In un momento di apparente euforia e spensieratezza soprannominata Belle Époque, l’umanità assiste all’alba del nuovo XX secolo all’insegna piuttosto di una mortificazione con la quale cominciare a fare seriamente i conti: «[…] la terza e più scottante mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da parte dell’odierna indagine psicologica, la quale ha l’intenzione di dimostrare all’Io che non solo egli non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua psiche» (S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-17). È nel solco di tale consapevolezza che tutti i saperi e le riflessioni sull’umano e le sue categorie mutano le fondamenta epistemologiche, con gli studi e le teorie di Einstein, Planck, Bergson, che rimettono in discussione le categorie di tempo, moto e spazio. Anche la letteratura eredita pienamente il clima di inquietudine e incertezza che apre il secolo e mutua dalla filosofia e della scienza una riflessione che cambia le metodologie narrativa e poetica tradizionali. È un inizio di secolo turbolento ma fecondo, che ci regala capolavori del modernismo come i romanzi di Proust, Joyce, Woolf, Kafka, Mann, Pirandello, Svevo. Accanto a queste esperienze miliari, anche l’arte muta pelle e nascono le avanguardie storiche, tra cui il Futurismo di Marinetti.

Il punto di vista del mondo femminile ora corre pienamente su un duplice binario: se da una parte osserviamo certamente importanti cambiamenti grazie al movimento femminista, che già a fine Ottocento aveva cominciato concretamente a percorrere i primi passi sul palcoscenico dell’umanità, operando un lento ma ormai inarrestabile scardinamento della scenografia patriarcale, dall’altro lato le “donne di carta” presenti nei grandi classici tramandati dal canone tradizionale sono ancora imprigionate in una prospettiva remissiva e poco consapevole della propria autonomia e necessità di emancipazione, nonostante si diffondano scritture femminili che cominciano a rimarcare tale bisogno e si conquistano a fatica il loro spazio nel mondo. Si legga, a tal proposito, la ricognizione di Federico Sanguineti nel suo recente saggio Per una nuova storia letteraria, in particolare nei capitoli dedicati alla visione della donna durante il regime fascista e alla scrittrice Clarice Tartufari, la cui opera teatrale La testa di Medusa del 1910 viene considerata da Sanguineti – coraggiosamente, direi – di tale eccellenza da superare l’intero teatro di Pirandello. Aggiungo che non sono mai realmente e debitamente approfondite nella riproposizione del canone – specialmente scolastico – scrittrici e poete come Sibilla Aleramo, Antonia Pozzi, Ada Negri, Grazia Deledda, e tante altre i cui nomi sono nell’oblio di una storia che ha omesso di narrarne le opere e che io stessa, mentre scrivo, mi rendo conto di non riuscire a recuperare nella mia memoria, perché non ho mai letto e studiato su un manuale in cui fossero “riportate le tracce dell’“altra metà del cielo”.
A tal proposito, sarà utile ancora rimandare agli studi filologici di Federico Sanguineti che in un recente articolo opera una disamina (oserei dire) “controcanonica” della poesia Cocotte di Gozzano: «Se si ha in mente una poesia dal titolo Cocotte, per una serie di riflessi scolasticamente condizionati, è presumibile che il pensiero vada a Guido Gozzano: a chiusura della sezione centrale (Alle soglie), l’autore dei Colloqui (1911) evoca infatti un incontro che sarebbe avvenuto vent’anni prima (“dopo vent’anni”, v. 44, “vent’anni or sono”, v. 72), fra un ‘io’ “quattrenne” (v. 62) e una “cattiva signorina” (v. 27). Ma, guarda caso, in una raccolta pubblicata vent’anni prima (1890), Annie Vivanti include tre quartine recanti precisamente quel titolo». Sanguineti prosegue a confermare come «la Cocotte di Vivanti, oltre ad anticipare quella di Gozzano, è ben presente a quest’ultimo anche altrove ne I Colloqui», mettendo in luce il valore della produzione artistica della poeta londinese e prefigurandola come predecessora della poesia crepuscolare italiana. Un’operazione alquanto ardita? No, un’operazione di giustizia e di riequilibrio, che Sanguineti altrove ripropone insieme all’«invito di Simone de Beauvoir a cessare finalmente di sognare la propria vita attraverso sogni maschili».
Fatta tale doverosa premessa, non potremo non sottolineare nel nostro ormai lungo percorso – dipanatosi, seppur in forma sintetica, tra i secoli della letteratura italiana – come la rappresentazione della donna nei grandi classici è relegata ancora fortemente entro un perimetro di stereotipizzazione e misoginia. Nel Manifesto del Futurismo del 1909 si legge: «noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna», ed è già singolare che il disprezzo per la donna sia enunciato nello stesso principio che inneggia alla guerra, alla violenza; un binomio antitetico, quello di donna e guerra, che osserviamo tristemente nella nostra contemporaneità, inermi di fronte alla guerra usata sempre più – a mio avviso – come strumento machista di risoluzione delle controversie.

