Passeggiata di Ripetta n° 17/a. La casa in cui morì la pittrice Deiva De Angelis

Tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti il talento di Deiva De Angelis cominciò a diventare una certezza e la critica fu disposta a riconoscerle «quel favorevole gioco di colori, quel disegno armonioso, pieno di energia e di sicura evidenza» che possiamo definire la cifra stilistica delle sue opere.

Deiva De Angelis, Case, 1915, Olio su cartone, Roma, collezione privata

Nella sua vita e nella sua carriera si affacciò un’altra figura importante, Anton Giulio Bragaglia che, alla fine del 1918, aprì in via Condotti “La Casa d’arte Bragaglia”, una galleria piccola ma vivace, attenta a cogliere gli stimoli più interessanti e innovativi dell’arte italiana del primo dopoguerra. Anton Giulio divenne un sincero ammiratore ed estimatore di Deiva, arrivando a definirla «un ottimo cervello maschio», una «modernissima colorista» capace di esprimere «la sua vigorosa schiettezza di artista indelebilmente», «un tipaccio ma intellettualmente funzionava bene, selvaggia come una contadina raffinatasi a Londra». Insomma, era brava perché sapeva dipingere «come un uomo», aggiungendo subito dopo «senza schiacciare la propria femminilità traboccante». Per Bragaglia il disordine e l’irregolarità presenti nella vita di Deiva non intaccarono la sua produzione artistica, nella quale era possibile ravvisare la stessa disciplina e lo stesso rigore delle grandi figure della pittura. Un ruolo da protagonista quindi il suo, non facile da far accettare al mondo dell’arte romano che, pur con molte artiste e di valore, era dominato dagli uomini; eppure, come ha ricordato sempre Bragaglia, ci fu «un tempo che non pochi pittori maschi (e reputati) la imitavano». Con alcuni di loro, Oppo, Socrate, Spadini, aveva formato «una brigata quadra, perfettamente armonica negli intenti artistici, […] una piccola falange di battaglia, che marciò decisa contro gli ostacoli del vecchiume, in cerca della sua luce e della sua vittoria».

Deiva De Angelis, Ciclamini, Olio su cartone, Roma, collezione privata

Il rapporto professionale e umano tra Deiva e Bragaglia diventò nel tempo sempre più saldo e se la pittrice trovò in lui un solido alleato, egli scoprì in lei le doti di un’arguta e brillante consigliera: «Se infatti s’andava con essa a veder le esposizioni, s’intendeva di pittura come c’è dato raramente di sentire. Confesso che a me stesso la guida di Deiva ha giovato enormemente: le osservazioni di mestiere ch’ella mi indicava, m’hanno scoperto il sistema di critica vero; che è il più moderno oggi ed è anche il più antico. Per un momento Deiva contò moltissimo nei giudizi poiché influenzava le tendenze della critica come le correnti della pittura». Molti decenni dopo, nel 1960, Bragaglia confermò a Franco Cremonese i meriti dell’artista: «Deiva mi ha insegnato molto. Mi ha fatto capire molte cose della pittura. Fu, nella sua epoca, la post-impressionista più polemica e intuitiva. Quello che negli altri era risultato di studio, a volte pedante […] in lei era frutto di vivace ed intelligente istinto».
La prima personale della pittrice si tenne nel 1920 proprio nella Casa d’Arte Bragaglia e vide riuniti oltre quaranta lavori. Nello stesso anno cominciò la collaborazione con la rivista Cronache d’Attualità, legata alla Casa d’Arte, pubblicando alcuni disegni per le liriche e le poesie di Arturo Onofri; l’impegno di illustratrice, che proseguì nel tempo, confermò il valore del suo tratto disegnativo veloce e incisivo: «Oh, la de Angelis sapeva disegnare! ‒ scrisse ancora Bragaglia ‒ Il suo polso fermo è detto da tutte le opere sue, anche da quelle in cui la colorazione quasi sommaria pare non abbia in sé alcun sostegno di disegni precisi. Pareva, ma non era. Senza un saldo disegno non si giunge ad esser tanto vigorosi».

