Gli Stati di Israele. Il numero di ottobre di Limes

«L’ebraismo è alle sue origini e per sua natura — non lo si sottolineerà mai abbastanza — la teoria di una catastrofe». 
Gershom Scholem 

Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, ha proposto di chiamare la guerra contro Hamas Milhemet HaTekuma (in ebraico: מלחמת התקומה), cioè “Guerra della Rinascita” o “Guerra della Resurrezione”, War of Revival

In ebraico tekuma significa risorgere dopo una catastrofe e ha un forte peso simbolico nella storia israeliana: è il termine utilizzato da Ben Gurion per indicare la rinascita del popolo ebraico dopo la Shoah e la fondazione dello Stato nel 1948. Come quella del 1948 è una guerra di indipendenza, la seconda, una guerra “istituente”, di sollevazione, che crea qualcosa di nuovo e che ha come posta in gioco il destino di Israele. Con questa denominazione Netanyahu cerca di raccontare il conflitto plurimo in atto come il mezzo per ricostruire sicurezza, fiducia e unità nazionale. Usarla oggi vuole dire evocare la stessa dimensione esistenziale. 
Da qui partiamo per raccontare i temi di cui si occupa il volume di ottobre di Limes, Gli Stati di Israele, che come sottotitolo ha La Sparta di Bibi a rischio disintegrazione. Le faide tra poteri ne minano la fibra e (con uno sguardo al nostro Paese) L’Italia soffre nel mare delle guerre infinite. 
Se la guerra che Israele sta combattendo è su sette fronti (Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, Qatar, Iran), il più scottante è quello interno, ben raccontato nell’approfondimento di Giuseppe De Ruvo L’ottavo fronte di Israele. 

Mosaico israeliano, Edito 2023. Carta di Laura Canali 

Come già evidenziato in Israele contro Israele, recensito qui, quella israeliana è una società “tribalizzata” (termine usato nel 2015 da Reuven Rivlin, Capo dello Stato israeliano dal 2014 al 2021) divisa in almeno quattro tribù (se si escludono gli ebrei della diaspora e i russi presenti nel territorio), ciascuna delle quali con idee diverse a proposito di Stato ebraico e di nazione. È significativo che Israele non abbia una Costituzione ma solo leggi fondamentali, tra cui quella del 2018 che lo ha definito “Stato nazionale del popolo ebraico”. Una Costituzione non è un pezzo di carta scritto e imposto dal potere, è molto di più, è un movimento in cui una comunità si costituisce. Per farlo le diverse parti della comunità devono confrontarsi e creare un compromesso, frutto dell’incontro tra tante diversità che si parlano. In Israele questo è impossibile, perché i diversi gruppi sono monadi che non si parlano e non si confrontano. La prima tribù è costituita dalle persone laiche, che credono in una democrazia di stampo occidentale idealmente capace di assimilare le persone arabe; la seconda dal gruppo sionista religioso, secondo cui Israele è lo Stato del popolo ebraico fondato sulla Bibbia: per queste persone la popolazione araba è, al pari delle bestie, da distruggere. La terza è costituita dal gruppo ultraortodosso, i cui membri non prestano servizio militare, vivono con una sorta di reddito di cittadinanza e ritengono che il loro compito nel mondo sia studiare la Bibbia e fare figli. La quarta è costituita dal gruppo delle persone arabe israeliane che hanno meno diritti all’interno del territorio di Israele e che spesso, paradossalmente, durante la guerra sono state i più preziosi informatori dell’esercito per il contrasto a Hamas. La demografia, in calo nel Paese, è trainata dal gruppo arabo-israeliano e ultraortodosso. Ognuno di questi gruppi studia nelle sue scuole, su testi diversi da quelli utilizzati dagli altri. Ma le faglie sono anche nell’Idf, l’esercito israeliano, nel Mossad, il servizio diintelligence esterna, e nell’agenzia che si occupa della sicurezza interna, lo Shin Bet, come ben racconta De Ruvo nel suo approfondimento. 

