Israele contro Israele. Il terzo numero di Limes 2023 

Il terzo numero di Limes del 2023 è dedicato alla crisi politica e sociale dello Stato ebraico che ha assunto recentemente toni molto violenti. Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha formato un governo di «destra- destra», con la partecipazione di ministri xenofobi e razzisti conclamati di estrema destra, suscitando una reazione da parte dell’establishment, soprattutto quello aschenazita, formato da ebrei di origine europea. Questo gruppo, sia nel campo delle istituzioni pubbliche che delle forze armate che della tecnologia, di cui Israele è leader mondiale, svolge un ruolo di primo piano ed è classe dirigente. Proprio per questo è estremamente preoccupato che possa essere a rischio il carattere liberale e democratico del Paese, soprattutto a causa della proposta di riforma della Corte Suprema fatta da Netanyahu. La riforma mira a ridurre il potere della Corte, che di fatto ha assunto il carattere di “contropotere” anche politico nei confronti del Parlamento e del Governo e che per questo, per Netanyahu, deve essere ridimensionata. Secondo il Primo Ministro israeliano, inquisito per corruzione e quindi in palese conflitto di interessi, deve essere il Parlamento a poter revocare qualsiasi decisione della Corte, affermando in tal modo la propria superiorità. Parallelamente si aumenta il potere dell’esecutivo nel comitato che seleziona i giudici di un organo del potere giudiziario che in questi decenni ha svolto un ruolo esemplare. A molti, come alla sottoscritta, sembrerà strano, ma in Israele non esiste una Costituzione perché i vari gruppi, o tribù come oggi si usa dire, presenti sul suo territorio non si sono mai accordati sul suo testo e l’hanno sostituita con le c.d. Leggi Fondamentali, a carattere para costituzionale, che si sono accumulate nel tempo, spesso in maniera disorganica, e che possono essere revocate dalla Knesset (il Parlamento monocamerale israeliano) a maggioranza semplice. Le manifestazioni contro questa riforma hanno visto scendere in piazza e davanti alla Knesset, in una protesta radicale di massa, anche persone che normalmente non usano questa forma di protesta, tra cui appartenenti alle forze dell’ordine, all’intelligence, all’aviazione.

Tra questi gruppi ci sono anche i refusenik e l’articolo di Fabrizio Maronta che ne parla è quello che, come donna, mi ha particolarmente colpito, come sempre mi affascina chi ha il coraggio di non imbracciare le armi, dai tempi di Don Milani in ItaliaIl movimento deirefusenik, i riservisti di Tzahal (l’esercito israeliano) che nel 1985 rifiutarono di prestare servizio in Libano contro l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) «ha rialzato la testa con una rapidità e un’intensità senza precedenti nella storia del paese. Centinaia di soldati e riservisti hanno pubblicamente annunciato l’intenzione di astenersi dal servizio se la legge non fosse stata ritirata, raccogliendo dapprima 300 firme e poi altre 500 di soldati dell’Unità 8200, caposaldo dell’intelligence che svolge intensa attività nei Territori e altrove. Le chat dei riservisti si sono riempite di refusenik o aspiranti tali. L’approfondimento di Maronta spiega anche molto bene la contrapposizione che si è creata tra destra e sinistra in Israele e ci ricorda che Lo Stato guarnigione, contro cui i refusenik si opposero, anche durante la Seconda Intifada, si identifica nelle Idf Le Idf non sono un esercito come gli altri. Pilastro di Israele, della sua sicurezza ma anche della sua identità nazionale, questo «esercito di popolo» sorto nel 1948 e dunque coevo allo Stato ebraico svolge un ruolo cruciale nel paese nato e cresciuto in costante antitesi al proprio intorno geopolitico. Quasi tutti gli israeliani, uomini e donne, sono coscritti al compimento della maggiore età (18 anni) per un periodo inimmaginabile altrove: 32 mesi gli uomini, 24 mesi le donne. Molti dopo il congedo restano volontariamente nell’esercito come riservisti, di norma fino ai 40 anni e oltre. Svolgono regolari esercitazioni e sono richiamati in caso di guerra, costituendo il grosso degli attivi combattenti in un paese dove la sproporzione tra popolazione – 9,3 milioni di persone, tra cui un milione di ultraortodossi e quasi due milioni di arabi israeliani, categorie esenti dal servizio militare – ed esigenze di difesa è lampante. L’esercito si avvale dei riservisti anche per il suo funzionamento ordinario, sfruttandone la professionalità per compiti cruciali come l’addestramento o l’intelligence. Senza di essi le Idf smettono di funzionare…». Assolutamente da leggere l’intervista, in appendice di questa analisi di Maronta, C’è chi dice no. La renitenza spiegata da un refusenik, significativamente condotta da una donna, Anna Maria Cossiga.

