Di madre in figlia: la faglia generazionale

Quando la seconda ondata femminista iniziò a manifestarsi, tra le varie questioni che le sue protagoniste si trovarono ad affrontare ce ne fu una che, a livello personale, fu particolarmente dolorosa: molte delle madri di queste donne rigettarono categoricamente l’eguaglianza che le loro figlie reclamavano.

Simone de Beauvoir, una delle punte di diamante della seconda ondata, aveva un rapporto molto complicato con la madre Françoise, adorazione per la sua forza e determinazione mista al risentimento per il carattere autoritario e la sottomissione al marito. In Una morte dolcissima così la descrisse: nata in una famiglia di Verdun, borghese e molto religiosa, «Infanzia e gioventù le lasciarono nel cuore un risentimento che non si placò mai del tutto»; de Beauvoir notava che il matrimonio pareva aver ingabbiato in qualche modo un animo caparbio e imperioso: «Mio padre godeva ai suoi occhi d’un grande prestigio, ed ella pensava che la donna dovesse obbedire all’uomo. Ma con Louise, con mia sorella e con me, era autoritaria a volte fino all’eccesso». Dopo la morte del marito, Françoise si rimise subito in piedi per prendersi cura delle figlie e assicurare loro un futuro, senza far sentire su di loro il peso del lutto o la fatica dell’essere una madre vedova in un’epoca che era tutto fuorché gentile con le donne che crescevano da sole la prole. Una forza per cui de Beauvoir ammirava sua madre, un amore che tuttavia non cancellava l’odio provato per quella eccessiva severità che, ne era certa, non ci sarebbe stata se la donna avesse avuto due figli invece che due figlie. 

I sentimenti di de Beauvoir erano assai comuni tra le femministe dell’epoca, donne in genere molto più educate e consapevoli delle loro madri, cresciute vedendole sottomesse al marito e agli altri uomini della famiglia, spesso e volentieri picchiate a scopo “rieducativo” o per puro sadismo, senza alcun interesse personale che non girasse attorno al loro essere madre e moglie. Le istanze di eguaglianza e maggiori diritti per le donne non parevano toccarle: con sgomento, le femministe videro le madri disperarsi perché con quelle “brutte idee” le figlie non avrebbero mai trovato un marito e non avrebbero potuto mai accasarsi, si battevano il petto quando quelle figlie dichiaravano che non intendevano sposarsi o avere una prole qualora il compagno avesse messo le mani addosso a loro, malori le coglievano quando sentivano parlare di divorzio. Invece di gioire delle nuove possibilità che i diritti per le donne stavano aprendo, queste madri erano in prima linea per bloccarne l’attuazione, impaurite dal giudizio della comunità e dalla possibile esclusione sociale. 

Il tempo diede poi ragione alle figlie, e il femminismo ha da lungo tempo fornito una risposta a quel comportamento apparentemente illogico, parlando di modelli interiorizzati, di odio nei confronti del proprio sesso che ha causato una condizione infelice, nel desiderio di avere compagnia nella miseria. A livello intimo, tuttavia, quella faglia generazionale non si è mai chiusa: ci volle una brutta caduta e una malattia terminale per far riconciliare pienamente Françoise e Simone la quale ammetterà, negli anni a seguire, che per quanto ci abbia riflettuto e per quanto abbia scritto sulla figura materna e del legame genitore-figlie/i e delle influenze che esercitano la società e la cultura, mai è riuscita a comprendere davvero perché una madre vedesse nell’infelicità l’esito migliore per la propria figlia. Il secondo sesso fu pubblicato nel 1949, Una morte dolcissima nel 1964: a quasi sessant’anni dall’uscita di quest’ultimo la storia si ripete e una nuova voragine generazionale si apre tra madri e figlie, con enormi differenze rispetto al periodo della seconda ondata. Il metodo intersezionale è ormai il più usato e ha permesso l’emergere di esperienze e correnti specifiche, come il femminismo nero e queer; internet ha abbattuto qualunque distanza e messo a disposizione di tutti e tutte tonnellate di materiale di studio; continuamente bombardate/i di informazioni, possiamo sapere cosa accade dall’altra parte del globo con pochi, semplici clic. Ciò che separa la generazione della seconda ondata femminista da quelle di oggi è il risultato di un mondo che è cambiato troppo in fretta, senza lasciare modo di tornare a stare al passo se ci si soffermava anche un solo istante a riflettere su dove si stesse andando. 

