La punizione più bella del mondo

Alle elementari avevo una maestra, la signorina Cleta, che sembrava uscita da un libro di grammatica: rigida, tutta dritta nella schiena, con gli occhiali appuntati sul naso perennemente in cerca di un errore, e lei lo trovava sempre.
La nostra classe era composta solo da femmine, ventotto bambine rispettose e silenziose, tranne me che ero la nota stonata: curiosa, chiacchierona e un po’ troppo pronta a rispondere, soprattutto quando le sue spiegazioni diventavano più aride di un panino secco.
Quando combinavo qualcosa — una risatina fuori posto, uno scarabocchio sul quaderno di matematica, una risposta impertinente — o se facevo notare qualche ingiustizia subita, la punizione era sempre la stessa: «Fila subito nella IV B e stai lì fino alla fine della mattinata!», urlava furibonda la signorina maestra.
La IV B era una classe di soli maschi, un gruppo rumoroso, disordinato, pieno di energia e fantasia, cioè, per quanto mi riguardava, un vero paradiso, e difatti appena ne varcavo la soglia cambiava tutto. L’aria era diversa, frizzante, quasi elettrica e i maschi mi accoglievano con un misto di curiosità e rispetto, come se fossi una spia mandata da un altro pianeta. Uno di loro, Marco, mi faceva sempre sedere accanto a lui e un altro, Daniele, mi passava dei foglietti con disegni buffissimi o barzellette scritte in stampatello.
Il maestro della IV B si chiamava Ernesto ed era un omone con la voce profonda e gli occhi gentili, che sapeva trasformare ogni lezione in un’avventura. A volte faceva matematica con i palloncini, altre faceva cantare delle canzoni mentre spiegava la storia e in ogni caso, anche se nessuno stava mai zitto per più di due minuti, lui sembrava trovare sempre un’armonia nel caos.
In quella classe mi sentivo libera, potevo ridere senza dovermi nascondere, parlare senza il timore del giudizio, imparare senza annoiarmi e quello che la mia maestra pensava essere un tremendo castigo, in realtà era per me la punizione più bella del mondo.
Naturalmente di questo mio segreto non parlavo con nessuno, fingevo solo un po’ di dispiacere quando tornavo nella mia classe, abbassavo gli occhi e mi sedevo composta, ma dentro ridevo di gusto perché avevo trovato una via di fuga, un’isola felice. A volte, lo ammetto, mi mettevo d’impegno a provocare la maestra con una parola in più o con una smorfia e la sua reazione non si faceva attendere, via di nuovo felice nella IV B!
Oggi, quando ripenso a quegli anni, sorrido. La maestra pensava di rimettermi in riga e invece mi regalava ogni volta un piccolo pezzettino di libertà e di leggerezza che mi avrebbero accompagnato per sempre, insieme alla indomita e convinta ostinazione di non tacere mai di fronte alle ingiustizie.

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Articolo di Serena Del Vecchio

Laureata in Giurisprudenza e specializzata nel sostegno didattico a studenti con disabilità della scuola secondaria di secondo grado, è stata a lungo docente di diritto ed economia e da più di dieci anni svolge con passione la professione di insegnante di sostegno. Sposata e madre di tre figli (tutti maschi!), ama cantare, leggere e andare al cinema, dividendosi fra Roma, dov’è nata, e la Valle d’Aosta, dove vive e lavora.

Un commento

  1. Non è che la maestra (e il maestro della IV B, concordi) sapevano benissimo che eri nella lasse non adatta a te, e rimediavano: una recita da ambedue le parti?

    Avevo una maestra (dalle suore!) che odiavo con tutto il cuore. Che bello se mi avessero mandato in un’altra classe! Invece ho fatto le elementari fuori dalla porta.

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