Quando Amalia Besso partecipò alla prima mostra della Secessione, nel marzo del 1913 al Palazzo delle Esposizioni, aveva quasi sessant’anni. Non era un’artista alle prime armi, aveva esposto numerose volte alle manifestazioni della Società Amatori e Cultori di Belle Arti tra il 1898 e il primo decennio del Novecento, aveva partecipato alla Biennale di Venezia del 1905 e al Padiglione di Belle Arti dell’Esposizione Universale organizzata a Roma nel 1911; sempre in quell’anno era stata ammessa alla I Esposizione internazionale femminile di Belle Arti di Torino.
Anzi la rivista La donna, che promosse l’organizzazione di quella grande mostra dedicata ad artiste italiane e straniere, dedicò ad Amalia la copertina e un servizio nel numero 132 del 20 giugno 1910, col quale si intendeva annunciare l’evento.

Anche solo considerando l’arco temporale di questi quindici anni, si può dire che la sua carriera professionale aveva caratteri di tutto rispetto e non era certo confinabile entro gli angusti recinti del dilettantismo. La continuità della sua pittura, la partecipazione alle mostre (più di 60 in 35 anni di attività) e i riconoscimenti positivi della critica — per la II Esposizione internazionale femminile di Torino il suo nome fu inserito nel Comitato d’onore e il dipinto Ritratto scelto dalla rivista Emporium per accompagnare l’articolo dedicato all’evento — restano dati di fatto.
Nonostante ciò Amalia Goldmann Besso è una figura poco conosciuta, nella ricostruzione della sua produzione artistica esistono ancora numerose lacune, i testi di riferimento sono pochi: per questa stesura si fa riferimento alla voce Amalia Goldmann nel Dizionario biografico degli Italiani redatta da Stefania Vastano, al testo di Francesca Lombardi per il catalogo della mostra Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica (Roma, 2014) e alla biografia che Davide Spagnoletto ha pubblicato nel 2020 sull’Archeografo Triestino. Notorietà in vita, ma fino a un certo punto come si vedrà perché le istituzioni pubbliche non furono attente alla sua produzione, e oblio dopo la morte, condanna frequente per le donne che hanno calpestato terreni ritenuti esclusivamente maschili.
Amalia era nata a Trieste il 14 ottobre 1856. La sua famiglia, ossia il padre Enrico, impegnato in attività di intermediazione commerciale, e la madre Carolina Norsa, si mostrarono poco propensi ad assecondare i desideri della figlia, concedendole tempo limitato per pennelli e colori e rare uscite per trovare spunti e scenari da riprodurre sulla tela. Eppure l’Amalia bambina aveva creduto nelle proprie capacità pittoriche sentendo di essere portata per il disegno e l’espressione artistica: «[…] Ho sempre desiderato diventar pittrice» confessò in un’intervista del 1922 «invano, però, chè vi ostarono le idee dei tempi e le vicende della mia famiglia».
La sua formazione fu quindi inizialmente casalinga e autodidatta, solo dopo il matrimonio nel 1883 poté cominciare ad avviare la carriera secondo le proprie aspirazioni.

Fu suo marito Beniamino Besso, triestino anche lui e fratello del più noto Marco che fu amministratore e presidente delle Assicurazioni generali di Venezia nonché studioso, a favorire i suoi interessi e le sue passioni agevolandone gli studi. Amalia divenne quindi un’allieva quando aveva già l’età per essere pittrice, ma il suo desiderio di diventarlo era talmente intenso — e anche a lungo represso — da sottoporsi a diversi anni di apprendistato: prima col pittore Lorenzo Delleani e poi col romano Camillo Innocenti, artista di successo che, dopo essere stato a lungo legato alla Società Amatori e Cultori di Belle Arti, aveva cercato lo svecchiamento dell’arte nazionale entrando nel consiglio direttivo della Secessione.

Del legame professionale e artistico tra Camillo Innocenti e Amalia Besso resta un ritratto della pittrice al lavoro, datato 1903 e presentato nello stesso anno da Innocenti alla Biennale di Venezia.

