Nella pietà che non cede al rancore. Il Cristianesimo in Fabrizio De André

Pensando alla religiosità di Fabrizio De André, viene in mente subito l’album La buona novella, ispirato dalla lettura dei Vangeli apocrifi. L’introduzione Laudate Dominum sembra un coro ecclesiastico, eppure quello di De André è un Vangelo laico ed estremamente rivoluzionario, come si nota già dalla prima canzone, L’infanzia di Maria: non solo non si parla di miracoli ma non si parla nemmeno di Gesù.

La vera protagonista del Vangelo, o almeno della maggior parte dei suoi brani, è Maria, una bambina di famiglia povera affidata a un tempio «per bisogno o peggio per buon esempio» e poi cacciata dai sacerdoti e data in sposa con l’arrivo delle mestruazioni. È solo a questo punto che compare il vecchio Giuseppe, «un reduce del passato, falegname per forza padre per professione», che prende in sposa Maria pur non avendo nessuna intenzione fisica nei suoi confronti: durante tutta la narrazione, questa figura maschile rimarrà sempre marginale. Qui il Poeta interrompe la musica e spiega che Giuseppe porta a casa la ragazza e parte per lavoro rimanendo quattro anni lontano dalla Giudea; al suo ritorno, Maria è incinta. Il brano Il ritorno di Giuseppe, che descrive magistralmente il suo viaggio a piedi attraverso il deserto palestinese, ha di fatto la funzione di introdurre il racconto di come Maria sia rimasta misteriosamente gravida in assenza del marito.

Il sogno di Maria è, dal punto di vista della composizione poetica, il grande capolavoro dell’album. Fabrizio De André, che non parla mai di miracoli e non sembra dare particolare importanza al lato “religioso” della vita di Gesù, sembra confermare la versione secondo cui la gravidanza di Maria non è stata preceduta da alcun rapporto sessuale. In questa canzone è Maria a prendere la parola in prima persona raccontando al marito incredulo «di quel segreto che si svela quando lievita il ventre». Il «grembo umido scuro del tempio» in cui «l’ombra era fredda, gonfia d’incenso» contrasta con la suggestiva descrizione del florido paesaggio palestinese estivo «tra valli fiorite dove all’ulivo si abbraccia la vite». L’angelo compare davanti a lei «come ogni sera», non è una sorpresa, ma stavolta l’incontro è diverso dal solito, parla in modo confuso, «come quando si prega». Poi l’angelo svanisce e il sogno ritorna a lasciare posto alla realtà. Davanti a Giuseppe, Maria «ripeteva d’un angelo la strana preghiera, dove forse era sogno ma sonno non era: lo chiameranno “figlio di Dio”, parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno ma impresse nel ventre». Ora la ragazza, pur non avendo mai perso la verginità, è consapevole di attendere un figlio, e non un figlio qualunque.

Ave Maria segna, dal punto di vista concettuale, la metà dell’album. Riprendendo la musicalità del coro liturgico e il tono della preghiera, il brano è una sorta di inno alla maternità: «Ave Maria adesso che sei donna, Ave alle donne come te Maria, femmine un giorno e poi madri per sempre». Ave Maria funge da cesura tra due momenti della vita della donna, uno da ragazza e uno da madre di un uomo già adulto e già condannato a morte: quando la canzone finisce sono passati 33 anni. La vita di Gesù non viene narrata nel disco.

Il brano successivo, intitolato Maria nella bottega del falegname, è un dialogo tra la donna e l’uomo che sta costruendo la croce con cui sarà ucciso suo figlio. Quando Maria chiede ingenuamente a cosa servano i ceppi di legno che l’uomo sta piallando, il falegname risponde «il più grande che tu guardi abbraccerà tuo figlio»: ascoltando queste parole sembra di vedere negli occhi di Maria tutto il dolore di una donna a cui la legge dello Stato sta portando via suo figlio, probabilmente l’unico che ha avuto. È un dolore comune a tante madri, di tutte le vittime di Stato che la legge non ha risparmiato. La sofferenza di Maria accompagna tutta la Storia e tutti coloro che hanno incontrato la pena di morte o la polizia armata, senza limiti di tempo o di geografia.

