Rileggere i classici. Il primo Novecento. Parte seconda

In ambito narrativo, emblematiche di un faticoso processo di emancipazione sono le figure femminili che popolano i romanzi di Pirandello.
L’esclusa, pubblicato nel 1901, ha come protagonista la giovane Marta Ajala, accusata ingiustamente di tradimento dal marito Rocco Pentagora e allontanata. Trova un impiego da maestra (dopo aver vinto il concorso) e quando il marito la richiama con sé in casa perché non vuole rinunciare a lei, Marta ha intrecciato davvero una relazione con Gregorio Alvignani, l’uomo di cui era stata accusata di essere l’amante: paradossalmente, pur avendo confessato al marito tale rapporto, quest’ultimo non cambia idea e insiste nel riaverla nonostante lei porti con sé anche il “frutto della colpa”.
Guido Baldi afferma che nel personaggio di Marta, Pirandello critica il fatto di non essere stata all’altezza dei presupposti su cui aveva cercato di ricostruire la sua vita nel periodo di “esclusione” dal tetto coniugale: Marta cede all’amante e poi ritorna dal marito, restando di fatto incompiuta nei suoi reali desideri. A questa lettura andrebbe necessariamente affiancata una riflessione sociologica: siamo in un’epoca in cui l’adulterio femminile è passibile di condanna e le donne come Marta non avevano chissà quante possibilità di scelta, soprattutto se si trovavano in condizioni personali e familiari di particolare difficoltà. Il finale del romanzo, a tal proposito, non lascia dubbi:

«— Rocco, no, è impossibile… Lasciami… È impossibile…
[…] Non mi hai voluta… — seguitò Marta, soffocata dalla commozione, nell’ardente amplesso: — Non mi hai voluta più.
— Ti voglio! ti voglio! — gridò lui, esasperato, accecato dalla passione.
[…] — Marta, dimentico tutto! e tu pure, dimentica! Sei mia! Sei mia! Non mi vuoi più bene?
— Non è questo, no! — gemette ella, affogata dall’angoscia. — Ma non è più possibile, credimi, non è più possibile!
— Perché? Lo ameresti ancora? — gridò egli, fieramente, sciogliendola dall’abbraccio.
— No, Rocco, no! Non l’ho mai amato, ti giuro! mai! mai! […]
Vincendo il ribrezzo che il corpo della moglie pur tanto desiderato gl’incuteva, egli se la strinse forte al petto di nuovo e, con gli occhi fissi sul cadavere, balbettò, preso di paura: — Guarda… guarda mia madre… Perdono, perdono… Rimani qui, rimani…».

Nel romanzo Suo marito, pubblicato nel 1911, compare un’altra figura femminile, quella di Silvia Roncella, protagonista di una trama incentrata sulla sua vicenda esistenziale. Silvia è una giovane scrittrice che desidera affermarsi e dedicarsi alla letteratura; suo marito Giustino Boggiolo, modesto impiegato, intuisce le qualità della moglie e vuole sfruttarle al massimo per gestire la sua carriera e gli affari, organizzando incontri, contatti con editori e con il pubblico, di fatto mercificando l’arte di Silvia. Lei, stanca di tutto questo, si allontana progressivamente dal marito fino a lasciarlo. Dopo la morte del loro figliolo, i due non ritorneranno più insieme, consapevoli che più nulla li lega. Baldi, a differenza di Marta Ajala, in Silvia Roncella vede il coraggio dell’emancipazione perché ha compiuto le scelte che Marta non era stata in grado di abbracciare fino in fondo. Tutto giusto, se non fosse che in Roncella e Boggiolo si intravedono le vicende esistenziali di due persone reali, ovverosia la scrittrice Grazia Deledda e il marito Palmiro Madesani. Forse un’antipatia tra i due scrittori che avrebbero vinto entrambi il Nobel (Deledda prima di Pirandello)? O solo ispirazione letteraria per porre il focus sul tema della mercificazione dell’arte e dell’industria culturale? Non si può dirlo con certezza. Fatto sta che Pirandello non ha più ripubblicato il romanzo Suo marito (che l’editore Treves non aveva voluto stampare)e ha pensato, verso la fine della sua vita, di riscriverlo con il titolo Giustino Roccella, nato Boggiolo, operazione che ha poi abbandonato, temendo ancora, probabilmente, l’identificazione con la coppia Deledda-Madesani: «Di Silvia sapeva che, fin da ragazza, aveva il viziaccio di scribacchiare; che aveva stampato quattro, cinque libri, forse più; ma non s’aspettava davvero che dovesse arrivargli a Roma letterata già famosa. […] Non era però cattiva, in fondo, Silvia, no; anzi non pareva per nulla, poverina, che avesse quella specie di bacamento cerebrale»; «Il signor Ippolito non poteva soffrire le donne che portano gli occhiali, camminano come soldati, oggi impiegate alla posta, telegrafiste, telefoniste, e aspiranti all’elettorato e alla toga; domani, chi sa? alla deputazione e magari al comando dell’esercito. Avrebbe voluto che Giustino impedisse alla moglie di scrivere, o, non potendo impedirglielo (ché Silvia veramente non gli pareva tipino da lasciarsi in questo imporre dal marito), che non la incoraggiasse almeno, santo Dio!».