I sei isolotti di Smotrich. Carta di Laura Canali 2025 

Il volume è come sempre ricco di saggi, tutti interessanti. Si segnala il contributo di Paola Caridi, Le linee rosse di Hamas, che aggiorna sui rapporti tra Anp e Hamas e sullo stato di salute del gruppo che ha visto sterminare molti dei suoi capi, come peraltro avviene da almeno 30 anni a opera di Israele. Hamas è l’elefante nella stanza. Sulla Cisgiordania e il progetto di annettere a Israele l’82% dei territori, secondo il piano del Ministro integralista delle finanze Smotrich, scrive Tommaso Fontanesi in Da Cisgiordania a Giudea e Samaria il nome cambia tutto. Abbiamo visto nel film No Other land che da molto tempo coloni e parti dell’esercito procedono alla distruzione sistematica delle abitazioni del popolo palestinese, ma esiste una forma di resistenza e di attivismo poco raccontata dai nostri media. Nell’approfondimento di Fontanesi potremo conoscere la storia di Basil Al A’-raĝ, «martire» a cui sono dedicati molti murales nelle zone palestinesi, osteggiato dall’Anp e ucciso dall’esercito israeliano nel 2017. Una delle sue frasi più ricordate è «Vivi come l’istrice e lotta come la pulce». Scrive Fontanesi: «Come l’istrice, discreto e solitario, il popolo deve imparare quando farsi guidare dai profumi della frutta e quando invece drizzare gli aculei; come la pulce deve combattere non per abbattere ma per sfiancare l’avversario». In questo articolo apprenderemo anche del piano di annessione denominato E1, dove E sta per Est Jerusalem. 

Gerusalemme Est + E1 Fonte Peace Now e Ocha Map. Carta di Laura Canali 2025 

Dottrina Dahia anatomia di uno sterminio è la relazione, scritta da Enzo Porpiglia, responsabile dei programmi di Medici senza frontiere nei Territori palestinesi occupati. Vi si rammenta che «A Gaza non esiste un luogo sicuro. Intere famiglie sono state sterminate nelle loro tende, oltre 1.500 operatori sanitari hanno perso la vita — tra cui 13 di Msf — e mai nella storia moderna si era registrato un numero così alto di giornalisti (e giornaliste n.d.r.) uccisi. L’esercito israeliano ha attaccato tutto e tutti con armi ad alta intensità, progettate per campi di battaglia aperti e in parte vendute dagli Stati Uniti o da paesi europei. 
C’è un principio che aleggia, non dichiarato apertamente ma evidente, dietro le operazioni militari israeliane a Gaza e non solo. Si chiama dottrina Dahiya. Prende il nome dal quartiere meridionale di Beirut, roccaforte di Ḥizbullāh, raso al suolo durante la guerra tra Israele e Libano del 2006. Fu in quel contesto che l’allora comandante del Comando Nord delle Idf, Gadi Eisenkot, delineò quella che sarebbe diventata una vera e propria strategia militare: colpire in modo massiccio, sproporzionato e deliberato le aree da cui partono attacchi contro Israele, anche se densamente popolate da civili. Una strategia che ho visto applicata sul campo nelle tre volte in cui sono stato a Gaza a partire dall’agosto 2024 e durante gli oltre sette mesi trascorsi tra Israele e Cisgiordania […]. La dottrina Dahiya si fonda su un concetto tanto semplice quanto controverso: punire i civili per aver consentito attacchi dai loro quartieri, infliggendo distruzioni così devastanti da dissuadere chiunque dal ripeterli. L’obiettivo non è solo eliminare la minaccia immediata, ma imporre un prezzo altissimo — materiale, umano, psicologico — che funzioni da monito. A essere colpiti, quindi, non sono solo i combattenti. La dottrina legittima ciò che il diritto internazionale umanitario vieta: attacchi diretti contro infrastrutture civili, reti elettriche, impianti idrici, ospedali, scuole».
Diversi organismi internazionali, giuristi e ong, ricorda Porpiglia, hanno denunciato l’incompatibilità della dottrina Dahiya con il diritto internazionale umanitario. Le operazioni che seguono questa logica rischiano di configurarsi, secondo il diritto internazionale, come punizione collettiva, crimini di guerra o addirittura genocidio, aggravato dall’uso del cibo come arma. 
Che quello israelo-palestinese appartenga alla serie di conflitti intrattabili, emerge dal confronto tra i protagonisti di due interviste, Gaza è una trappola ma noi resistiamo, con un ex imprenditore di Han Yunis, Ani Abu Akar, e Israele combatte per esistere, costi quel che costi con Ariel Bulshstein, consigliere speciale di Netanyahu sulle questioni internazionali e sull’immigrazione verso Israele dallo spazio ex sovietico. 
Per il sionismo religioso, che fa capo ai ministri Smotrich e Ben Gvir, Israele è uno Stato in cui l’esigenza securitaria è necessaria non perché la popolazione ebraica ha subito la Shoah, secondo la prospettiva laica, ma perché il popolo ebraico ha un ruolo storico divino estremamente particolare e localistico, che consiste nell’ottenere il controllo della Terra di Israele, quella dove, quando arriverà, li troverà il Messia. 

