Il 12 dicembre scorso a Roma, all’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte (Inasa), ospitato a Palazzo Venezia, ho avuto il piacere di partecipare a un interessante convegno internazionale organizzato dall’Associazione Mi Riconosci? dal titolo: Tra rappresentanza e rappresentatività, spazio pubblico, monumenti e percorsi di riappropriazione.

Mi Riconosci? nasce nel novembre 2015 dall’intuizione di un gruppo di studenti del mondo universitario con lo scopo di valorizzare i titoli di studio nel settore dei Beni Culturali e favorire l’accesso alle relative professioni. Si costituisce in associazione APS nel 2018. L’occasione per conoscere le loro attività si è presentata quando stavo facendo una ricerca sui monumenti pubblici femminili e ho potuto scoprire e approfittare dei dati emersi dall’indagine da loro condotta sulla rappresentazione femminile nello spazio pubblico italiano.
Questo convegno romano ha esaminato soprattutto i monumenti coloniali, i memoriali per i migranti, le loro movimentazioni, il loro uso politico e le attuali risignificazioni.
La prima a parlare è stata Livia Garomersini, attivista dell’associazione, che ha posto questo interrogativo: gli svariati monumenti eretti negli ultimi anni ai migranti non sono frutto piuttosto di compassione o propaganda? Non riflettono un approccio paternalistico da parte di committenze elitarie e artisti bianchi, mentre escludono le comunità coinvolte dai processi di rappresentazione? Bisogna ripensare lo spazio pubblico in modo più inclusivo, rispettando la complessità delle storie collettive: questa la sua conclusione.
Carmen Belmonte, docente in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università degli Studi Roma Tre, ha intrattenuto l’uditorio sui monumenti coloniali in Italia, affermando che alludono alla violenza e alle gerarchie razziali, e sulle loro movimentazioni, originate da strumentazioni politiche. Emblematico è il caso del monumento al Leone di Giuda, che dall’Etiopia fu trasportato a Roma nel 1936, e collocato sotto l’obelisco degli Eroi di Dogali, poco oltre la piazza dei Cinquecento. Nel 1969 fece ritorno in Etiopia; si trova ancora oggi di fronte alla stazione ferroviaria di Addis Abeba.

William Gambetta, ricercatore del Centro Studi Movimenti di Parma, si è concentrato sui nuovi eroi del colonialismo liberale, omaggiati nei monumenti come portatori di civiltà contro le orde barbariche. Il relatore ne ha preso in esame alcuni dedicati a personalità militari del primo colonialismo italiano, in particolare quattro casi significativi: il monumento al generale Giuseppe Edoardo Arimondi a Savigliano (Cuneo); quello al maggiore Pietro Toselli a Peveragno (Cuneo); quello ai caduti della Batteria di Umberto Masotto sul lungomare di Messina; e infine quello al capitano Vittorio Bottego a Parma. Sono quattro glorie locali, omaggiate per lo più nei loro paesi natii, additati a esempi di sacrificio per la patria, in continuità con le tante statue di “eroi” risorgimentali, con cui condividono la raffigurazione virile e guerriera, nel contesto di una storia patria che si rivela storia militare, e storia della mascolinità.



L’intervento di Lucia Miodini, storica dell’arte e componente del Consiglio Direttivo di Public History, ha riguardato le rappresentazioni dei corpi migranti nello spazio urbano, costellato di monumenti in cui si intrecciano razzismo e sessismo, e che testimoniano, e in molti casi continuano a celebrare, il passato coloniale.

La figura del moro viene usata spesso come elemento decorativo, di arredo. Per la mora lo stereotipo è quello di una donna grassa, e la bianchezza, intesa come pudore, rende invece sessuato un corpo che bianco non è. Ed ecco allora la voglia di sbiancamento che viene raccontata in manifesti pubblicitari, e quella di coprire i capelli ricci con parrucche. E nei monumenti a loro dedicati, i migranti sono anonimi, mentre la loro cancellazione esalta la generosità di chi li accoglie. Come nel monumento a Otranto, che mostra il relitto della Kater, l’imbarcazione carica di migranti albanesi che il 28 marzo del 1997 naufragò al largo delle coste di Brindisi, con un bilancio di 57 morti e di 24 corpi mai ritrovati.



E dall’Italia passiamo al Portogallo. Giuseppina Raggi, storica dell’arte e ricercatrice presso l’Università di Coimbra, ha affrontato l’argomento dello spazio pubblico e dell’eredità coloniale a Lisbona.

La città è tuttora disseminata di monumenti legati alla narrativa egemonica del passato coloniale portoghese, tanto da aver addirittura istituito un tour della Lisbona africana. In particolare la relatrice ha presentato alcuni casi significativi di monumenti che occupano lo spazio pubblico della città, verso i quali la comunità ha reagito con episodi di contestazione, come la scultura del gesuita António Vieira.

