Il celeberrimo film di Pietro Germi del 1961 rappresenta ancora oggi uno dei maggiori esempi cinematografici di analisi socio-morale del bel paese. Tra il serio e il faceto vengono affrontati i costumi, l’etica, le convenzioni sociali e normative, i rapporti familiari, e quindi di genere, le dinamiche legate all’onore.
Fefè Cefalù, personificato da un irresistibile quanto meschino Marcello Mastroianni, è l’archetipo del nobile siciliano di ultima generazione. Impoverito a causa di non meglio definiti vizi paterni, che poi a fine film saranno ben chiari allo spettatore, condivide il grande palazzo baronale con lo zio usuraio (che ne ha usurpato le possidenze). Annoiato dalla routine paesana, passa le giornate in casa tra vestaglie, pigiami e pantofole. Fuma rigorosamente con il bocchino, è attentissimo alla sua estetica personale quando esce di casa per una delle sparute passeggiate in paese, solitamente brevi e in orari in cui la canicola da un po’ di tregua. La macchietta paesana di Sicilia, viene ravvivata solo dal feticcio femminile, fonte di prurigine e tormento interiore per tutti gli uomini del paese.
Fefè incarna in modo grottesco, quanto sofferto, l’essere vittima di retaggi più grandi di lui: retaggi che, in ogni caso per deformazione di ceto, non avrebbe la fantasia di combattere. È stancamente sposato con Rosalia, la quasi irriconoscibile Daniela Rocca, che arde d’amore per lui, riempiendolo di attenzioni e avances che lui però puntualmente rifiuta. L’uomo impazzisce segretamente di passione per la giovane e conturbante cugina Angela, interpretata da una quindicenne Stefania Sandrelli.
Con il contesto paesano sullo sfondo, vengono affrontate due macro questioni sociali.
Questioni che, per l’attualità delle tematiche in rapporto all’anno di produzione della pellicola, di fatto hanno consegnato l’opera al gotha del cinema: il tema del divorzio e, in special modo, il delitto d’onore. Se il primo venne approvato con referendum nel 1974, il secondo venne abrogato dal codice penale solo nel 1981.
Il protagonista, nell’impossibilità di lasciare la moglie per poter risposare l’amata cugina sceglie infatti la via del delitto d’onore: uccidere la moglie fedifraga, colta in fragranza di tradimento, per poter beneficiare di una pena molto più bassa di quella prevista per l’omicidio volontario, e a pena scontata, finalmente, sposare l’amata cugina.
Questa l’unica via per poter amare liberamente la sospirata cugina Angela.
Questo il macabro piano di Fefè, che immagina continuamente fini tragiche per la povera moglie: una volta la immagina sprofondare nelle sabbie mobili, un’altra scomparire nello spazio, a bordo di uno shuttle.
Il problema è che Rosalia è donna “di ottimi costumi” e non ha nessuna intenzione di tradire il marito, cosicché Fefè si prodiga in “artifizi e raggiri” per indurre la moglie al tradimento: finisce egli stesso per sceglierne l’amante, induce quindi i due a ‘consumare’, li spia voyeuristicamente fino alla fuga disperata.
A questo punto comincia ad inviare lettere a sé stesso, con scritte come “Cornuto, vergogna [..]” al fine di simulare “l’onta all’onore” cagionata dal corpo sociale paesano che, com’era consuetudine, infieriva sul tradito che non avesse reagito “con violenza” di fronte al tradimento subito.
Il tutto per poter poi dimostrare e giustificare al giudice, a delitto commesso, lo “stato d’ira” necessario all’elemento psicologico del reato ex articolo 587 c.p.
Il piano si compie nei minimi dettagli, ma il finale a sorpresa rivela tutta la miserabilità della condizione del protagonista.
La vicenda è narrata attraverso i filtri di un élite nobiliare polverosa e in decadenza, che avrebbe pure la profondità culturale per sottrarsi al substrato morale d’appartenenza ma che, invece, ne sfrutta machiavellicamente le evidenti contraddizioni.
Il protagonista è allo stesso tempo demiurgo carnefice e vittima assegnata di un qualcosa più grande di lui. Ciononostante la singolarità di Germi nel caratterizzare il personaggio riesce perfino a suscitare un qualche senso di empatia verso il protagonista, tutto sommato soggiogato dai radicati stereotipi socio-culturali.
La feroce morale delle comari verso un’altra donna, la povera Rosalia, sta a simboleggiare la sempre straordinaria banalità del male. La Sicilia barocca è eretta a baluardo dell’immutabilità culturale.
La decadenza degli interni, gli arazzi rococò dai motivi floreali e faunistici enfatizzano il benessere sfumato di una condizione privilegiata, che non ha usato la propria fortuna per emanciparsi dalla miseria umana. Ne deriva nel complesso una commedia grottesca, a tratti tragi-comica, dagli esiti sicuramente tragici e in un certo senso karmici, con la chiosa finale che arriva quasi a “punire” il protagonista per le sue azioni.
C’è perfetta parità di genere nella morale astrusa del paese, sono tanto gli uomini quanto le donne ad aizzare il debole protagonista a “compiere il proprio destino” di violenza.
La prurigine ‘diffusa’ è dimostrata dalla proiezione nel paese del film “La dolce vita” di Fellini, evento mondano fonte di una curiosità morbosa che attira tanto le paesane, quanto i paesani.
Caso per altro incredibile di meta-cinematografia: Mastroianni è protagonista anche del film “scandalo” proiettato di fronte a tutto il paese.
Degna di nota , sui temi, è la critica non proprio velata alla intellighenzia politica culturale degli anni 60′, il Partito Comunista. In un primo flash di inizio film si mostra una festa di partito, con anche la musica, in cui tristemente ballano tra di loro soltanto uomini. Un secondo flash, quasi a fine film, a tradimento consumato, riporta un comizio nella sezione di partito.
Un austero dirigente del nord, giunto in paese, pone al pubblico il tema secolare “dell’ emancipazione femminile”, come d’altronde già “affrontato e risolto dai nostri confratelli cinesi”. Chiede quindi ai presenti, in una scena rimasta tra le più note dell’intero film, qual è il loro democratico parere, “quale giudizio sereno ed obiettivo merita la signora Cefalù”.
La risposta in coro che viene dal pubblico è “Bottana”.
Neanche la politica e la lotta di classe riescono a fungere da argine verso l’imperante sessismo.
Il film fece incetta di premi nazionali e internazionali (anche un Oscar) lanciando definitivamente sui più grandi palcoscenici Stefania Sandrelli e Marcello Mastroianni .
A distanza di tanti anni rimane una fotografia riuscitissima di una certa Italia che, come dimostra il prossimo Congresso del 29 marzo a Verona, non ci ha ancora abbandonato.
Articolo di Edoardo Cuccagna
Laureato in legge, cultore di Islam e politica mediorientale, sta seguendo il master Mislam alla Luiss, il Corso di Giornalismo investigativo e la Scuola per la buona politica presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso. Ha una grande passione per il cinema ed è un profondo estimatore di Petri, Altman, Pontecorvo, Caligari, Sergio Leone. Quando non si occupa di cose più serie tifa l’Inter e ascolta musica inglese.