Kelly O’brien e il lavoro domestico. In mostra a Bologna

Passeggiavo per Bologna l’altro giorno, quando mi sono imbattuta, in via De’ Carbonesi, in un manifesto affisso davanti a Palazzo Zambeccari che pubblicizzava una mostra all’interno, nello Spazio Carbonesi, luogo utilizzato dalle realtà culturali della città anche per iniziative artistiche, dove dal 7 novembre al 14 dicembre è in corso l’esposizione No Rest for the Wicked, con opere dell’artista Kelly O’Brien. Non conoscendola, mi sono incuriosita e ho subito digitato il suo nome sul mio telefonino. Ho così appreso che Kelly è un’artista irlandese, quarantenne, che reclama la visibilità delle donne lavoratrici, soprattutto esplora il lavoro domestico in cui persistono le disparità di genere. Mi si sono subito rizzate le antenne, caspita, era l’argomento di cui scrivo costantemente! Dovevo entrare. Salito il monumentale e superbo scalone, ho trovato delle gentilissime ragazze che mi hanno accolto.

Palazzo Zambeccari e scalone, Bologna
Kelly O’Brien in un video su YouTube
Kelly O’Brien in un video su YouTube

L’ingresso è gratuito e anche la spiegazione che fanno le ragazze, derivata da informazioni che hanno avuto direttamente dall’autrice. Non sono molte le opere esposte e lo spazio è abbastanza piccolo, ma il messaggio che comunicano è chiaro e forte. Il titolo dell’esposizione, No Rest for the Wicked, letteralmente “Non c’è riposo per i malvagi”, traendo spunto da un proverbio biblico, simboleggia la lotta apparentemente senza fine che devono affrontare le persone che vivono la fatica del lavoro. L’artista celebra soprattutto il lavoro in casa, non riconosciuto, che aspetta le donne dopo che hanno finito il lavoro fuori casa.
Kelly O’Brien, per esplorare il lavoro domestico, parte dalle storie della sua famiglia: la nonna, la prima persona della famiglia a immigrare nel Regno Unito dall’Irlanda, lavorava da cleaner, addetta cioè alle pulizie; anche la mamma di Kelly è stata cleaner, ora è in pensione.

Foto della nonna e della mamma dell’artista

L’artista ha documentato per oltre vent’anni la vita e il lavoro di queste due donne, allargando poi la memoria alle questioni di classe, genere e occupazione, per reclamare la visibilità delle donne lavoratrici e delle loro lotte. Attraverso i suoi racconti fotografici O’Brien riflette sulla vergogna imposta al lavoro delle classi umili e ne rivendica invece dignità e rispettabilità. Ed ecco in mostra gli arnesi del mestiere, due grembiuli di cui uno porta scritto il titolo della mostra, No Rest for the Wicked, l’altro la scritta Cleanlines is next to goodliness ovvero “La pulizia è prossima alla santità”; ancora un insieme di moci, i guanti di gomma, un flacone di detersivo.

Due grembiuli da cleaner
Un insieme di moci (sin) – Scrubber (dex)
Istallazione con televisori, bottiglietta con acqua miracolosa della Madonna, flacone di detersivo e guanti di gomma

Un’altra fonte di ispirazione per O’Brien è la devozione della nonna per le icone cattoliche, presenze costanti nella sua casa, e, per conferire sacralità alle lavoratrici, l’artista ritrae la madre come una moderna Santa Zita, patrona delle domestiche e delle colf. Nella foto la mamma si copre il viso per non essere identificata, perché vuole rappresentare tutte le donne di pulizia. Sotto questa foto su un tavolino coperto da un centrino proveniente realmente dalla casa di famiglia, sono poste, come davanti a un’immagine sacra, alcune candele che portano i nomi di donne che sono state sistematicamente sfruttate, donne che hanno faticato per pulire, curare, guarire. In mostra anche le scarpe che la mamma ha usato durante il suo lavoro.

La mamma dell’artista come S. Zita
Candele con nomi di donne
Due foto di cleaner col viso coperto
Scarpe da cleaner della mamma

A chip on your shoulder è un modo di dire inglese, equivalente dell’italiano “Avere un dente avvelenato”; presenta immagini della mamma dell’artista che ha delle chips, ovvero patatine, sulle spalle, chips che diventano sempre più numerose: indica una donna il cui carico sulle spalle diventa sempre più pesante. E infine la foto di una collanina con la scritta scrubber. In mostra anche uno schema cronologico che segue le vite di tre generazioni, la nonna, la mamma, e l’artista stessa, dove sono registrate le date in cui sono nate, l’anno in cui la nonna è immigrata nel Regno Unito, l’inizio e la fine dei lavori che hanno fatto, gli studi dell’artista, la pensione della mamma e la morte della nonna.