Deiva De Angelis, Nudo, disegno tratto da Augusto Jandolo,
Studi e modelli di via Margutta, 1953

Deiva De Angelis vigorosa lo era e lo fu anche la sua carriera, che proseguì con mostre significative: altre collettive nella Casa d’Arte di Bragaglia, le Biennali romane del ’21, del ‘23 e del ’25, l’Exposition Internationale d’Art Moderne a Ginevra, tra il dicembre 1920 e il gennaio 1921, in occasione del convegno della Società delle Nazioni, solo per citarne alcune. Non riuscì invece a vedere accettato un suo paesaggio alla XII Biennale di Venezia del 1922, vetrina di prestigio internazionale. Chiosò Oppo poco tempo dopo: «[…] proprio non capisco perché non sia stato accettato dalla giuria romana per l’esposizione internazionale di Venezia. Ne ho viste delle cose orribili a Venezia! E questa è invece una bella, chiara e solida pittura».

Deiva De Angelis, Ritratto di Renzo Del Debbio, 1923, olio su tela,
Roma, collezione privata

«Ell’è nata per dipingere» ‒ ha scritto Aldo Di Lea su Cronache d’attualità nel 1921 ‒ «Da quando Deiva De Angelis è apparsa sull’orizzonte artistico di Roma, dai suoi primi saggi a tutt’oggi la sua produzione […] è una sicura impressionante ascesa verso più nobili manifestazioni del suo pensiero. Siamo certo alla vigilia dell’opera definitiva e classificatrice […]».
Invece di tempo per avere ulteriori conferme da quel talento prodigioso e per consacrarne l’avvenuta maturità artistica non ne restò. Il destino, difficile e aspro fin dalla nascita, aggredì Deiva con una malattia che non lasciò scampo: un tumore, forse all’intestino, forse allo stomaco, la divorò in breve tempo e la fece soffrire molto. Ancora Bragaglia nell’omaggio intenso e commosso pubblicato nella primavera del 1925, poche settimane dopo la morte dell’artista: «[…] è stata malata otto mesi, mantenuta a spese dei pittori di Roma. Le occorrevano cento lire al giorno soltanto per i narcotici. Ad una lotteria da me indetta per lei, hanno risposto tutti dandomi un lavoro in premio».
Di soldi Deiva ne aveva avuti sempre pochi, non avendo badato all’aspetto economico delle sue opere. Chi l’ha conosciuta ha raccontato che le vendeva sempre a poco, quando non le regalava o lasciava nei cascinali della campagna romana dopo una giornata di lavoro con pennello e tavolozza. Fu costretta a vendere, o meglio svendere, i quadri per comprare le medicine che, se non riuscirono a combattere il cancro, le diedero un po’ di tregua dal dolore. A starle vicino il pittore Bepi Fabiano, che forse da qualche tempo aveva una relazione sentimentale con lei, e pochi altri.

Bepi Fabiano, Ritratto di Deiva De Angelis, Roma, Gabinetto delle Stampe

Così ha raccontato Franco Calabrese, aggiungendo altri dolorosi dettagli. Deiva non riusciva più a uscire, neanche ad alzarsi dal letto e trovò in un giovane medico, il dottor Giovanni Rocco, sua moglie e il piccolo figlio Gastone, il calore familiare che non aveva: «si affezionarono a quest’ammalata povera e sola, e quando ella propose “Portatemi a casa vostra”, l’accontentarono di buon grado. Deiva De Angelis nell’appartamento dei suoi ospiti, al numero 17 della Passeggiata di Ripetta, ebbe una stanza e le cure dei nuovi amici. Da quel momento, per suo naturale pudore e per l’egoismo dei numerosi amici, si isolò dalle numerose brigate; ormai raramente lasciava il letto e non prese più in mano i pennelli». Ma, tranne che per la povertà in cui versava Deiva, le testimonianze giunte fino a noi non coincidono né concordano: alcuni hanno raccontato che, nonostante il male la consumasse rapidamente, continuava a dipingere in modo quasi forsennato, sentendo il tempo sfuggirle, cedendo per poche lire i quadri necessari ad acquistare un po’ di cibo e gli antidolorifici; altre dichiarazioni la vogliono invece in giro per osterie e bettole, quando il dolore si faceva meno devastante.