Insieme compirono anche soggiorni in Abruzzo e in Sardegna per studiare usi e costumi locali e ne vennero fuori soprattutto scene e ritratti femminili, resi con precisione ma anche con carattere intimistico, tre dei quali furono pubblicati in un volume sulle tradizioni popolari italiane dal titolo Peasant Art of Italy, scritto da Charles Holmes nel 1913, con tanto di citazione e ringraziamento per «Madame Amalia Besso». Guardando ciò che si è riusciti a ricostruire della produzione pittorica di Goldmann Besso, le donne sono state a lungo i suoi soggetti preferiti: vestite con fogge popolari e tradizionali oppure abbigliate con abiti e accessori alla moda, rese a figura intera oppure a mezzo busto, costituiscono un universo pittorico particolare destinato a durare lungo l’arco della carriera.

L’arte di Amalia Besso non restò ferma a un genere o a una cifra stilistica, la stessa autrice non smise mai di cercare stimoli e forme espressive nuove e, nel suo caso, le sorti della vita ci misero del loro. Nel 1907 perse il marito che l’aveva sostenuta nella sua volontà di essere artista. La sua esistenza virò improvvisamente verso una prospettiva di autonomia e indipendenza che, nell’immediato, le diede l’occasione di allestire uno studio in via del Babbuino dove accogliere amici, artisti e intellettuali, sia italiani che stranieri, e presentare loro i suoi dipinti. Una “stanza tutta per sé” viene da dire.
Si allargarono anche gli orizzonte delle sue ricerche, e non di poco.

Nel 1909 partì, in compagnia del nipote Salvatore Besso figlio del cognato Marco, per il nord Africa e il Medio Oriente; nel 1910 il raggio d’azione si allargò ulteriormente e, come raccontò la stessa Amalia in un’intervista compì, ancora una volta in compagnia del nipote, «il giro del mondo, attraversando la Germania, la Finlandia, la Russia e giungendo, per la transiberiana in Cina e di là, nel Giappone, nell’isola Honolulu sul Pacifico, a San Francisco in California, nelle primarie città nord-americane e ritornando a Napoli da New York».
In Giappone per un po’ tornò a essere allieva: ebbe la possibilità di conoscere e frequentare il pittore e maestro Hama che la introdusse in una dimensione creativa del tutto diversa dalle scuole occidentali, fatta di lavoro pittorico intervallato con esercizi di respirazione e di ricerca interiore. Le esperienze di viaggio divennero occasioni preziose per nuovi spunti di ricerca paesaggistica e studio dei costumi locali, come era stato per Abruzzo e Sardegna, sempre attraverso la raffigurazione di figure femminili. Nascono così le Impressioni, piccole tavolette in cui il cromatismo si accende e la pennellata si scompone in tocchi veloci, a volte sfrangiati.

Un paio di esse furono presentate alla prima mostra della Secessione romana del 1913, un’altra alla II Esposizione internazionale femminile di Torino e, nel ‘14, alla Ryder Gallery di Londra in una mostra tenuta insieme alla scultrice Antonietta Pogliani.

