Nel 1994 Clara Sereni, accogliendo la proposta della Fondazione Rosetta Flaiano di dare il suo contributo a Mi riguarda, un libro che raccoglie le testimonianze di familiari di persone fragili, racconta per la prima volta in modo diretto la storia, ormai lunga di circa sedici anni, del figlio Matteo, e dei suoi genitori che, fin dalla nascita del bambino, si trovano a confrontarsi con una sofferenza cui medici ed esperti non riescono a lungo a dare un nome: la diagnosi di schizofrenia arriverà solo nel 1992.
A quel bambino che piangeva giorno e notte, disperato, Clara aveva dedicato le pagine iniziali di Casalinghitudine, il libro con cui nel 1987 era tornata in libreria, tredici anni dopo l’uscita di Sigma Epsilon, il primo romanzo. Il nome scelto allora per quel bambino, era Tommaso — tale rimarrà anche in Passami il sale che è del 2002. Mi piace pensare che in quel nome-schermo ci fosse un’allusione a Tommaso Campanella, il frate domenicano eretico che, all’inizio del Seicento, negli anni di prigionia scrivendo La Città del Sole, aveva delineato i caratteri di una società utopica ed egualitaria. Il titolo stesso di quel libro diventerà il nome della Fondazione cui daranno vita i genitori di Matteo: una onlus che ha come obiettivo la realizzazione di progetti finalizzati a favorire l’autonomia delle persone fragili di ogni tipo e a contrastare l’isolamento delle loro famiglie.
Come la stessa scrittrice racconta, il lungo periodo di silenzio intercorso tra i primi due libri era stato determinato proprio dall’impossibilità, dopo la nascita di Matteo/Tommaso, di ritagliarsi lo spazio da dedicare alla scrittura creativa. In realtà in quel lasso di tempo nascono alcuni dei racconti che, appena due anni dopo Casalinghitudine, nel 1989, confluiranno insieme ad altri in Manicomio primavera, dove Sereni riversa le esperienze e le emozioni di una “madre handicappata” — uno dei quattro spicchi di cui si compone la sua identità, come afferma in più di un’occasione — prestandole alle diverse figure di donna protagoniste di quelle storie.
Le esperienze e le emozioni della vita quotidiana con Matteo, la scrittrice le racconta per la prima volta in modo diretto in Diario, una delle nove storie che compongono Mi riguarda. Carlo Brutti, protagonista di quel movimento dell’antipsichiatria che aveva portato all’approvazione della legge 180, nota dal nome del suo massimo esponente come legge Basaglia, nell’introduzione saluta il libro come il coraggioso tentativo di persone: «che trovano la forza di uscire dal silenzio per rivestire di parole le loro storie, rinunciando a seppellirle in un dolore di pietra; non hanno avuto remore a dirci lo sconvolgimento. È caduto un muro di riserbo e quasi di clandestina privatezza, con la fiducia che dagli abissi della sofferenza può farsi strada un discorso: una dicibilità non disperata, né gridata, ma sommessa e discreta, allusiva ed esplicita».
Passano ancora due anni e Clara, che nel frattempo è diventata vicesindaca di Perugia con delega gli Affari sociali, cura personalmente la pubblicazione di Si può — per i tipi della stessa casa editrice, e/o — in cui cinque firme notissime del giornalismo raccontano il loro incontro con persone che, per caso o per obbligo, per lavoro o per volontariato, si confrontano con bisogni speciali. L’anno in cui esce il libro, il 1996, è il limite che la legge ha fissato per risolvere in modo definitivo il problema dei “residui manicomiali”, come vengono definite «in linguaggio burocratico tipicamente atroce, le migliaia e migliaia di persone — fra ventimila e venticinquemila — che vivono tuttora, a quasi vent’anni dalla legge Basaglia, in strutture chiuse».
Dopo altri due anni, nel 1998, nasce a Perugia la Fondazione Città del Sole, che dopo la scomparsa della scrittrice nel 2018, continua a operare sotto la presidenza del padre di Matteo, Stefano Rulli. Uno dei progetti più originali e tuttora attivi della fondazione, consiste nel creare soluzioni abitative adatte alla convivenza di persone con bisogni diversi: giovani che in cambio di una casa — Perugia è città universitaria — siano disponibili a dividere un appartamento con un coetaneo affetto da disturbi psichici. Si è concluso, invece, per insostenibilità economica, il progetto che aveva realizzato, sulle pendici del monte Peglia, una sorta di centro vacanze, in un gruppo di casali destinati ad accogliere famiglie disponibili a convivere per brevi periodi con la diversità: è lo scenario dove per parecchi anni consecutivi ha avuto luogo il “Merendanzo”, la festa cui si era ispirato il romanzo di Clara che ne prende il nome. Di quell’esperienza resta un documento eccezionale: Un silenzio particolare, il film girato nel 2003 da Stefano Rulli, di cui il protagonista principale è Matteo stesso. Si tratta di un documentario fatto di suoni e di sguardi, di immagini e di poche parole, girato in diverse occasioni, in particolare durante gli incontri con le persone fragili ospiti di comunità impegnate in progetti con finalità analoghe.