È imprescindibile un ultimo riferimento a uno dei più grandi romanzi modernisti del nostro primo Novecento, La coscienza di Zeno. Classico per eccellenza della letteratura novecentesca, esso offre una panoramica interessante e altrettanto spietata dei rapporti di genere dell’epoca, che già erano stati fotografati nelle precedenti prove narrative di Una vita e Senilità. Non si può non mettersi nei panni di Augusta, scelta da Zeno come ripiego dopo essere stato rifiutato da Ada e Alberta, ma che – nel gioco umoristico e perverso della dicotomia malattia/salute – si convince ella stessa che «il matrimonio è fatto così». Zeno vede in Augusta una donna incapace di autonoma esistenza, percepisce che ella ha bisogno di appoggiarsi a una figura di uomo forte e autorevole, al centro di un sistema patriarcale ben definito e impossibile da mettere in discussione, perché non entrare nelle incrollabili certezze borghesi significa uscire fuori dal perimetro della salute: «Quale importanza m’era attribuita in quel suo piccolo mondo! Dovevo dire la mia volontà a ogni proposito, per la scelta dei cibi e delle vesti, delle compagnie e delle letture. Ero costretto a una grande attività che non mi seccava. Stavo collaborando alla costruzione di una famiglia patriarcale e diventavo io stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m’appariva quale il segnacolo della salute. È tutt’altra cosa essere il patriarca e dover venerare un altro che s’arroghi tale dignità. Io volevo la salute per me a costo d’appioppare ai non patriarchi la malattia, e, specialmente durante il viaggio, assunsi talvolta volentieri l’atteggiamento di statua equestre».
Non minore compassione si dovrebbe provare nei confronti di Carla, la giovane amante di Cosini, sulla quale il protagonista rovescia ancora la sua illusoria volontà di guarigione e di ricerca della salute: «Le lunghe vocali di Carla mi chiamavano, e forse proprio il loro suono m’aveva messo nell’anima la convinzione che, quando la mia resistenza fosse sparita, altre resistenze non ci sarebbero state più. Però m’era chiaro che potevo ingannarmi e che forse il Copler vedeva le cose con maggior esattezza; anche questo dubbio valeva a diminuire la mia resistenza visto che la povera Augusta poteva essere salvata da un mio tradimento da Carla stessa che, come donna, aveva la missione della resistenza. Perché il mio desiderio avrebbe dovuto darmi un rimorso quando pareva fosse proprio venuto a tempo per salvarmi dal tedio che in quell’epoca mi minacciava? Non danneggiava affatto i miei rapporti con Augusta, anzi tutt’altro».
Desiderare, dunque, un’altra donna è l’àncora di salvezza dal tedio, non solo per Zeno, ma anche per la moglie Augusta, che in quanto donna ha la missione della resistenza! Salvo poi rendersi conto che, probabilmente, il mantenimento di due relazioni contemporaneamente non gioverebbe del tutto alla sua incolumità: «Non appena desto, ebbi la piena coscienza della forza del mio desiderio e del pericolo ch’esso rappresentava per Augusta e anche per me. Forse nel grembo della donna che mi dormiva accanto già s’iniziava un’altra vita di cui sarei stato responsabile. Chissà quello che avrebbe preteso Carla quando fosse stata la mia amante? A me pareva desiderosa del godimento che fino ad allora le era stato conteso, e come avrei io saputo provvedere a due famiglie? Augusta domandava l’utile lavanderia, l’altra avrebbe domandata qualche altra cosa, ma non meno costosa».
Ma, come l’ultima sigaretta che non è mai l’ultima, Zeno non si risolve a troncare la relazione adulterina con Carla: «Il riso sulla sua bella faccia pareva l’arcobaleno ed io la baciai ancora. Essa non rispondeva alle mie carezze, ma le subiva sommessa, un atteggiamento ch’io adoro forse perché amo il sesso debole in proporzione diretta della sua debolezza». Un’apoteosi di puro sessismo.
Tutti i corsivi sono dell’autrice.

In copertina: Deledda e il marito, 1900.

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Articolo di Valeria Pilone

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Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.

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