Di questa esperienza rimane notizia in una lettera di Amalia al pittore Umberto Prencipe: «Inutile dirle che è inutile pensare a fare Esposizioni qui: nessuno vende! Concorrenza enorme e poca voglia di spendere. La mia esposizione si è chiusa con grande soddisfazione… morale! Molte buone parole, bellissime critiche sui giornali, ma non cavo neppure lontanamente le spese! Ora mi trattengo ancora qui fino alla fine del mese perché mi diverto». Dell’evento scrisse anche la scrittrice Annie Vivanti in un contributo apparso sul Corriere della Sera il 25 giugno di quell’anno, in cui definì i dipinti «della signora Besso […] bellissimi».
Le occasioni espositive continuarono negli anni a venire: Amalia partecipò alla mostra della Secessione del ’14 e a quelle dei due anni seguenti, alle Biennali romane, a mostre personali e collettive organizzate a Milano, Firenze, Napoli, Monza, Bologna, Torino, Trieste, ininterrottamente fino al 1929, anno della sua scomparsa.
Donna indipendente ed emancipata per quei tempi, Amalia Goldmann Besso affiancò all’attività artistica l’impegno sociale e filantropico. Benefattrice per l’infanzia e ispettrice degli asili infantili israelitici della capitale, nel 1896 era entrata a far parte del consiglio direttivo della società romana Pro Infantia, opera pia nata per provvedere alle cure e ai bisogni di bimbe e bimbi abbandonati; attingendo anche alle proprie risorse economiche, fu protagonista della rapida crescita e del consolidamento finanziario dell’istituzione. Alla fine dell’Ottocento risale anche il suo impegno in favore della condizione e del ruolo sociale delle donne, prima con la Federazione romana femminile, poi col Consiglio delle donne italiane con cui partì, terminata la prima guerra mondiale, verso i territori della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, dove restò quasi un anno: «[…] L’ammiraglio Millo mi chiese di fare una serie di paesaggi che dovevano formare un album il cui testo avrebbe scritto Sem Benelli ed io eseguii, ma il Ministro Nitti, allora Presidente del Consiglio, non permise questa pubblicazione e così i pastelli restarono a me», ricordò la pittrice in una lettera allo scrittore e critico d’arte Ugo Ojetti aggiungendo: «Io desidererei che la collezione completa trovasse posto in un museo patriottico tanto più che, anche come lavoro, fu apprezzato da artisti e critici». Espose i pastelli in più occasioni, l’ultima delle quali nel Padiglione dalmata alla Fiera campionaria di Milano del 1928 quando, su sollecitazione di Ojetti, il Castello sforzesco ne acquistò uno: non «l’intera collezione come io avrei desiderato, ma è una piccola soddisfazione morale».

Le parole “soddisfazione morale” tornano nei non numerosi testi scritti da Amalia. Aveva usato la stessa terminologia all’indomani della mostra londinese, quando il successo di pubblico e critica avevano bilanciato le scarse vendite, e in occasione della II Esposizione internazionale femminile di Torino, quando un suo ritratto venne scelto dal Governo italiano per un acquisto: «[…] Ma siccome non era per la Galleria ma per gli uffici del Ministero ho rifiutato. Mi è rimasta la soddisfazione morale che è già qualcosa». Avere un dipinto esposto in un’istituzione museale pubblica fu per Amalia Goldmann Besso un desiderio costante, il riconoscimento di una vita spesa per l’arte e la legittimazione di una carriera nella quale ebbe sempre fiducia: «Può immaginarsi come sono avvilita. Lavoro con tanta fede, studio sempre e non ho alcun successo!».

Nel ’26, al termine di un’importante personale a Trieste, la pittrice volle lasciare un quadro in deposito alla galleria che l’aveva ospitata, con l’idea di proporne l’acquisto al museo cittadino. Nel 1929, pochi mesi prima di morire, Amalia scrisse alla direzione: «Illustre professore Sticotti, ormai si compie il quarto anno dacché ho lasciato in deposito da Michelazzi il mio quadro Cortile abruzzese che Ella aveva trovato degno di essere ammesso al Museo Revoltella. Vorrei, prima di morire, avere la soddisfazione di vederlo collocato in quel bel Museo della mia città natale. Sarebbe possibile avere una decisione in proposito? Come già le dissi, io non faccio questione di denaro, […] tengo più di tutto alla soddisfazione morale». Scrive Davide Spagnoletto nel suo testo su Amalia Besso che probabilmente la duplice richiesta dell’artista non fu presa in considerazione e che l’acquisizione avvenne per opera del Comune di Trieste, che solo nel 1945 cedette il quadro al Museo Revoltella.
In copertina: Amalia Besso, Il Fujiyama, 1910-1911, olio su tavola, Roma, Fondazione Besso.
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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.