La toppa, come si suol dire, è peggiore del buco nella risposta che le donne formulano nel 1912 con il Manifesto della donna futurista di Valentine de Saint-Point, figura femminile legata agli ambienti del futurismo: «É assurdo dividere l’umanità in donne e uomini. Essa è composta solo di femminilità e di mascolinità. […] Per restituire una qualche virilità alle nostre razze infiacchite nella femminilità, bisogna educarle a una virilità spinta fino alla brutalità. Ma bisogna imporre a tutti, uomini e donne, ugualmente deboli, un nuovo dogma di energia, per giungere a un’era di superiore umanità. Ogni donna deve possedere non solo virtù femminili, ma qualità virili, senza le quali non è una femmina. L’uomo che possiede solo la forza maschia, senza l’intuizione, è un bruto. Ma nella fase di femminilità in cui viviamo, soltanto l’eccesso contrario è salutare: è il bruto che va proposto a modello. […] per istinto la donna non è saggia, non è pacifista, non è buona. […] niente Femminismo. Il Femminismo è un errore politico. Il Femminismo è un errore cerebrale della donna, un errore che il suo istinto riconoscerà. Non bisogna dare alla donna nessuno dei diritti reclamati dalle femministe. Accordarglieli non porterebbe a nessuno dei disordini auspicati dai Futuristi, ma anzi a un eccesso di ordine».
Il testo è molto più esteso ma basteranno questi esempi per comprendere come ci sia contraddizione di fondo in un pensiero manifestato con così tanta veemenza: fa un certo effetto pensare che a formularlo sia stata una donna la quale, di fatto, cade nella trappola di imbrigliare il genere femminile in un’immagine altrettanto stereotipata e lontana dalla realtà e da quanto effettivamente le donne rappresentano all’interno delle società con il loro operato, le loro idee, il loro sguardo sul mondo. La risposta di Marinetti nella prefazione al libro Come si seducono le donne del 1917, conferma l’ambiguità che resta, di fondo, in un movimento come il Futurismo, nei cui principi non è chiara la distinzione netta tra la tradizione rifiutata e quella reiterata nell’adesione a uno status borghese di fatto predominante: «non contro la donna […] ma contro il concetto di donna creato da noi egoisti, gelosi, ossessionati e in particolare il tipo di donna fatale, snob, sognatrice, nostalgica, stupidamente e culturalmente complicata che riempie e legge i romanzi di D’Annunzio e contro la donna tira-e-molla, ipocrita, bigotta, mezzi abbandoni, che legge e riempie i romanzi di Fogazzaro».
Nell’ambito della poesia crepuscolare, è nota la raccolta I Colloqui di Guido Gozzano, raffinato esempio di crepuscolarismo ironico e dissacrante rispetto alla tradizione lirica dannunziana. Diversi sono i versi in cui emergono variegate figure femminili. In Elogio degli amori ancillari leggiamo: «Gaie figure di decamerone/le cameriste dan, senza tormento,/più sana voluttà che le padrone. […] non dopo voluttà l’anima triste:/ma un più sereno e maschio sollazzarsi./Lodo l’amore delle cameriste!». Dunque, sì alle serve appassionate, selvatiche e boccaccesche, che si concedono senza troppi intellettualismi, no alle padrone dal martirio lento (v. 14) e dal tedioso sentimento (v. 16), che privano di una piena voluttà!
Ancor più rappresentativi di un certo modo di rappresentare le donne sono i versi della poesia La signorina Felicita ovvero la felicità: «Sei quasi brutta, priva di lusinga/nelle tue vesti quasi campagnole,/ma la tua faccia buona e casalinga,/ma i bei capelli di color di sole,/attorti in minutissime trecciuole,/ti fanno un tipo di beltà fiamminga…/[…] Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi/rideva una blandizie femminina./Tu civettavi con sottili schermi,/tu volevi piacermi, Signorina:/e più d’ogni conquista cittadina/mi lusingò quel tuo voler piacermi!». È una donna che non ha i tratti caratteristici della tradizione, come la bellezza e la virtù, ma è trasmessa come il riflesso di una vita mediocre, quasi simile al gregge del pastore errante dell’Asia del canto leopardiano: «Tu non fai versi. Tagli le camicie/per tuo padre. Hai fatta la seconda/classe, t’han detto che la Terra è tonda,/ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…/Mi piaci. Mi faresti più felice/d’un’intellettuale gemebonda…/Tu ignori questo male che s’apprende/in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,/tutta beata nelle tue faccende./Mi piaci. Penso che leggendo questi/miei versi tuoi, non mi comprenderesti,/ed a me piace chi non mi comprende».
I versi di Marino Moretti della poesia A Cesena, invece, restituiscono la malinconia della sorella Ines che il poeta va a visitare nella sua casa coniugale, da poco sposa del marito Dino e intrappolata in relazioni e convenzioni stereotipate e soffocanti, essendo passata dalla patria potestà a quella maritale: «Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse/triste è per te la pioggia cittadina,/il nuovo amore che non ti soccorse,/il sogno che non ti avvizzì, sorella/che guardi me con occhio che s’ostina/a dirmi bella la tua vita, bella/bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora/o sposa, io vedo tuo marito, sento,/oggi, a chi dici mamma, a una signora;/so che quell’uomo è il suocero dabbene/che dopo il lauto pasto è sonnolento,/il babbo che ti vuole un po’ di bene […] “La mamma nostra t’avrà detto che…/E poi si vede, ora si vede, e come!/sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!».
(Tutti i corsivi sono dell’autrice).
In copertina: Guido Gozzano-Amalia Guglielminetti.
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.

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