Quando facciamo un percorso critico sugli stereotipi non stiamo attuando chissà quali stravolgimenti: stiamo solo rendendo percettibili le regole invisibili che condizionano ognuno/a di noi. Stiamo allenando il senso critico degli e delle studenti, addestrando a porsi domande inedite, a decostruire l’ovvio.
Lavorare sul linguaggio equivale a lavorare sull’organizzazione della coscienza, per questo lo si deve e lo si può fare fin dall’infanzia. È nella zona più inavvertita del nostro cervello che le parole disegnano i perimetri delle sfere concettuali, tracciano le frontiere del dicibile e dell’indicibile, suggeriscono il senso cui rimandano.
Destrutturare uno stereotipo significa non tanto tentare di annullarlo quanto analizzarlo, cercare di capirne la storia e la composizione: nel caso degli stereotipi di genere le storie sono antiche e dense, ed entrarci può significare un apprendimento straordinario.
Non porre a tema attraverso una critica educativa le culture degli stereotipi di fatto li legittima e li perpetua. I cambiamenti ci sono stati, e sono tanti: ma non bastano a far dimenticare quanto rimane fermo; oppure quanto in anni recenti ci ha rimandate indietro, coprendosi dietro il comodo alibi che tutto fosse ormai stato quietamente raggiunto. Nel mondo c’è un discreto numero di persone evidentemente sessiste, di persone dichiaratamente omofobe e di persone esplicitamente razziste. Poi c’è una sostanziosa percentuale di persone discriminate. C’è infine una stragrande maggioranza che non prende posizione, ed è quella che potrebbe cambiare i nomi alle cose e di conseguenza cambiare il mondo. Purtroppo non ne ha voglia. Come si struttura un universo simbolico che razionalizza uno squilibrio di potere? Chiamiamo luogo comune una formula resa ovvia, immediata e di conseguenza autorevole dalla sua diffusione, ricorrenza, familiarità. Con questa locuzione intendiamo sia un dispositivo concettuale sia un sistema di conoscenze cui gli individui attribuiscono una realtà, su cui investono una certa porzione di fiducia. Esso si basa su convinzioni condivise ma non necessariamente dimostrate; si modella non sui dati ma sulla chiacchiera ordinaria. Frasi ripetute quotidianamente e comportamenti reiterati sistematicamente diventano verità assolute, secondo l’illogica regola del “ciò che è frequente, è vero” (lo dicono tutti, lo fanno tutti, lo pensano tutti, lo credono tutti). Sono il rifiuto che oppone a far esaminare i princìpi su cui è fondato, la sua resistenza ai cambiamenti o alle correzioni, il suo effetto di riconoscimento immediato e il circolo chiuso in cui si muove, che rendono il senso comune apparentemente “spontaneo”.
Tramite il senso comune (che è diverso dal buonsenso) non si può apprendere come stanno le cose: si può solo scoprire qual è il loro posto nello schema esistente delle cose. Il problema è che si scambiano i due piani.

Le domande che lo mettono in discussione sono “prive di senso”; le persone che se ne discostano sono “dissennate”. Fare e pensare ciò che è abituale ci dà un senso di falsa sicurezza. Non vogliamo storie nuove ma storie che conosciamo, al massimo con piccole variazioni, come i bambini e le bambine che esigono la reiterazione delle favole. Non amiamo storie che destabilizzino: per questo ci immunizziamo nei confronti di tutto ciò che può mettere a repentaglio l’insieme di opinioni che si è radicato nel tempo in noi, venendo a costituire la base dell’agire e del pensare quotidiano.
Il luogo comune è figlio naturale dello stereotipo (idea precostituita, cristallizzata e difficilmente modificabile). Gli stereotipi si trasmettono attraverso diversi canali. Attraverso l’incessante susseguirsi delle interazioni quotidiane gli adulti e le adulte trasmettono a bambini e bambine, spesso tacitamente, il sistema di ruoli, valori e regole che è necessario rispettare, pena la non accettazione sociale: tale atteggiamento è conseguente ai precisi modelli che hanno in mente, cui le nuove generazioni devono adeguarsi pena la disapprovazione. In sintesi ci sarebbero modi precisi, dati e definiti una volta per tutte perché “naturali”, di essere uomini e donne e di rapportarsi; tutto il resto sarebbe corruzione ideologica.
Più delle declamazioni pubbliche è l’analisi degli stereotipi correnti a fornire elementi per comprendere ciò che ancora la nostra società si aspetta dalle “vere” donne e dai “veri” uomini, e cosa si intende per “corretto” comportamento maschile e “corretto” comportamento femminile.
Gli stereotipi si fondano su generalizzazioni arbitrarie che fissano le somiglianze e annullano le differenze. Il loro uso è un sistema che ha lo scopo di rafforzare quanto c’è di indimostrabile ma tenacemente presente nell’opinione collettiva. Lo stereotipo non si limita a descrivere la realtà ma, descrivendola, la plasma. Il nostro mondo stereotipato non è necessariamente il mondo come lo vorremmo e come ci renderebbe felici: è semplicemente il mondo come ce lo aspettiamo. Quest’aspettativa semplifica, rende più facile la vita, ma in realtà la banalizza; in altri termini ci permette di pensare di meno. Ci evita fatica. Come sono contenti gli esseri umani, quando possono risparmiare fatica!

