Da lunedì 10 novembre a venerdì 21 novembre 2025 si è tenuta a Belém, in Brasile, la Cop30, la Conferenza delle Parti dell’Onu sul clima: il vertice internazionale che si svolge annualmente ha evidenziato che parlare di ambiente oggi è sicuramente inevitabile, ma farlo bene è tutt’altro che scontato: sono stati rilevati segnali incoraggianti — più attenzione alla giustizia climatica e al ruolo delle foreste, nuovi impegni finanziari per i Paesi più vulnerabili — ma alcune omissioni e zone d’ombra hanno messo in secondo piano i risultati attesi. A conti fatti, gli accordi strutturali più ambiziosi sono stati rimandati o trattati in maniera inefficace: nessuna roadmap vincolante sui combustibili fossili nonostante le pressioni di oltre 80 paesi per un phase-out da petrolio, gas o carbone, e le trattative su agricoltura e sistemi alimentari si sono concluse senza risultati sostanziali. Insomma, più che un vertice in grado di contribuire allo sviluppo di soluzioni concrete, si è dimostrato una timida affermazione di cooperazione climatica internazionale.
Quello che è emerso dalla Cop30 è anche un linguaggio annacquato che fatica a tenere il passo con l’urgenza scientifica della questione. Tutti/e noi, come cittadine e cittadini, siamo pervasi/e da un lessico che utilizziamo e, nondimeno, ci viene riproposto quasi automaticamente: sostenibilità, transizione ecologica, crisi climatica, biodiversità eccetera eccetera… Tutte parole necessarie che, però, stanno rischiando di perdere spessore, complessità e significato. L’ambiente è diventato, in questo modo, uno sfondo indistinto fatto di qualcosa che riguarda altri luoghi e altri tempi, grandi vertici internazionali (come la Cop30) o immagini di disastri naturali lontani (“che non ci riguardano”). La preoccupazione, più o meno incombente, è sulla bocca di ciascuno/a di noi, ma quante di queste parole restituiscono azioni concrete e cambiamenti tangibili?
Per questo, a partire da gennaio 2026, la rubrica “Ambiente” su Vitamine vaganti accoglierà più approfondimenti sul tema, nati dal bisogno di riportare la questione ambientale su un piano più leggibile e accessibile: non per semplificare problemi complessi, ma per renderli comprensibili; per provare a capire cosa c’è dietro le notizie, quali connessioni legano scelte politiche, modelli economici, comportamenti individuali e conseguenze ambientali; e, soprattutto, per interrogarsi sul nostro ruolo: cosa possiamo fare, cosa dovremmo pretendere, cosa stiamo dando per scontato. Perché l’ambiente è anche e soprattutto il contesto dentro cui si muovono lavoro, salute, diritti, relazioni sociali, e parlarne significa discutere di come produciamo e consumiamo, di come ci spostiamo, di cosa mangiamo, di quali territori consideriamo degni di tutela. E significa anche riconoscere conflitti, contraddizioni e responsabilità personali.
Prima ancora di addentrarci in questo — è il caso di dire — mare magnum, è necessario fare un bilancio delle risorse reali che abbiamo oggi. Il 2025 si è configurato come un punto di verifica, un momento in cui i numeri ci hanno aiutato a capire quanto margine ci resta — e quanto ne abbiamo già consumato. I dati sulle emissioni globali parlano chiaro: le emissioni di gas serra, secondo più fonti, hanno raggiunto livelli record nel 2024, con stime che si avvicinano o superano i 53–57 gigatonnellate di CO₂ equivalente. In parallelo, i dati sulla temperatura globale mostrano un fenomeno tristemente disarmante: il 2025 si sta collocando tra gli anni più caldi mai registrati, e la media triennale 2023–2025 è sulla buona strada per superare per la prima volta in modo continuativo la soglia di +1,5 °C rispetto all’era preindustriale.
Questi numeri non sono astratti. Superare stabilmente quella soglia — anche se temporaneamente — corrisponde a una maggiore frequenza di ondate di calore, siccità, precipitazioni estreme e stress sugli ecosistemi: fenomeni che già adesso incidono sull’agricoltura, sulle risorse idriche e sulla salute delle comunità.
Tuttavia, il mondo in cui viviamo è complesso, e il clima non dovrebbe essere l’unico campanello d’allarme. La biodiversità si sta impoverendo e ciò sta comportando l’indebolimento progressivo degli ecosistemi: secondo Ipbes (a pagina 18 del documento) oltre 1 milione di specie di piante e animali sono attualmente a rischio di estinzione, e molte altre lo saranno entro i prossimi decenni. Cosa accade alla fauna mondiale, invece? Nell’ultimo anno, come abbiamo evidenziato in un recente articolo su Vv, «60-70 miliardi di animali nel mondo sono stati allevati in strutture intensive e sono stati proprio loro a costituire la gran parte del commercio. Secondo il Wwf, “Oggi nel mondo il 70% della biomassa di uccelli è composto da pollame destinato all’alimentazione umana. Solo il 30% sono invece uccelli selvatici”».
Questo è il contesto in cui ci muoviamo nel 2025: un contesto fatto di risorse sotto pressione e scelte che vengono costantemente rimandate. Ed è proprio da qui che nasce l’esigenza di fermarsi, osservare e capire meglio, perché senza una lettura consapevole dei dati e dei processi in corso, anche le migliori intenzioni rischiano di restare inefficaci.
Per questo, ogni approfondimento di questa rubrica prenderà spunto da Considera l’armadillo, il programma radiofonico e podcast di Radio Popolare condotto da Cecilia Di Lieto, che da anni racconta il mondo animale, ambientale ed ecologico con uno sguardo mai banale e informato. Un approccio che ha ricevuto riconoscimenti importanti: il Biodiversity Award 2024 nella sezione divulgazione, per la capacità di rendere accessibili e rigorosi i temi ambientali, e il Premio Luisa Minazzi – Ambientalista dell’Anno 2024, promosso da Legambiente, assegnato a Di Lieto per il suo impegno nella comunicazione su biodiversità, cambiamenti climatici e diritti, anche attraverso il suo “bestiario” radiofonico e il libro a esso collegato. Considera l’armadillo esplora il rapporto tra esseri umani e animali intrecciando scienza, storia e attualità: un punto di partenza per allargare il discorso, contestualizzare i temi, mettere in relazione dati scientifici, cronaca e cultura, e provare a fare un passo in più nella comprensione di ciò che ci circonda. Il nostro obiettivo da sempre su Vitamine vaganti non è offrire risposte definitive, ma porre riflessioni sensate per mettere in discussione abitudini, narrazioni dominanti e false alternative; nello specifico, affinché la crisi ambientale non sia semplicemente una problematica da risolvere, ma una questione profondamente politica, culturale ed etica, che riguarda il modo in cui noi immaginiamo il futuro e il valore che attribuiamo alle altre forme di vita, umane e non umane.
Per concludere, seppur con un pizzico di ironia, un invito posto durante la Cop26 nel 2021 da David Attenborough, divulgatore scientifico britannico: «Se lavoriamo con la natura invece che contro di essa, possiamo costruire un mondo più stabile, più sano e più prospero per tutti. Il tempo delle mezze misure è finito: le decisioni che prendiamo ora determineranno il futuro della vita sulla Terra». Il tempo delle mezze misure, abbiamo constatato, non è davvero finito, ma speriamo di lasciarci alle spalle il tempo dell’ignoranza.
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
