Come quantificare i nostri sprechi?

È risaputo: durante le festività i momenti di condivisione e convivialità sono importanti, ma questo periodo porta alla nostra attenzione un fenomeno la cui gravità aumenta di anno in anno. Solo in Italia, si stima che circa 500 mila tonnellate di cibo vengano buttate: in pratica, ogni italiano/a è responsabile dello spreco di circa un chilo e mezzo di generi alimentari a settimana. Le iniziative a contrasto di questo fenomeno sono numerose, ma la questione è sistemica: in ogni angolo del pianeta, il consumo effettivo porta con sé una gran quantità di abbondante sperpero.
Secondo il rapporto Waste Watcher, il 43% degli/delle italiane ritiene di gettar via in maggior misura denaro, mentre il 41% cibo. Tra i prodotti più scartati ci sono frutta, verdura, pane, latticini e carne: il 5% degli articoli acquistati non viene per nulla consumato, e ciò corrisponde a circa 500.000 tonnellate di rifiuti; questi scarti, inoltre, generano anche impatti ambientali significativi: ogni tonnellata di cibo scartato produce 4,2 tonnellate di Co2. Un’indagine di BioPianeta ha rivelato che circa un terzo di popolazione ammette di gettare via almeno un quarto del cibo acquistato per le feste​: in risposta a questo problema, alcune iniziative, come quelle promosse dalla piattaforma Too Good To Go, mirano a ridurre gli sprechi alimentari offrendo soluzioni per riutilizzare gli avanzi e sensibilizzare la popolazione sui rischi ambientali ed economici legati a questa condizione.

Il Food Waste Index Report 2024, pubblicato dall’Unep (United Nations Environment Programme), traccia un quadro globale preoccupante sullo spreco alimentare. Ogni giorno, nel mondo, viene gettato l’equivalente di un miliardo di pasti, ossia un quinto della produzione globale. Nel 2022, si è evidenziato che 1,05 miliardi di tonnellate di cibo siano state gettate, nonostante un terzo della popolazione mondiale viva in condizioni di incertezza alimentare. Il fenomeno riguarda il 19% del cibo disponibile per i consumi, distribuito tra famiglie, ristoranti e commercio al dettaglio: la maggior parte degli sprechi avviene nelle abitazioni private, con 631 milioni di tonnellate di cibo buttato (circa il 60% del totale). Seguono i servizi di ristorazione, responsabili di 290 milioni di tonnellate, e il commercio al dettaglio con 131 milioni di tonnellate. Questa dissipazione corrisponde a una media di 79 chilogrammi pro capite all’anno, l’equivalente di 1,3 pasti al giorno per ciascuna persona non adeguatamente nutrita nel mondo. Considerando anche il 13% del cibo perso lungo la catena di approvvigionamento — dallo stoccaggio post-raccolta alla distribuzione — emerge un dato ancora più drammatico: un terzo della produzione alimentare globale viene buttato via.
Tale condizione si presenta in molti Paesi, indipendentemente dalla situazione economico-finanziaria: il divario tra nazioni ad alto e basso reddito si è ridotto a 7 chilogrammi pro capite all’anno, con differenze più evidenti tra aree urbane e zone rurali. Ma in molte comunità extra urbane in Paesi a medio reddito, gli avanzi vengono spesso riutilizzati, ad esempio, per alimentare animali o per il compostaggio domestico, senza dimenticare l’incidenza che il clima può avere su tali fattori: nei posti più caldi, le famiglie sprecano di più, probabilmente a causa del maggiore consumo di alimenti freschi e delle difficoltà nella loro conservazione.
Il rapporto evidenzia anche l’importanza di collaborazione tra settore pubblico e privato per combattere il problema e alcuni Paesi ci offrono esempi particolarmente virtuosi: fra questi, il Giappone ha ridotto lo spreco alimentare del 18%, mentre il Regno Unito ha raggiunto una riduzione del 31%, dimostrando che un cambiamento concreto è possibile. Più nello specifico, l’analisi del settore domestico è considerata la più attendibile, grazie alla raccolta di 100 punti di raccolti dati provenienti da Paesi che rappresentano il 75% della popolazione mondiale, il che fornisce un quadro generalmente preciso e affidabile; al contrario, le stime sui settori della vendita al dettaglio e della ristorazione si basano su dati più limitati — circa 30 punti dati ciascuno, provenienti principalmente da paesi ad alto reddito, che rappresentano solo il 32% della popolazione mondiale per i servizi di ristorazione e il 14% per il commercio al dettaglio. Le stime degli esercizi commerciali di tipo alimentare risultano spesso incomplete, in quanto non coprono tutte le situazioni in cui il cibo viene servito e consumato al di fuori delle abitazioni: sebbene la copertura per le famiglie sia buona, i dati provengono da campioni limitati e richiedono aggiustamenti per essere correttamente comparabili. Di conseguenza, la fiducia nell’analisi globale del settore domestico è medio-bassa, mentre quella per i settori della ristorazione e del commercio al dettaglio è ancora più carente.
Per rendere tangibile quanto stiamo affrontando in questo articolo, prendiamo in esame il 2018: in questo anno, a livello globale, erano disponibili 5,3 miliardi di tonnellate di cibo. Confrontando questi dati con quelli sullo spreco alimentare, si è visto che il 17% del cibo disponibile sia stato gettato via: 11% a livello domestico, 5% nei servizi di ristorazione e 2% nel commercio al dettaglio.

Il rapporto della Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) del 2019, invece, riporta che circa il 14% della produzione alimentare globale venga perso nella catena di approvvigionamento (commercio al dettaglio escluso). In questo caso, però, non è consigliabile sommare questa stima con quella del Food Waste Index per due motivi principali: differenze di scopo e definizione dei principi di base. La prima si concentra su singole merci e include tutte le perdite per molteplici usi (alimentazione umana, mangimi, semi), mentre il Food Waste Index si focalizza sugli scarti dei prodotti alimentari finali, comprese le parti non commestibili. La Fao e l’Unep, leggiamo nel report, stanno lavorando per combinare questi indicatori affinché si renda disponibile un’analisi completa su tutti i livelli, ma al momento devono essere studiati separatamente: è fondamentale, a questo punto, ampliare la ricerca per quantificare gli impatti ambientali, economici e sociali per poter agire in maniera più mirata. Un numero crescente di Paesi, difatti, ha già raccolto dati sui tipi di generi alimentari sprecati e le ragioni dietro questo fenomeno: espandere questa consapevolezza a livello globale potrebbe portare allo sviluppo di strategie più efficaci per ridurre la dispersione di risorse alimentari preziose.
Sebbene le differenze metodologiche e temporali rendano complicato tracciare una linea precisa, questi dati mostrano chiaramente che, in passato, la gravità del fenomeno è stata ampiamente sottovalutata. Oggi, lo spreco alimentare, soprattutto a livello domestico e nei servizi di ristorazione, è molto più grave di quanto avremmo mai immaginato.
È evidente che non possiamo più ignorare questa realtà: è imperativo intensificare gli sforzi per ridurre la dispersione alimentare, in particolare tra i consumi base. Solo così potremo sperare di raggiungere l’ambizioso obiettivo di dimezzare lo spreco entro il 2030, come stabilito nell’Agenda Onu per lo Sviluppo Sostenibile (SDG 12.3).

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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