L’abuso verbale

L’estate scorsa, entrando nel parcheggio di un supermercato mentre ero in vacanza in Italia, sono stata insultata pesantemente da una signora dell’età di mia madre. La mia colpa? Avere, secondo lei, sbagliato la direzione di marcia entrando nel parcheggio. Nulla di particolarmente pericoloso, e chi viaggia sa che quando ci si trova in Paesi stranieri e le linee disegnate sull’asfalto sono sbiadite, è facile sbagliarsi. Quello che più mi colpì, come un pugno allo stomaco, fu la violenza verbale con la quale venni trattata. In macchina con me c’erano i miei bambini, spaventati.
Da quel giorno mi capita di riflettere sulla violenza verbale, di quanto sia presente nella vita quotidiana e che coinvolga tutte le generazioni. Non stupisce dunque più di quel tanto che nel dibattito pubblico, che si tratti di questioni politiche, linguistiche o di stretta attualità, tornino ciclicamente i richiami all’importanza della scelta di un registro verbale più moderato, attraverso l’invito a “moderare i termini”, “temperare il linguaggio”, “abbassare i toni”. Sempre più spesso si parla degli hater e degli insulti verbali che corrono attraverso la rete: insulti diretti, violenti, carichi di odio, con scelte verbali volgari e l’uso di un linguaggio poco articolato e povero semanticamente. Del resto, non c’è solo chi ha interiorizzato questo tipo di comunicazione bassa, volgare, violenta, e così si esprime in rete come anche nella vita reale, ma c’è anche chi usa consapevolmente questi registri linguistici con lo scopo di ottenere benefici comunicativi (elettorato, propaganda, …).

È un fenomeno con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno e che ci sta portando a innalzare il grado di tolleranza verso un linguaggio semanticamente e stilisticamente impoverito. Parallelamente, il linguaggio “politicamente corretto” è stato demonizzato, associato alla cultura woke e ridicolizzato. Ci si dimentica che un linguaggio offensivo nella forma — soprattutto se accompagnato da un tono acceso e violento — colpisce direttamente i riceventi, con un potenziale forte impatto negativo sulla loro vita. Sebbene la percezione e la sensibilità verso la violenza verbale siano molto diverse, possiamo liquidare la reazione di una persona a un determinato linguaggio semplicemente dicendo che è troppo delicata, impressionabile o permalosa? I miei figli, la scorsa estate, erano spaventati e non hanno capito perché una signora, che poteva essere la loro nonna, si fosse comportata in quel modo.
Questo tipo di comunicazione aggressiva non è dunque limitata ai social media o ai media tradizionali; viene utilizzata anche nella vita di tutti i giorni e all’interno della cerchia ristretta della famiglia, anche con bambini e bambine. Queste esperienze sollevano alcune domande: qual è il limite dell’aggressività verbale? Quando si codifica come un vero e proprio abuso? E con quali conseguenze per chi è più giovane? 