Soldato israeliano

Dalla lettura dell’ultimo numero della rivista diretta da Lucio Caracciolo emerge chiaramente che, al di là della riforma, per il momento congelata, della Corte suprema, la questione centrale è l’identità israeliana. Non a caso il simbolo delle proteste, con centinaia di migliaia di persone in piazza, è la bandiera israeliana. Israele è uno Stato molto particolare, nato come conseguenza del massacro di 6 milioni di ebrei, la Shoah e come rifugio per gli appartenenti a questa religione, provenienti dai Paesi più vari ed è uno dei pochissimi Paesi al mondo che non ha demarcato i suoi confini.
Rivlin, Presidente dello Stato di Israele dal 2014 al 2021, in un discorso del 2015 parlò per la prima volta di tribù, spiegando che Israele era sull’orlo dello scontro interno perché il suo sistema scolastico prevedeva e ancora oggi prevede quattro tipi di curriculum: uno per ebrei laici, uno per ebrei religiosi, uno per ebrei ultraortodossi (haredim, timorati, integralmente religiosi) e uno per arabi, come ci ricorda Chaim Weizmann nel suo articolo dal titolo In ballo c’è la proprietà dello Stato, che apre la prima parte della rivista di geopolitica, La tempesta israeliana. La mancanza di una chiara identità nazionale emerge anche dall’approfondimento di Giuseppe De Ruvo, Tante scuole per tante tribù. Il collaboratore di Limes ricorda che«Pensato in nome del «multiculturalismo», il sistema educativo in vigore nello Stato d’Israele cerca di riflettere la diversità culturale, religiosa ed etnica che caratterizza il paese. Tuttavia, nell’impossibile tentativo di offrire a (quasi) tutti un’educazione personalizzata, finisce per scavare solchi estremamente profondi tra le diverse tribù che convivono nello spazio israeliano. Il processo educativo non genera infatti un’unica e ben definita idea di nazione, né garantisce l’incontro tra ragazzi di diversa estrazione e tradizione. Al contrario, esso riproduce (e dunque rafforza) le divisioni che pervadono uno spazio di per sé bollente». L’articolo esamina accuratamente i programmi dei diversi tipi di scuole, comprese quelle degli arabi e dei drusi, per arrivare alla conclusione che «la mancanza (l’impossibilità?) di una pedagogia nazionale svela la vera natura di Israele: Stato senza nazione».

Accuratissimo nella descrizione dei poteri della Corte suprema e del tentativo di riformarli da parte del governo è l’approfondimento di Sergio della Pergola, Israele al bivio: riforma o rivoluzione? in cui veniamo a sapere che dietro la riforma c’è un centro studi finanziato da circoli ultraconservatori e libertari americani, il Kohelet Policy Forum, che ha elaborato i testi delle leggi poi adottate dai politici. Il Forum ha un programma più vasto: la privatizzazione selvaggia dell’apparato dello Stato e una normativa più restrittiva sull’immigrazione in Israele. Chi è interessato a tematiche di diritto pubblico, parlamentare e in materia elettorale troverà in questa prima parte approfondimenti notevoli, tra cui La riforma spiegata ai profani, che chiarisce molto bene gli aspetti giuridici della riforma e i poteri della Corte suprema nel sistema israeliano.
Una caratteristica di Limes che ben conosciamo è quella di usare la storia per comprendere l’attualità. Molti dei saggi esaminano periodi e figure storiche del passato contribuendo a ricostruire le ragioni della crisi che Israele sta attraversando. Incontriamo così il successore di Ben Gurion, il premier Levi Eshkol, cui si devono battute fulminanti ricordate da Amos Oz (che fin dal 1967 si è dichiarato contrario all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, contendendo a Yeshayahu Leibowitz, uno dei più grandi intellettuali ebrei del Novecento dalla personalità controversa il primato di questa dichiarazione e condividendo oggi questa posizione con molti refusenik), ma anche gli albori del movimento laburista, che nasce «con gli uomini e le donne che sbarcano in Palestina e cominciano a lavorare la terra. E poi creano una società parallela, autosufficiente, con la rete di aziende agricole, banche, cooperative, trasporti pubblici, casse mutue, imprese edilizie e via elencando. […] E va ricordato che il fondatore dello Stato, David Ben-Gurion (nato in Polonia, non in Ucraina), uno dei creatori del mito dell’ebreo nuovo, era un ottimo conoscitore delle regole del gioco geopolitico. Ad esempio, aveva capito nel 1942 che l’egemonia imperiale britannica stava finendo, che si stava profilando un mondo occidentale dominato dagli Usa e che il futuro Israele doveva far parte dell’Occidente, nonostante la grande simpatia che regnava nei kibbutz e nelle Forze armate clandestine laburiste per Stalin e per l’Urss». (Włodek Goldkorn)