Oggi le madri non piangono più perché “quelle brutte idee” potrebbero impedire alle loro figlie di trovare marito e farsi una famiglia, hanno combattuto per avere quei diritti di cui ora le figlie godono per assicurarsi che loro potessero scegliere della propria vita come meglio credevano. Per alcune la lotta è finita con la certezza di aver raggiunto lo scopo, per altre non si è mai smesso di combattere perché quei diritti così sudati non sono da dare per scontati. Tuttavia, quelle istanze da loro tanto agognate e sudate, per quanto non rinnegate, non sembrano essere la priorità per le figlie: dall’identità di genere alla sessualità, dal bellicoso rapporto con il maschile alla richiesta di un cambiamento culturale reale, il divario generazionale si allarga sempre di più toccando argomenti che mai si sarebbe anche solo pensato di sfiorare. E a tutto questo si aggiunge un forte risentimento scaturito da promesse di benessere e successo non mantenute da parte di una generazione che è cresciuta con possibilità che quelle successive possono solo sognare di avere. Ovviamente questo è un discorso generale, a livello individuale ognuna e ognuno ha il proprio vissuto; eppure, la tendenza che emerge in questi tempi post pandemia, da cui si pensava saremmo usciti migliori e invece ne siamo usciti incattiviti, è quella di nuclei familiari i cui membri, divisi dall’età e da esperienze radicalmente diverse dovute alla comparsa di internet e a come il lockdown è stato vissuto, condividono gli stessi spazi senza parlarsi. Un fenomeno da tempo oggetto di studio in realtà, quello delle famiglie che non comunicano, che la pandemia e un clima meno stigmatizzante verso i disturbi mentali ed emozionali hanno reso mainstream.

È di poco tempo fa un video di Tik Tok di una donna che si lamenta della quantità di persone che non si fa problemi a tagliare i ponti con la propria famiglia, lasciando sottinteso che queste persone siano in fondo deboli ed egoiste, perché si allontanano da chi le ha cresciute per salvaguardare una “presunta” salute mentale invece di soffermarsi sulle proprie colpe e sul perché chi le ha allevate si sia comportato in quel modo. I video di risposta a questa donna fatti da giovani sono stati un fiume in piena di denunce di omertà su abusi sessuali subiti, su problemi di salute ignorati o sminuiti, di violenza fisica e mentale fatta passare per educazione, di repressione della propria identità. Chi apparteneva alla generazione della donna, invece, concordava ed era ancora più esplicito – per non dire crudele – nel parlare di quanto le generazioni più giovani fossero rammollite ed egocentriche, sostenendo che un genitore andava perdonato anche quando commetteva fatti gravi. Discorsi che non si discostano molto da quelli che portarono agli eventi del Sessantotto, quando chi aveva fatto la guerra e vissuto sotto regimi autoritari rinfacciava a figlie/i e nipoti quanto la loro vita fosse più semplice e felice rispetto alla propria. 

Proteste di ieri e oggi a confronto

I tempi correnti non sono certo quelli del Sessantotto, troppe cose sono cambiate da allora, ma l’aspirazione a un qualcosa di diverso è rimasta la stessa: le donne del Sessantotto volevano liberarsi dalle catene del sistema patriarcale, trovare una soluzione a secoli di oppressione per poter vivere in piena libertà; le donne di oggi, eredi e continuatrici di quella lotta, guardano anche alle questioni etniche e nazionali, di genere e di sessualità, combattono contro il rigurgito maschilista che prende la forma di femminicidi e legislazione per il controllo del corpo femminile, vogliono un reale cambiamento culturale che sentono non sia avvenuto durante le proteste del passato che includa tutte e tutti.

Il costo di queste lotte a livello personale non è indifferente, allora come oggi: in famiglia si scoperchiano segreti e sentimenti taciuti per troppo tempo, rancori che ribollono per anni esplodono con una violenza di cui poi ci si pente; se si sceglie di ignorare queste discrepanze in nome della pace familiare spesso si finisce col non parlarsi più, diventare praticamente individui estranei. Oggi, con la voglia di cambiamento che soffia sempre più forte per contrastare un ultra-conservatorismo becero, e con due anni di pandemia ad avvelenare gli animi, la storia potrebbe ripetersi con conseguenze devastanti per il futuro. 

Ci volle una diagnosi di cancro per riavvicinare davvero Françoise e Simone de Beauvoir. Non aspettiamo malattie o calamità per ricucire questo strappo generazionale.

***

Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

Un commento

Lascia un commento