Il sogno del Grande Israele (1947) Fonte. Pubblicazione del’Irgun Zvai Leumi – Carta di Laura Canali 2025 

Fa ben sperare, ma solo nel medio periodo, lo scambio epistolare dal titolo Umani malgrado tutto tra due psicanalisti, uno israeliano e l’altro palestinese, in appendice all’editoriale di Lucio Caracciolo Zero Stati? Sarebbe da leggere in tutte le scuole. 
La seconda parte del volume si intitola I fronti mediorientali e approfondisce il ruolo di superpotenza emergente della Turchia, vero nemico di Israele, la posizione dell’Egitto, quella della Cina e di Islamabad e, in un articolo interessantissimo di Emily Tasinato, La partita degli huti. 

La terza parte è dedicata all’Italia e al suo ruolo nel Mediterraneo, che Limes da tempo chiama Medioceano. La nostra penisola è circondata dal mare e il Mediterraneo ne è parte fondamentale, benché da poco lo Stato italiano si sia interessato a definire le Zee, zone economiche esclusive, che invece altre potenze si sono premurate di definire molto tempo fa. Essendo una potenza con poche materie prime, è costretta a importarle e sia per questo che per trasportare quelle che ha trasformato in prodotti finiti, in qualità di seconda potenza manifatturiera dopo la Germania, ha bisogno che il Mediterraneo, o Medioceano, resti mare, e non si trasformi in un lago salato, cioè ha bisogno di passare con le sue navi attraverso gli stretti, in particolare quelli verso il Mar Rosso, quello di Suez e quello di Bab el Mandeb, che devono restare aperti e navigabili. Non dimentichiamo che sul mare passano dal canale di Suez 150 mld di valore ogni anno e che l’Italia se ne serve per 2 terzi per importazione e per un terzo per esportazione. Inoltre sotto il mare esistono i cavi internet e molte terre rare ancora tutte da scoprire. Il nostro Paese condivide questo interesse con la Turchia che, con una politica imperialistica molto aggressiva presente in molta parte del mondo, come l’Italia non ha un accesso diretto agli oceani Pacifico e Atlantico. In questa fase di transizione egemonica e di cambiamenti repentini nei rapporti internazionali, allearsi con la Turchia, peraltro membro della Nato come l’Italia, oltre che con l’altra potenza mediterranea, la Francia, su qualche punto (visto che oggi si può essere alleati su un punto e nemici su un altro) è fondamentale.
Gli Stati Uniti hanno smesso di garantire le rotte marittime. Scrive Scott Smitson: «Regione cruciale all’incrocio fra continenti, popoli, economie e ideologie politiche, il Mediterraneo è sullo stretto crinale fra due futuri molto diversi. Uno in cui può fungere da acceleratore di commerci, regole e prosperità fra tre continenti diversi. E un altro in cui il collasso delle norme internazionali e la fine della sicurezza garantita da una grande potenza sulle vie marittime scatenano ulteriori violenza, conflitto e discordia». 

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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