«Mi chiamo Sabina Zocchi. Sbi è il mio nome d’arte. Ho viaggiato e vissuto in numerosi Paesi fra cui la Repubblica Popolare Cinese, il Regno Unito, l’Albania, l’Italia e la Francia per studio e per lavoro. L’idea di coniugare passione e abilità creativa si concretizza a partire dall’inizio degli anni 2000, grazie all’occasione di collaborare con editori, società di produzione cinematografica, organizzazioni no-profit e privati per la realizzazione di animazioni, logo illustrazioni, copertine e storyboard. Attualmente penso, progetto e disegno immagini su commissione, creo fumetti e storie illustrate e sperimento una moltitudine di tecniche per trattare tematiche del nostro tempo».


Dal 18 al 26 ottobre 2025 la Casa internazionale delle donne di Roma ha ospitato la mostra di Sabina Zocchi dal titolo L’albero del pane. Identità e metamorfosi del corpo delle donne.
«Sabina Zocchi è ritrattista: la sua attenzione, per lungo tempo, si è orientata sui volti — sui tratti della fisionomia dei volti che raccontano la singolarità di una persona. Eppure, navigando tra social, riviste, immagini online, qualcosa del mondo digitale l’ha colpita: ha notato una crescita del numero di selfie in cui il viso è nascosto — dietro uno schermo, tagliato fuori dall’inquadratura, cancellato dal gesto stesso di fotografarsi. Questo apparentemente piccolo dettaglio visivo è diventato una rivelazione, a seguito della quale Sbi, inizialmente critica, si è chiesta: “Stiamo assistendo all’affermarsi del corpo come segno identitario, anche quando il volto si ritrae? Un corpo che parla da solo, che dichiara la propria esistenza?”. Da qui nasce la sua ricerca: il corpo delle donne, il corpo senza volto, il corpo come identità». In queste parole di Maria Pia Coccia, ghost-curator dell’artista, si coglie un passaggio cardine alla base di una questione sempre aperta sugli usi e sul senso delle immagini dei corpi femminili. Il ritratto di un volto sollecita un contatto immediato con l’essenza più intima della persona e rispetto all’immagine di un corpo privo di volto è meno soggetto a approcci visivi e interpretazioni lesive della dignità. Al contrario i «quarti di bue», corpi esposti, raccontati, venduti, cosificati, sminuzzati in particelle e dati in pasto al mercato, a sguardi e interpretazioni che violano l’integrità della persona offrono modelli che svalutano e offendono il femminile e diventano terreno di coltura di sessismo e violenza. Ma sempre più frequentemente nelle immagini digitali online, nei profili dei social e nei selfie le donne stesse presentano e rappresentano più i propri corpi che i volti. Per la ritrattista Sabina Zocchi queste immagini funzionano da provocazione e stimolo a spostare il focus dal volto al corpo, per esplorarne la complessità, reinterpretandolo in chiave assertiva. Un corpo non oggetto, ma protagonista e soggetto, che rappresenta l’identità più completa e che «pronuncia sé stesso» in tutte le versioni possibili.

Simbolo della potenza multiforme del corpo è l’albero del pane che dà il titolo alla mostra. «L’Albero del pane: una metafora generatrice. Come in ogni suo progetto, anche in questo caso Sabina Zocchi ha sentito il bisogno di un’immagine guida, di una metafora fondante. “Ho visto la grandezza delle fronde e del fogliame dell’albero del pane come il corrispettivo del corpo femminile: accogliente, protettivo, ma anche forte, rumoroso, fruttifero”.
Mi ha raccontato SBI. L’albero del pane diventa quindi simbolo di energia vitale, di nutrimento e forza. È corpo e radice, linfa e gesto generativo. Come l’albero, anche il corpo delle donne resiste, fiorisce, produce frutti, persino in condizioni difficili» (Maria Pia Coccia).
La mostra, collocata nella Sala “Liliana Ingargiola”, si presenta come un’esperienza immersiva e movimentata in cui l’artista modula e declina i suoi punti di vista sul corpo con le suggestioni, le ricerche e gli scritti di altre donne artiste e scrittrici entro una dimensione plurale e praticando una varietà di linguaggi. Ci si aggira fra opere singole o raggruppate in sequenze realizzate utilizzando tecniche e materiali molteplici quali dipinti su carta, busti in plastica decorati con colori acrilici e carte, sovrapponibili e indossabili, stampe, telaietti di diapositive in scatoline trasparenti che pendono dall’alto, dipinti su cartone, fogli di acetato con dipinti monocromi e specchi riflettenti, scatole formato vhs semiaperte che lasciano intravedere immagini o allusioni erotiche tese a provocare la curiosità e a spingere chi guarda ad aprirle per scoprirne il contenuto.