A chip on your shoulder
Catenina Scrubber
Schema cronologico

Kelly O’Brien si definisce un’artista queer; attualmente risiede e lavora nel Regno Unito. È nata a Derby (Regno Unito) nel 1985, cresciuta da madre single in una comunità di immigrati irlandesi di classe operaia. Ha studiato fotografia: «A differenza della maggior parte delle famiglie che conosco, quando ero bambina non c’erano macchine fotografiche né fotografie scattate, e di conseguenza ci sono pochissime immagini nel mio album di famiglia… Questo è forse il motivo per cui ho fotografato la mia famiglia così frequentemente da quando ho iniziato a scattare» afferma Kelly O’Brien. La mancanza di documentazione dei suoi primi anni ha anche contribuito ad accrescere il mistero intorno a un soggetto di grande importanza per O’Brien: suo padre. In Are You There? l’artista cerca di costruire un’immagine del padre che non ha conosciuto, collaborando con chiaroveggenti, per dare visibilità all’invisibile. Kelly racconta che da bambina ebbe un unico contatto col padre (aveva sette anni quando il padre le passò la mano attraverso la fessura della letterbox) e che scoprì della sua morte soltanto più tardi — le fu comunicato dalla nonna mentre passeggiavano in un supermercato.
Al momento è impegnata in un dottorato di ricerca presso l’University of the West of England (UWE Bristol), con un progetto intitolato A Labour Lens, che esamina la rappresentazione del lavoro delle donne operaie (in particolare il cleaning work).
La mostra bolognese offre una prospettiva personale e familiare ma al tempo stesso sociale: non è solo un ritratto documentario, ma anche una riflessione critica sulle disuguaglianze di genere e sull’invisibilità del lavoro domestico e femminile. Rientra nella Biennale di fotografia industriale, giunta quest’anno alla VII edizione, proposta dal MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), centro polifunzionale e spazio espositivo inaugurato nel 2013, realizzato dalla omonima Fondazione dell’imprenditrice e filantropa Isabella Seragnoli, istituzione internazionale no profit legata al gruppo industriale Coesia.

Il Mast a Bologna

Il Mast, situato nella periferia bolognese, ospita sia collezioni permanenti che mostre temporanee, un auditorium, un’accademia, un asilo nido, una palestra, un ristorante e una caffetteria, e all’esterno un parco con sculture di artisti rinomati. Questa VII Biennale presenta undici mostre in otto sedi ed è intitolata Home, dedicata cioè al tema della casa, intesa come rifugio ma anche come luogo di lavoro. «La casa è una struttura fisica ma anche simbolo di appartenenza e identità» spiega Francesco Zanot, curatore della Biennale. È lo spazio della memoria e della trasformazione, perché cambia secondo le esigenze, i desideri di chi la abita. È un manufatto culturale e come tale è sempre stato oggetto della produzione artistica con qualsiasi linguaggio e in ogni luogo.

Delle undici mostre, oltre a quella di Kelly O’Brien a Palazzo Zambeccari, possiamo vedere a Palazzo Bentivoglio le foto dell’artista rumeno Matei Bejenaru che ha fotografato i villaggi situati su entrambe le sponde del fiume Prut, confine naturale fra Romania e Moldavia, e quelle del collettivo inglese Forensic Architecture che in Looking for Palestine raccontanol’espulsione in massa dei palestinesi dalle loro case operata dalle forze sioniste tra il 1947 e il 1949. A Palazzo Vizzani, il dominicano Alejandro Cartagena in A Small Guide to Homeownership compie un viaggio tra i sobborghi della città messicana di Monterrey per mettere in luce le contraddizioni della strategia espansionistica e le ripercussioni sugli abitanti e sull’ambiente. Alla Fondazione Collegio Venturoli, Julia Gaisbacher racconta l’esperimento di edilizia partecipata austriaca, realizzata negli anni Settanta, My Dream House is not a House; mentre Vuyo Mabheka reinventa la propria infanzia nelle township sudafricane con Popihuise, e lo svedese Mikael Olsson esplora due case emblematiche dell’architetto Bruno Mathsson in Södrakull Frösakull. La Pinacoteca Nazionale ospita Some Homes di Ursula Schulz-Dornburg, viaggio tra Olanda, Russia, Iraq e Indonesia su tipologie dell’abitare completamente diverse tra loro. Alla Fondazione Del Monte, a Palazzo Paltroni, Microcosmo Sinigo di Sisto Sisti racconta la vita operaia nel villaggio Montecatini di Sinigo, in Alto Adige, tra il 1935 e il 1950, una comunità che si dimostrò refrattaria a ogni imposizione del regime fascista. Al MAMbo (Museo di Arte Moderna di Bologna) c’è, fino all’11 gennaio, Quarta casa, la prima retrospettiva dedicata all’artista Moira Ricci, che ripercorre venticinque anni di ricerca sulla memoria e sull’identità, con la Maremma, suo luogo d’origine, dove si intrecciano storia familiare e cultura popolare. L’undicesima mostra è al MAST, dove il grande protagonista della fotografia contemporanea, Jeff Wall, presenta Living, Working, Surviving fino all’8 marzo 2026.

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Articolo di Livia Capasso

foto livia

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte fino al pensionamento. Tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile e componente del Comitato scientifico della Rete per la parità, ha scritto Le maestre dell’arte, uno studio sull’arte fatta dalle donne dalla preistoria ai nostri giorni e curato La presenza femminile nelle arti minori, ne Le Storie di Toponomastica femminile.

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