In Via della croce le umiliazioni inflitte a Gesù prima di salire sulla croce sono descritte con l’empatia di una madre: l’emotività materna si scontra con l’indifferenza generale che accompagna l’esecuzione. Il profeta del Cristianesimo non è affatto presentato come figlio di Dio ma come un uomo che soffre, di lui sono mostrate tutte le debolezze umane e non l’eroicità o la natura divina. In questi versi il Poeta inserisce un commento sulla condizione femminile e sul rapporto di Gesù con le donne: «fedeli umiliate da un credo inumano che le volle schiave già prima di Abramo con riconoscenza ora soffron la pena di chi perdonò a Maddalena, di chi con un gesto soltanto fraterno una nuova indulgenza insegnò al Padreterno». Il celebre episodio evangelico in cui Gesù perdona la donna adultera invece di lasciarla lapidare è un grande insegnamento per la Chiesa stessa, insieme all’annuncio che le prostitute e le peccatrici precederanno i ricchi e i benpensanti nel Regno dei Cieli. Gli ultimi versi della canzone sono dedicati ai due ladri che «hanno un posto d’onore» per essere crocifissi insieme a Gesù, quasi come se la loro presenza togliesse prestigio alla morte del Messiah («perdonali se non ti lasciano solo, se sanno morir sulla croce anche loro»). L’ultima frase, «a piangerli sotto non han che le madri, in fondo son solo due ladri» fa da collegamento con la canzone successiva, Tre madri, una poesia commovente. Ai piedi delle croci su cui Tito, Dimaco e Gesù stanno agonizzando, le rispettive madri si parlano. Le prime due rimproverano a Maria di star piangendo «con troppe lacrime» quella che in realtà è «solo l’immagine di un’agonia», dal momento che suo figlio risorgerà dopo tre giorni. La risposta di Maria è intensa ed emozionante: «piango di lui ciò che mi è tolto: le braccia magre, la fronte, il volto, ogni sua vita che vive ancora che vedo spegnersi ora per ora». Non c’è un’entità divina ma solo una grande umanità, che culmina nella farse finale di Maria, la più toccante: «come nel grembo e adesso in croce ti chiama “amore” questa mia voce, non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio».

L’ultima canzone, Il testamento di Tito, vede Gesù ancora come comparsa. Qui a prendere la parola è Tito, uno dei due ladri. Tramite lui, De André commenta i comandamenti cristiani. Chi ascolta attentamente il testo noterà che i comandamenti sono nove e non dieci: nei comandamenti ebraici il decimo vietava ai fedeli di comporre immagini raffiguranti il Signore, regola mai rispettata dalla tradizione cattolica che ha dunque scisso in due il nono comandamento, mentre nell’ebraismo il desiderare un oggetto o una donna altrui costituivano un unico divieto. Scritta durante gli anni della Teologia della Liberazione e del Concilio Vaticano II, la canzone critica anche l’arricchimento di una Chiesa che dai poveri e dagli ultimi è sempre più lontana. Il prete di strada don Andrea Gallo, nel libro Sopra ogni cosa, dedicato proprio a commentare alcune canzoni dell’amico, fa notare che «la nostra amata Chiesa, peraltro ben accompagnata da Stato e poteri vari, ha sempre visto la declinazione dei comandamenti in un’ottica un po’ restrittiva […]. Il comando negativo supera il coraggio positivo che nasce dall’amore.» Dopo aver criticato dieci divieti, l’amore è il comando positivo. Coerentemente con tutta la sua opera, Fabrizio De André affida a un ladro morente il suo messaggio di umiltà e perdono. Rivolgendosi alla madre, Tito pronuncia una frase che si potrebbe considerare la sintesi di questo Vangelo: «nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».

L’album si chiude con lo stesso coro ecclesiastico con cui si è aperto, ma questo porta un titolo rivoluzionario: la formula iniziale Laudate Dominum diventa ora Laudate hominem, accompagnata dall’affermazione «non voglio pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo e fratello anche mio». Anche in Si chiamava Gesù, canzone di tre anni precedente La buona novella, De André descrive il Messiah dicendo «penso non fu altri che un uomo, come Dio passato alla storia»; così la natura divina di Gesù è stata rovesciata in una splendida figura totalmente umana, un uomo debole e mortale ma con saldi ideali. È significativo l’interesse dell’autore per la figura di Gesù, ucciso dalla legge e dall’ordine costituito, proprio durante le contestazioni studentesche del Sessantotto, che a quell’ordine sembravano volersi ribellare. Il mancato riferimento a un Dio non toglie all’opera la sua natura religiosa e moralizzatrice, ribadendo che il più grande dei valori umani è il perdono. Eppure La buona novella, già censurata dalla Rai in quanto “blasfema”, incontrò allora anche l’ostilità del mondo antagonista che, non cogliendo i riferimenti, la considerò anacronistica e poco combattiva.

De André. La buona novella 1-1

In copertina: illustrazione di Mauro Biani, tratta da “il manifesto”.

 

Articolo di Andrea Zennaro

4sep3jNI

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.

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