Nel 2009, infine, esce Amore caro, il cui sottotitolo, A filo doppio con persone fragili, è metaforicamente illustrato dall’immagine di copertina: un grande gomitolo, fatto di coppie di elastici gialli intrecciati, agganciato a un sottile cavo di acciaio. Nell’introduzione Clara Sereni ne spiega il senso: «Se gli occhi fossero capaci di vedere un po’ anche l’anima, in giro per il mondo vedreste una grande, grande quantità di gente legata a un filo […] È il filo non scelto di chi ha legami famigliari con una persona disabile. I legami famigliari, si sa, sono tutti un po’ scomodi, pericolosi, solo in piccola misura rassicuranti […] Ma tutto si fa più difficile quando all’altro capo del filo c’è una persona fragile, incapace in tutto o anche solo in parte di gestire da sé la propria vita. […] Con un figlio schizofrenico di trent’anni, di esperienze ne ho maturate un certo numero, di qua e di là dal tavolo. E in tante occasioni ho patito la frustrazione di risposte, concrete e di parole, che non corrispondevano non solo ai miei desideri, ma anche ai miei saperi, a tutto ciò che ho appreso di e da mio figlio».
I fondi raccolti con la vendita del libro andranno alla Fondazione da lei presieduta che da molti anni «prova ostinatamente a tradurre in realtà l’idea che una società più coesa, in cui aumenti il tasso di “felicità” di tutti è in grado di misurarsi con le proprie fragilità e contenerle, siano esse rappresentate da persone individuate come fragili, siano esse rappresentate dalla parte fragile che ciascuno di noi si porta dentro».
Infine, memore della sua lunga esperienza di militanza politica, fuori e anche dentro le istituzioni, Sereni conclude riaffermando l’importanza di battersi per i diritti; ma anche la necessità di evitare battaglie individuali, non solo perché quelle comuni hanno maggiore probabilità di avere successo, ma perché combattere insieme è un valore in sé: «Negl’incontri che spesso mi capita di fare, il ritornello che ripeto ossessivamente è associatevi… non solo perché si è più forti, ma perché associarsi è già un momento utile per uscire dall’isolamento, e poi uno straordinario specchio per guardarsi dentro: solo confrontandomi con altri ho capito che non sono l’unica madre in difficoltà, la più angosciata, la più in ansia per il futuro di mio figlio. E solo con altri ho potuto cominciare a immaginare e poi a progettare e organizzare concretamente una degna qualità della vita per persone in difficoltà. […] Tra i diritti di libertà c’è quello di una vita che si emancipi dai propri figli, c’è anche il diritto, di tutti e di ciascuno, di liberarsi dei propri genitori e della propria famiglia, per poter sperimentare, (con tutti i supporti e i sostegni e le tutele necessari, certo), il massimo di autonomia possibile».
Il libro è costituito da dieci racconti in forma di lettere scritte da personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo: persone che hanno in comune l’esperienza dell’incontro con una qualche forma di disabilità, fisica o psichica, che ha colpito un familiare, dalla nascita o in seguito a un incidente: «uno sforzo di confessione mai facile […] la speranza forte che possa aiutare altri a trovare le parole per dirlo, la forza di uscire dall’isolamento muto e impotente in cui tante persone si rinchiudono e sono rinchiuse».
In apertura troviamo non una lettera singola, ma lo scambio epistolare tra Franco e Lorenzo Amurri, fratelli molto legati l’uno all’altro, le cui vite sono sconvolte dall’incidente che interrompe bruscamente la carriera di musicista del più giovane. È lui che conclude così: «Spesso mi guardo indietro, immergendomi nei ricordi degli ultimi undici anni. Le persone a cui penso di più sono quelle sconosciute. Fatte di sguardi compassionevoli, di facce sorprese di commenti a bassa voce, di falso coinvolgimento, di comprensione. … non mi sento sfortunato, non mi ci sono mai sentito. Né amo pensare che qualcuno abbai già scritto il corso della mia esistenza. Semplicemente vivo, costruendomi il cammino che l’esperienza mi indica. Vivo una vita piena di dubbi e di difficoltà, come quasi tutte le vite, e ne sono innamorato, nonostante tutto. Certe volte fantastico su uno gnomo che mi offra un desiderio con due opzioni: a) risvegliarmi sano nel mio letto undici anni fa, senza alcun ricordo di ciò che è stato; b) risvegliarmi sano oggi in questo letto nuovo, ricordandomi tutto. Scelgo sempre la b, una vita bellissima».
Tra le altre la lettera di Oliviero Beha alla donna che per oltre vent’anni ha insegnato, a lui e a tutto il resto della famiglia, una relazione semplice e diretta con la sua bambina down: «Non si è mai capito, Erminia, in tutta la vita che ha passato con noi, come Tata piovuta dl cielo […] se tutto il suo rapporto con Saveria fosse davvero improntato all’involontarietà, alle cose come venivano, a un’inconsapevolezza diciamo culturale e invece radicata in un’abitudine materiale alla pragmaticità della vita. Insomma, Erminia, ma Lei sapeva e capiva di Saveria tutto, e quindi apposta comunicava di non capire o sapere granché a fin di bene, affinché non ci fossero increspature e tutto filasse il più liscio possibile?».
E quella di Paola Cortellesi bambina, che alla Befana chiede doni speciali per il cuginetto amatissimo e molto speciale: «Vorrei che C controllasse le mani e i piedi quando hanno l’impulso di picchiare qualcuno. Vorrei che C seguisse esattamente tutti i miei ragionamenti e portasse a termine una conversazione: senza saltare di palo in frasca (perché ogni volta poi mi risponde fischi per fiaschi e io mi avvilisco). Vorrei che un giorno trovasse una fidanzata gentile e carina che gli vuole bene. Vorrei che da grande continuasse a difendermi quando qualcuno mi fa uno sgarbo esattamente come fa ora, ma senza farsi male. Vorrei non perdesse mai il suo paradossale senso dell’umorismo. Vorrei che imparasse una nuova canzone. Vorrei ogni tanto chiedergli un consiglio».
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