Contestualmente un audio diffuso di voci femminili trasmette brani di Corinna, racconto breve tratto da A questo serve il corpo–Viaggio nell’arte attraverso i corpi delle donne (Bompiani, Bologna, 2023), una raccolta di saggi e racconti della giornalista e scrittrice Roberta Scorranese. È la prima delle donne con cui Sabina Zocchi dialoga ribaltando le concezioni e i luoghi comuni sui corpi.
Corinna è una donna di trentasette anni che sceglie di vendere il proprio corpo su piattaforme social attraverso video erotici e in incontri occasionali con i clienti, ma sfugge a qualsiasi giudizio e classificazione in quanto non lo fa perché ha bisogno di denaro né per esercitare una forma di controllo o di potere, la sua posizione è neutra, semplicemente esprime al limite il corpo oltre le interpretazioni e i pregiudizi comuni. Solo l’arte, secondo Scorranese, è in grado di rappresentare l’autonomia di un corpo per quello che è: «smettere di considerare il corpo uno scenario (più o meno pittoresco) che faccia da sfondo per le nostre attività intellettuali, sociali o emotive, e vederlo invece come protagonista della nostra esistenza, vagamente autarchico, dotato di un potere generativo». (Roberta Scorranese, op. cit. p.10).

Un recupero della sacralità e del valore del corpo femminile come matrice di tutto, che nasce, genera e produce da sé stesso, dove coesistono cielo e terra, prima di ogni separazione, catalogazione o interpretazione, così come ci appare nel busto Mimesis che apre la mostra. Seguono Le Giganti, grandi figure che attraverso la postura affermano sé stesse dichiarando il loro essere al mondo.





Il dialogo di Sabina Zocchi continua con i versi di Veronique Jephtas. La poeta, riferendosi alla complessità e all’ambiguità dell’essere donna fragile, potente e intercambiabile al tempo stesso — «…il mio essere donna è il paradosso del parto/sono io che do la vita/ ma posso anche uccidere» — rifugge la polarizzazione che tende unicamente a esaltare la positività del materno nel corpo femminile, scindendolo dal reale e dalle potenzialità distruttive e ignorandone la contraddittorietà. La sequenza Lei non può non vedersi vista, cinque fogli di acetato dipinti monocromi di corpi su carta-specchio, ha un effetto spiazzante, ma anche divertente su chi, come la scrivente, vede la propria immagine riflessa in ogni quadro: è ovvio, ma ci si sorprende a scoprirsi tirata dentro in un discorso a più voci a cui all’inizio si pensava solo di assistere. Con questa serie Sabina Zocchi si ispira agli scritti di Rossana Rossanda.
«Siamo molto guardate e misurate»: il corpo femminile è vissuto come un’entità estranea e inconoscibile a causa dello «schermo imposto alla donna in tutte le civiltà e attinente al suo ruolo sessuale». Senso di inadeguatezza ed estraneità complicano il rapporto con un corpo che, già percepito parzialmente dai nostri sensi, apprendiamo soprattutto attraverso gli sguardi altrui: «Con lo specchio, cioè tramite un oggetto vedo quel che sennò non vedo. Ma con uno mi vedo a rovescio. Con due mi moltiplico all’infinito…» (Rossana Rossanda, Questo corpo che mi abita, a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri, Torino 2018, Formato Kindle).
Nei Frutti (telaietti di diapositive in scatola trasparente come bulbi di luce) si vedono disegni di porzioni di corpo. L’opera si ispira alle fotografie e agli appunti di Carla Cerati, fotografa e scrittrice che, nell’intento di rappresentare i corpi in modo neutro e oggettivo, si è dovuta misurare con difficoltà insuperabili legate alla carica vitale ed erotica a cui venivano inevitabilmente associati.

Le Cinque Armonie, fondali con tronco, concentrano in piccolo spazio l’energia e l’opulenza del corpo femminile e suggeriscono accostamenti con i corpi delle Veneri preistoriche. Seguono le Secret Boxes, scatole formato vhs semiaperte contenenti immagini erotiche che inducono chi guarda, provando imbarazzo, a compiere l’atto terapeutico di rivelare la propria curiosità voyeuristica.


In fondo alla sala, alla fine del percorso espositivo, busti di plastica vivacemente colorati e sospesi a un appendiabiti interpretano altri modi di essere e/o di sentirsi dei corpi.


Sono ready-made industriali da vetrina, lavorati con colori acrilici e carta velina, maschere per corpi invece che per volti, definiti dall’artista «strati di pelle» che riportano le tracce di singole vite e insieme di una storia collettiva. Le persone vengono invitate a manipolare i busti indossandoli davanti allo specchio, alternandoli, combinandoli e sovrapponendoli e possono giocare a mascherarsi sotto strati di pelle diversi da quelli che hanno segnato il loro vissuto per assumere altre possibili identità sia individuali che collettive.






Finita la visita si esce all’aperto ancora sotto l’effetto lasciato dal carattere multiforme del percorso, dai colori e dalle linee dense e materiche che parlano di corpi. Fra i progetti futuri di Sabina Zocchi c’è quello di rendere l’Albero del pane una mostra itinerante, fruibile gratuitamente e accessibile in modo agevole, da esporre in altre città in Italia e all’estero.
In copertina: dialogo di Sabina Zocchi con i versi di Veronique Jephtas.
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Articolo di Rossana Laterza

Insegnante di Italiano e Storia in pensione. Con il gruppo Toponomastica femminile ha curato progetti di genere nella scuola superiore e collaborato a biografie di donne di valore dimenticate.
