessa anche non utilizzando mai, dopo il matrimonio coll’architetto Attilio Mayer nel ‘24, il cognome maritale che, secondo la legge italiana, doveva sostituire quello d’origine di ogni donna.
In copertina: Mandorli in fiore, 1918, encausto, Roma, Galleria Comunale d’Arte Moderna, © Roma-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Galleria d’Arte Moderna.
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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.