Gli stereotipi di genere sono una sottoclasse degli stereotipi: una delle più frequentate. Il loro fondamento è il binarismo (visione dicotomica fondata su opposizioni, lettura polarizzata del mondo), che in generale è motore potente di stereotipia. La forza intrinseca delle costruzioni della diseguaglianza risiede nella sostanziale invisibilità delle strutture che le compongono, interiorizzate a livello sia individuale sia collettivo quali costituenti inevitabili dell’ordine “naturale” delle cose. Il genere è così costruito come sistema di valori per cui sono concepibili solo due tipologie umane, solo due modalità di comportamento sono accettabili, solo due destini sono possibili, e sono determinati dagli organi riproduttivi con cui si nasce.
Quando gli stereotipi diventano uno dei principali filtri con cui si guarda la realtà imbrigliano le persone in etichette e consuetudini da cui è difficile svincolarsi. Esse condizionano il ruolo che si assume nelle relazioni e in famiglia, la strada formativa e professionale che si decide di intraprendere, la scelta del/della partner, l’educazione di figli e figlie e molti altri aspetti della vita. Gli stereotipi non sono un’immagine del mondo, ma l’immagine di un mondo immutabile cui ci siamo adattati. In questo mondo, le persone non solo hanno un posto preciso, ma si devono comportare secondo previsioni che confermino la nostra visione del mondo. Lì ci sentiamo a nostro agio: ne siamo membri e sappiamo come muoverci. Vi troviamo il fascino del familiare, del prevedibile, del sicuro. È lo stesso motivo per cui ciò che è diverso da noi ci fa paura.
Tutto questo lo definiamo “umano”: aggettivo che per noi significa non solo “normale” (statisticamente rilevante), ma anche “giusto”. Pensa che presunzione. Il meglio che ci possa accadere in quanto esseri umani è fare scelte che siano frutto dei nostri desideri e non di condizionamenti e gabbie predefinite, immissioni forzate negli schemi: questo dovremmo volere.

Oggi la costruzione delle identità è più complessa e più ricca rispetto al passato, eppure in troppi punti è ancora influenzata dalle antiche, anzi arcaiche modalità di costruzione dei generi, che vengono trasmesse per inerzia dalle agenzie di socializzazione, famiglia in testa e poi scuola, mass media, pubblicità, gruppo di pari. Solo se indotti esplicitamente a rifletterci su, gli e le adolescenti sono disposti a prendere in esame il tasso di stereotipia delle loro convinzioni e delle loro abitudini. In questo caso accettano di discuterne, di smontarle magari, anche se la reazione immediatamente difensiva “è sempre stato così”, oppure “tutti la pensano così” è molto diffusa. I ruoli rigidamente definiti fin dalla prima infanzia sono gabbie invisibili in cui richiudiamo figli e figlie, che faticano a uscirne. Lo facciamo con amore, naturalmente, e l’amore assolve tutto: come se non fosse possibile amare male.
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Articolo di Graziella Priulla

Già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