Poco dopo la sua inaugurazione, nel 2017, la statua fu oggetto di una manifestazione di protesta organizzata da un gruppo di difesa antirazzista che giudicava Vieira favorevole alla schiavitù, e attribuiva all’evangelizzazione dei gesuiti la maggiore responsabilità dell’etnocidio amerindiano. Qualche anno dopo la statua venne di nuovo deturpata: la bocca, le mani e l’abito del sacerdote furono ricoperti di vernice rossa, le figure dei bambini indigeni marchiate con cuori.
Dopo la pausa pranzo i lavori sono ripresi con il coordinamento della presidente dell’associazione, Rosanna Carrieri.
La prima a intervenire è un’altra attivista di Mi Riconosci?, ricercatrice a Madrid, Lucrezia Martufi, che ci ha mostrato come le comunità di due quartieri spagnoli, Poble Nou a Barcellona e Huerta Sur a Valencia, si sono servite della memoria declinata artisticamente per difendere spazi urbani e peri-urbani che minacciavano di esser loro sottratti.

È la volta poi di due artisti: Justin Randolph Thompson Justin, nato in America e residente in Italia, ha affrontato la tradizione scultorea nello spazio pubblico, esemplificato nel monumento ai Caduti italiani d’Africa a Siracusa. Risalente ad epoca fascista, opera di Romano Romanelli, il monumento, a forma di nave, commemora tutti i soldati italiani deceduti in Africa negli anni coloniali e bellici; presenta un lato, quello che guarda al mare, ornato da sei alte statue in bronzo che rappresentano i vari reparti dell’esercito. Numerosi bassorilievi raffiguranti scene di battaglia, di lavoro e mezzi militari circondano il monumento.

L’altro artista è Elia Buffa, scultore di Massa Carrara, che unisce al suo attivismo sociale la realizzazione di opere d’arte pubbliche dai contenuti marcatamente di protesta. Per lui l’opera d’arte esposta in uno spazio pubblico è un’opportunità per veicolare dei messaggi a chi la osserva, di protesta o di speranza. Nel 2021 aveva deciso di realizzare un’opera per ringraziare il personale sanitario che in prima linea si era adoperato per garantire cure e servizi a tutti cittadini, in un momento difficile per il Paese. L’opera voleva anche denunciare anni di tagli al servizio sanitario nazionale, un’infermiera con mascherina e braccia incrociate, e doveva essere donata all’ospedale. Invece giaceva in un deposito e l’ospedale rifiutava di esporla. Allora l’artista ha deciso di donare la scultura ai comitati che lottano contro la chiusura dei distretti sanitari e per la riapertura del vecchio ospedale. Ad un’opera estemporanea e precaria, come quella prima realizzata in gesso, è seguita, con una raccolta fondi on line e donazioni volontarie, una sua realizzazione in marmo bianco di Carrara.

Anahi Mariotti, un’altra artista, attivista transfemminista della Casa delle donne Lucha y Siesta di Roma, ci ha fatto riflettere su come un monumento nello spazio pubblico possa essere considerato strumento di contrasto alla violenza di genere. Le città che abitiamo riflettono la cultura patriarcale che storicamente ha escluso coloro che non rientrano nel modello dominante: uomo, bianco, etero, adulto, lavoratore, abile e benestante. Questa invisibilità alimenta il senso di esclusione, rafforza e legittima la violenza di genere. È necessario quindi ridefinire lo spazio urbano attraverso una rappresentazione che rifletta la complessità della nostra società, creare spazi pubblici dove sentirci più sicure.
Livia Dubon Bohlig, ricercatrice italo-nicaraguense, attiva a Londra e a Firenze, è intervenuta con una videoconferenza registrata, in cui ha proposto una sua indagine della rappresentazione del corpo femminile nero, e ha illustrato l’opera di alcune artiste che hanno trasformato l’immagine della donna nera. Nella cultura euro-americana, la rappresentazione dei corpi femminili e nel caso specifico dei corpi neri è stata influenzata da una prospettiva razzista. Numerose pratiche artistiche hanno cercato recentemente di decostruire queste narrazioni, di invertirle; in Italia l’approccio creativo di Binta Diaw, artista visuale italo-senegalese che vive e lavora a Milano, è volto a promuovere la costruzione di nuovi immaginari di dignità.

Da Los Angeles è intervenuta infine in videoconferenza Ana Pastor Perez, che attualmente lavora al Getty Conservation Institute, provenendo da esperienze in gestione del patrimonio culturale e museologia presso l’Università di Barcellona, e Madrid. Ha proposto una relazione riguardante l’accesso e la gestione del patrimonio culturale da parte delle comunità locali, interrogandosi su quale modo le esigenze del tessuto sociale possono convergere nell’utilizzo, nell’apprezzamento e nella conservazione del loro patrimonio culturale e come opera il meccanismo partecipativo nell’ambito del patrimonio culturale.


L’argomento è stato esaminato descrivendo i risultati delle indagini condotte a Barcellona dal 2015 al 2022, attraverso tre casi di studio, che hanno messo in evidenza quanto la partecipazione delle comunità locali possa essere efficace e d’aiuto per la gestione del patrimonio culturale.
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Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile. Ha scritto Le maestre dell’arte, uno studio sull’arte fatta dalle donne dalla preistoria ai nostri giorni e curato La presenza femminile nelle arti minori, ne Le Storie di Toponomastica femminile.