Casualmente, alcuni giorni dopo questo infelice incontro/scontro, ho letto di uno studio pubblicato dalla Liverpool John Moores University ad agosto, intitolato Comparative relationships between physical and verbal abuse of children, life course mental well-being and trends in exposure: a multi-study secondary analysis of cross-sectional surveys in England and Wales e diretto da Mark Bellis, Professore di Sanità Pubblica e Scienze Comportamentali alla Ljmu. Questa ricerca ha cercato di approfondire proprio questo tema ed è giunta alla conclusione che subire abusi verbali nell’infanzia può avere un impatto sulla salute mentale in età adulta e che questo è paragonabile a quello degli abusi fisici. Un’esagerazione? L’ennesima “trovata” di scienziati un po’ pazzi e disconnessi dalla realtà? Vediamo un po’ più in dettaglio questa indagine. 
Lo studio ha esaminato le associazioni tra l’esposizione all’abuso verbale, a quello fisico o a entrambi durante l’infanzia e il benessere mentale nell’età adulta. Il corpus di dati che sta alla base di questo studio non è primario, bensì un’analisi secondaria di dati già esistenti e raccolti in precedenza da altre ricerche: sono stati combinati e analizzati i dati provenienti da sette indagini trasversali che hanno coinvolto 20.687 persone nate dopo il 1950 e di età superiore a 18 anni, in Inghilterra e Galles. 
Le inchieste originali erano sondaggi incentrati sull’esperienza infantile auto-riferita di abuso fisico e/o verbale e sull’attuale benessere mentale. Per misurare questo tipo di abusi sono state poste delle domande tratte dalle “Adverse Childhood Experiences” (Aces). In particolare, per quantificare l’abuso verbale si chiedeva alle/ai partecipanti se un adulto della loro famiglia li avesse insultati, umiliati o ridicolizzati, o se li avesse minacciati in modo tale da far loro temere di essere feriti fisicamente. Per la quantificazione del benessere mentale, le domande riguardavano sentimenti positivi (ottimismo), funzionamento cognitivo-emotivo (capacità di affrontare i problemi) e relazioni interpersonali (sentirsi vicini agli altri/e).
Riassumendo brevemente le conclusioni, la ricerca ha evidenziato che, nel campione esaminato, l’abuso fisico infantile è diminuito nel tempo, mentre è aumentata la violenza verbale. Le analisi dei dati raccolti hanno inoltre permesso di sottolineare che le/gli adulti che hanno subito unicamente abuso verbale da bambine/i avevano una maggiore probabilità del 64% di sviluppare un basso benessere mentale, mentre per quelle/i che avevano subito unicamente abuso fisico, questa probabilità era maggiore del 52%. L’esposizione a entrambi i tipi di abuso aumentava il rischio al 115%. L’abuso verbale è dunque risultato marginalmente più dannoso rispetto all’abuso fisico, sebbene le indagini abbiano specificato che questa differenza non era statisticamente significativa. Tuttavia questo dato è risultato preoccupante in quanto l’aumento dell’abuso verbale potrebbe annullare i benefici per la salute mentale che ci si aspetterebbe dalla riduzione dell’abuso fisico, che si è osservato nel corso degli anni. 

Ma quali sono le possibili conseguenze di un abuso verbale? Maggiore ansia e depressione, uso problematico di alcol e droghe, comportamenti a rischio, violenza verso gli altri/e e gravi problemi di salute, come malattie cardiovascolari e diabete.
Ciò che tuttavia non emerge da questo studio di tipo quantitativo, proprio come conseguenza dell’utilizzo della metodologia usata, sono le indicazioni dirette sul rapporto tra la durata o la frequenza dell’abuso (ad esempio, se l’abuso sia durato mesi o anni, o quante volte si sia verificato) e appunto il benessere mentale in età adulta, perché l’intenzione era proprio quella di stabilire se un partecipante avesse subito o meno un particolare evento avverso (in questo caso, l’abuso verbale) prima dei 18 anni, senza misurarne la durata o la frequenza esatta. Le domande Ace sono infatti di natura dicotomica (“Sì, è successo” o “No, non è successo”) e hanno l’obiettivo di misurare la presenza di un’esposizione all’abuso, non la sua estensione temporale, perché quello che qui conta è il ricordo di un’esperienza e la sua associazione con un peggiore benessere mentale in età adulta. 
In questo studio si parla di ambito familiare, ma in effetti l’abuso verbale coinvolge l’intera società, con esiti differenti a seconda della sensibilità delle persone. Pur non entrando nei dettagli dello studio, mi interessava qui proporre una riflessione sulla necessità di promuovere un’educazione linguistica tale che renda consapevoli dell’importanza di saper usare con cura e consapevolezza la lingua, e non solo sui social media o alla televisione, ma anche (o soprattutto) nelle relazioni reali, con familiari, con amici/che e con sconosciuti/e, in quanto la violenza verbale può lasciare delle tracce più o meno profonde.

E dunque, siamo proprio così sicure che l’uso di un linguaggio politicamente corretto sia un male? Che educare a questo tipo di comunicazione sia un’esagerazione? E ancora: si può davvero sostenere che le parole non sono così importanti e che è meglio concentrarsi unicamente sui fatti?

***

Articolo di Lorenza Pescia De Lellis

Nata e cresciuta nel Canton Ticino, sono stata assistente al Romanisches Seminar di Zurigo e ho collaborato all’edizione degli Scritti linguistici di Carlo Salvioni. Attualmente vivo negli Stati Uniti e sono visiting scholar all’Institute for Advanced Study di Princeton. Tra i miei interessi di ricerca ci sono il linguaggio di genere, il multilinguismo e la politica linguistica, l’analisi del discorso, la storia della linguistica.

Lascia un commento