Roma, la casa dove è morta Deiva De Angelis in Passeggiata di Ripetta

Anche sui suoi ultimi momenti di vita aleggia un che di leggendario: «Una sera ‒ ha scritto sempre Cremonese ‒ espresse un desiderio inconsueto: “Vorrei una bottiglia di champagne”. Strana “raffinatezza”: aveva sempre preferito il vino schietto. Giovanni Rocco volle accontentarla. Coi pochi soldi che aveva in tasca corse a comprare la bottiglia. Ella ne bevve d’un fiato un intero bicchiere. Apparve felice. Disse: “L’ultima sbornia della pittrice Deiva De Angelis”, il bicchiere le cadde di mano, reclinò il capo».
Deiva morì a quarant’anni il 19 gennaio 1925 e non il 24 febbraio come riportato nell’articolo scritto da Franco Cremonese e come è stato riproposto nelle biografie successive, lo attesta il certificato di morte che mi ha mostrato il pronipote Oscar Terradura. Nel documento l’artista è registrata come Deiva Riposati, per molto tempo invece le ricerche d’archivio si sono orientate sui cognomi Terradura e De Angelis, senza trovare riscontri e generando imprecisioni storiche. Nel certificato sono confermati il luogo della morte (l’abitazione di Passeggiata di Ripetta 17/a), lo stato civile («coniugata De Angelis Alfredo») e la paternità («fu Pasquale»); ma le persone che denunciarono il decesso evidentemente non la conoscevano bene perché non registrarono altre informazioni: non venne indicato il nome della madre né il luogo di abituale residenza di Deiva, il paese di nascita fu scambiato con quello di Gubbio, venne sbagliata la sua età e soprattutto, incredibilmente, la definirono massaia.
Fu il Ministero, ha raccontato Bragaglia nella sua testimonianza pubblicata a tre mesi di distanza dalla scomparsa di Deiva, ad aver pagato le spese per il loculo del cimitero, mentre gli amici si stavano dando da fare per una tomba scolpita; anche il Sindaco di Perugia promise collaborazione e attenzione per non disperderne la memoria, ma a oggi nulla di tutto ha trovato conferma. Proprio ora che sto per concludere questo testo, ricevo le informazioni dagli uffici dei cimiteri capitolini: la bara di Deiva fu sistemata in un deposito dove rimase per poco meno di tre anni, quando fu inumata d’ufficio in un loculo. Scaduti i dieci anni, i suoi resti vennero riversati nell’Ossario comune del cimitero monumentale del Verano. Può essere di consolazione il fatto che alla Terza Biennale Romana del ’25 furono esposti postumi tre suoi lavori e che nel 1927 la XCIII Esposizione di Belle Arti della Società Amatori e cultori ricordò Deiva con quattro dipinti nella Sala 27.

Deiva De Angelis, Ritratto di bambina, 1921, olio su cartone, Roma, collezione Jacorossi

La solitudine ha accompagnato Deiva per molti tratti della vita, fino alla morte e anche oltre, nonostante lo scambio artistico e culturale con numerose persone e gli amori vissuti. Nel suo caso, come in quello di tante altre artiste, essere pittrice ha comportato rinunce, superamento di ostacoli e pregiudizi, precarietà economica, una celebrità rivelatasi effimera. Deiva è transitata nella storia e nell’arte della capitale come una meteora, un lampo folgorante del quale restano tracce non sempre chiare e certe. La dispersione dei suoi lavori tuttora crea difficoltà nel lavoro di ricerca e ricostruzione. Aver fatto un po’ di ordine nelle sue vicende biografiche spero possa contribuire a rinnovarne il ricordo.
In copertina: Deiva De Angelis, Paesaggio, 1920, olio su cartone, Cagliari, Galleria comunale.

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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