Ma le tribù non sono solo quattro. La quinta tribù è quella della diaspora, rappresentata dagli ebrei che si trovano in varie parti del mondo, tra cui gli americani, circa sei milioni. Molto importante è anche la componente ex sovietica, russa e non solo russa, che, pur non essendo composta solo da ebrei, ha un notevole potere.  Arabi ed ebrei ultraortodossi non sono sostenitori dello Stato di Israele né sionisti e attualmente non possono servire nelle forze armate. Gli arabi sono stati assenti dalle manifestazioni di marzo, configurabili come rivolte di massa dell’establishment askenazita, laico, liberale, classicamente sionista nei confronti della destra e dell’autocrate Netanyahu.
Un punto di vista in controtendenza con la teoria delle tribù è quello che emerge dall’intervista con Peter Beinart. Secondo il docente alla Scuola di giornalismo della City University of New York «Israele è uno Stato di apartheid che nel prossimo futuro potrebbe effettuare una nuova espulsione di massa dei palestinesi. […] Questo è il dato più importante. In Israele esiste una contraddizione fondamentale tra il principio dello Stato liberal-democratico e il principio dello Stato ebraico. Il primo significa uguaglianza di tutti davanti alla legge. Il secondo significa supremazia di un gruppo etno-religioso, cioè istituzioni statali costruite per gli ebrei. Questi due princìpi stridono in particolare tra Gaza e Cisgiordania, dove la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano non gode dei diritti di cittadinanza. Ma anche gli arabi israeliani sono cittadini di serie B, perché non hanno libero accesso alla terra e sono costretti a vivere in piccole enclave». 

La seconda parte della rivista di aprile, Topografia delle faglie e degli scontri, approfondisce le divisioni quasi insanabili che sono all’origine delle tensioni in Israele, ma ha anche articoli molto interessanti sulla questione palestinese. Tra questi meritano attenzione laConversazione con Ḥanān ‘Ašrāwī, portavoce della delegazione palestinese ai colloqui per gli accordi di Oslo del 1993, già ministra dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), dal titolo significativo: Non cederemo all’incubo del Grande Israele e L’Intifada dei Leoni di Nablus, «i militanti di ‘Arīn al-‘Usūd, della Tana dei Leoni, i giovani palestinesi che hanno rotto con le fazioni storiche di Ḥamās, della Jihād islamica e di Fatḥ» e che considerano l’Autoritànazionale palestinese (Anp) con un misto di distacco e disprezzo. Usano TikTok, le canzoni, i social media per farsi conoscere. «A muoverli è il disincanto armato, il proposito di offrire una risposta distruttiva alla totale assenza di futuro, a una realtà che non concede spazio alla speranza», come scrive Umberto De Giovannangeli.

La terza parte, Il mondo di Israele, contiene saggi sui punti di vista di altri Stati su quanto sta accadendo in questi mesi: Arabia Saudita dopo l’accordo con l’Iran e la mediazione cinese che tanto hanno inquietato Usa e Unione Europea, Stati Uniti al momento incapaci di comprendere la politica di Netanyahu, Turchia, Iran, a breve potenza nucleare, India, Russia, Grecia e i nemici di sempre: oltre a Teheran: Ḥizbullāh e i boicottaggi palestinesi all’Onu.
«In Israele destra contro sinistra significa ebrei contro israeliani». Ci ricorda questa frase di Arthur J. Finkelstein, consulente americano di fede repubblicana, l’editoriale, denso e ricco di spunti di riflessione del Direttore di Limes. Le faglie interne alla società non spariranno grazie a un lodo pacificatore, perché sono inscritte nell’evoluzione demografica, antropologica e sociale di Israele, in quello che in geopolitica si chiama fattore umano. Il titolo dell’editoriale La sindrome ottomana è però l’occasione per ripercorrere la storia dello Stato di Israele e la formazione del suo inventore, Ben Gurion, ebreo polacco nato suddito dello zar, per cui fu determinante l’incontro a Salonicco, città magica, con il fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal, poi Atatürk («padre dei turchi»), di probabile origine ebraica. Ai lettori e alle lettrici scoprire i legami tra Israele e l’impero ottomano, che potrebbero fornire una chiave di interpretazione delle proteste di questi ultimi mesi.
Mentre sto scrivendo questa recensione il conflitto israelo-palestinese, che sembrava congelato, ha ripreso vigore, soprattutto dopo la morte del palestinese quarantacinquenne membro della Jihad islamica Kadher Adnan, in sciopero della fame da tre mesi che secondo l’organizzazione Physicians for Human Rights in Israel (Phri) , rischiava una morte imminente e doveva essere trasferito d’urgenza in un ospedale per essere tenuto sotto osservazione medica” e l’uccisione, il 9 maggio scorso, alle 2 del mattino, mentre dormivano nelle loro case, di tre alti comandanti della Jihad islamica insieme a altre 12 persone, tra cui 6 donne e 4 bambini delle loro famiglie, i cosiddetti “danni collaterali delle guerre”. Intanto l’Ue ha annullato l’evento in Israele della Giornata dell’Europa per la partecipazione del ministro estremista Ben-Gvir. Onu e Unione Europea hanno condannato Israele per la morte dei civili chiedendo alle due parti di evitare l’escalation. Hamas, però, ha annunciato una risposta dura e unitaria per vendicare gli attacchi. Israele ha a sua volta minacciato di uccidere i leader di Hamas a Gaza se l’organizzazione dovesse attaccare lo Stato ebraico. Venti di guerra ed esibizione di forza muscolare anche in quest’area della Terra. Saranno capaci i refusenik di opporsi e, insieme a chi protesta nelle piazze, di veicolare una diversa risoluzione della questione palestinese, magari sollecitando la scrittura di una Costituzione? 

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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.

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