Nei luoghi che attraversiamo, nei posti che visitiamo e nelle strade che percorriamo, ci sono tracce di memoria che ci restituiscono una narrazione fatta di eventi, comunità, persone. Alcune di queste, talvolta dimenticate, possono rinascere in questi spazi, per raccontarci vicende fatte di intraprendenza e coraggio, resistendo all’oblio a cui sono state relegate. Le intitolazioni non sono mai un gesto simbolico, ma sono un potente strumento: e oggi, quel messaggio che le targhe ci consegnano, è sbilanciato. Le nostre città sono piene di nomi che incontriamo ogni giorno spesso in maniera distratta, forse perché sono nomi che conosciamo già troppo bene e che non riescono a restituire la complessità e la pluralità di un luogo. E dobbiamo guardare in faccia la realtà: se in Italia meno del 10% delle vie è dedicato a figure femminili — spesso a figure religiose — dove trovano posto scienziate, imprenditrici, politiche o intellettuali?
Ma il vento del cambiamento sta iniziando a soffiare: negli ultimi anni, la toponomastica ha cominciato a non ricoprire più un valore apparentemente neutro e a essere riconosciuta come un vero e proprio spazio di rappresentazione e rivendicazione; è un tassello che svolge una funzione che nessuna politica redistributiva può avere da sola: cambia l’immaginario collettivo, riconoscendo valore dove prima c’era invisibilità. Per qualcuno/a, potrebbero essere “solo targhe” ma la toponomastica è una forma di educazione lenta, quotidiana e — non azzardo nel dire — un manuale di storia a cielo aperto. Lo scetticismo e la resistenza dilagano e temere la “riscrizione della storia” è un’obiezione molto comoda: quello che sarebbe l’ora di comprendere è che le donne sono state protagoniste come lo sono state figure maschili, e che come loro meritano di essere presenti. Non cancellano parte della storia, la completano. Rappresentare le donne in questi spazi significa riconoscere che hanno avuto un impatto significativo, che possono offrirci dei modelli a cui aspirare, costruendo uno spazio pubblico che rappresenta davvero tutte le persone che l’hanno costruito.
Questa premessa potrebbe risultare ovvia, ma semplice non lo è. Per gran parte della mia vita ho vissuto in Puglia e a essere narrate non erano quasi mai vicende che includessero le donne. «Forse per fare la storia devi essere uomo» — ricordo che pensai una volta quando ero piccola — ma così, fortunatamente, non è. Quando qualche giorno fa ho letto della cerimonia di intitolazione a Taranto a Orsola Occhinegro Protopapa e Maria Scarcella Padovano sono stata travolta da un’ondata di speranza e orgoglio: finalmente qualcosa sta cambiando! Infatti, il 18 novembre 2025 presso il Salone degli Specchi di Palazzo di Città di Taranto per opera della Fidapa (Federazione Donne Arti Professioni Affari) sono state ricordate due donne illustri, Maria Scarcella Padovano e Orsola Occhinegro Protopapa attraverso due intitolazioni: il giardino in via Mediterraneo è stato dedicato a Padovano, mentre Protopapa è stata omaggiata nel giardino in via Gasparri.
Ripercorriamo, ora, la storia di Orsola, che ci racconta tanto anche della sua terra: una regione che all’inizio del Novecento arrancava, in cui il grano scarseggiava e le rivolte del pane animavano le piazze. Quello era un mondo in cui sembrava che tutto fosse già scritto: l’instabilità storica causata dalla guerra non lasciava posto ai sogni o ai desideri, agli uomini toccava il lavoro, alle donne, invece, il silenzio e l’obbedienza. Non per Orsola però: lei non avrebbe atteso il cambiamento, l’avrebbe anticipato.
Orsola Occhinegro nasce a Taranto nel 1902, in una terra in cui le donne non lavoravano per scelta ma per necessità, e quasi mai per seguire un talento. Orsola, però, cresce in una casa dove il pane non manca: suo padre Angelo è un commerciante affermato, proprietario di negozi di calzature. La vita che la aspettava era fatta di agio, tranquillità e sicurezza: avrebbe potuto accettare i confini rassicuranti che la società le aveva preparato, scegliendo così la via più comoda. E invece no. Fin da giovane sente un’urgenza diversa: voleva fare, creare, costruire qualcosa che fosse suo e, con una determinazione sorprendente, convince il padre a lasciarle frequentare un corso di modista insieme alla sorella Maria. Un gesto che oggi potrebbe sembrare piccolo, ma negli anni ’20 è incredibilmente dirompente: due ragazze che imparano un mestiere creativo, che si preparano a lavorare fuori casa, che iniziano a immaginarsi indipendenti. Da lì Orsola non si ferma più.
Occhinegro aveva già incontrato le resistenze del padre che sperava per lei una vita “normale”, come quella di tutte le altre donne. Eppure i suoi progetti erano appena iniziati. Il suo fiuto per gli affari e l’apprendimento della tecnica l’avevano portata a realizzare copricapi destinati a donne dell’alta società tarantina: il suo talento e la meticolosità nel realizzare i prodotti conquistano una clientela che si espande velocemente e che apprezza il suo gusto ricercato e attento. Con la stessa lucidità e scaltrezza, decide di aprire un’attività, di viaggiare per lavoro per trattare con fornitori, prendendo decisioni e scelte imprenditoriali degne di nota. L’apertura del suo primo negozio si scontra ovviamente con lo scetticismo del padre che, però, è costretto a ricredersi: le sue due figlie, in particolar modo Orsola, hanno colto nel segno; i modelli che realizzano incontrano l’apprezzamento delle donne benestanti degli anni ’20 che amavano vestirsi bene e sfoggiare accessori. A rendere ancora più graditi i loro cappellini fu un’invenzione davvero originale: la giovane imprenditrice aveva pensato di realizzare degli abbellimenti in tessuto da mettere e togliere a piacimento dai copricapi, in modo da far sembrare di avere un cappello sempre diverso, da adattare per ogni occasione. E quasi per un gioco del destino, Orsola, dopo aver attestato il successo della sua impresa, si ritrovò a “vestire” i panni del padre: prima aprì un negozio di scarpe e successivamente decise di estendere la sua attività aprendo un’altra sede a Roma.
Nel mentre, il padre di Orsola continua a cercare un uomo che lei potesse sposare e che fosse “alla sua altezza”: dopo aver rifiutato diversi pretendenti, incontra un carabiniere di Martano, Luigi Protopapa. A conquistare Orsola è il carattere di Luigi che rispetta le sue ambizioni e il suo lavoro: infatti, anche dopo la nascita del figlio Enzo, l’imprenditrice — con la stessa perseveranza e dedizione — affronta questa nuova sfida continuando a gestire la sua attività.
Per la sua famiglia e per le generazioni a venire, Orsola Occhinegro, diventata Protopapa, ha rappresentato la possibilità di scegliere il proprio destino, perseguendo i suoi obiettivi nonostante la ritrosia della società del tempo e della famiglia. E così la sua città, dopo averla riconosciuta come la prima imprenditrice tarantina, le dedica un’intitolazione: un segno di riconoscimento ma anche un punto di riferimento per giovani donne.
Copertina: foto di Social History Archive su Unsplash.
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
