Agosto è il mese dedicato alle vacanze estive per molte persone. Ci si muove alla volta di mete differenti, con il desiderio di vivere giornate all’insegna del riposo, della tranquillità, della sospensione magica di ogni routine, per immergersi in un’atmosfera di rilassamento e meditazione che non è normalmente concessa nello spasmodico susseguirsi delle nostre quotidianità. Ci sono peraltro molteplici modalità di viaggiare: anche quella della lettura può essere un’esperienza di viaggio interiore ed estetico. Se essa è poi accompagnata dalla visione di fotografie, immagini, cartoline di luoghi desiderabili e meravigliosamente incontaminati, lontani dagli affanni della nostra civiltà industrializzata, ebbra di consumismo e capitalismo, allora il viaggio diventa davvero occasione di riflessione, di catarsi, di avvolgente abbandono all’esplorazione dei valori sopiti della nostra umanità. È quanto mi è accaduto di recente scorrendo le bellissime fotografie di una cara collega e amica e di suo marito, appassionati di montagna e passeggiate, immersi in una natura resa poi all’ammirazione altrui in un reportage di immagini eloquenti che proiettano spettatori e spettatrici in mondi di infinita poesia.
Proprio alla poesia ricorro per accompagnare questo viaggio interiore, una poesia che sedimentata dentro di me riaffiora in modo naturale a descrivere l’innocenza e la meraviglia di una natura che attua come un miracolo una simbiosi tra di essa e le anime sensibili ai suoi richiami:
Gioia di cantare come te, torrente; / gioia di ridere / sentendo nella bocca i denti / bianchi come il tuo greto; / gioia d’essere nata / soltanto in un mattino di sole / tra le viole / di un pascolo; / d’aver scordato la notte/ ed il morso dei ghiacci (Breil – Pasturo, 12 agosto 1933).

L’autrice si immedesima nel torrente che dà gioia, che produce ilarità e riso, che la rende felice di essere nata in un mattino assolato sulla sua amata montagna e non ricorda invece la notte oscura della propria esistenza. Sono versi di Antonia Pozzi, cantrice fragile ma allo stesso tempo appassionata ed energica della vita e dei suoi tormenti, i suoi come quelli dell’umanità. C’era un luogo che per Antonia rappresentava il paradiso terrestre, l’intimo rifugio in cui si consumava la sua totale immedesimazione di dannunziana memoria in ogni elemento della natura, come una rinascita, un rinnovato respiro che le permetteva di riemergere dal soffocamento dei suoi mali e dai condizionamenti della sua esistenza. Questo luogo è Pasturo con la sua montagna, la Grigna, in Valsassina. I versi che la giovane poeta gli dedica sono memorabili e colmi di potenti suggestioni, la loro eco risuona nell’animo di chi legge e ancor più di chi conosce e ama la montagna ed il suo fascino.
Nata a Milano il 13 dicembre del 1912, Antonia è uno dei tanti esempi dell’oblio artistico e umano che in modo particolare sulle donne si è da sempre abbattuto nella storia, non solo quella dei fatti ed accadimenti politici e sociali, ma anche letterari ed artistici. Da docente di Lettere mi rammarico sempre molto nello scorgere ben pochi nomi femminili annoverati ed approfonditi adeguatamente nelle antologie scolastiche: il nome di Antonia è completamente assente, in una damnatio memoriae che si perpetua ai danni di innumerevoli artiste non attestate e non valorizzate in relazione all’opera che hanno prodotto, come fiori sbocciati ma mai osservati e curati con adeguata attenzione e amorevolezza. È una colpa questa a cui bisogna tentare di rimediare parlandone, ricordandola, leggendo i suoi versi in ogni dove. Di lei Eugenio Montale scriveva: «Anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non poté reggere al peso della vita, Antonia Pozzi richiede una lettura che faccia vivere in noi gli sviluppi ch’essa conteneva e non espresse che in parte; […] voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina» (dalla Prefazione all’edizione delle poesie di Antonia Pozzi intitolata Parole, Milano, Mondadori, 1948).
Ancora studente di liceo classico, si innamorò in modo drastico, sconvolgente tanto quanto irrimediabilmente doloroso, del suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi. La relazione fu sin da subito prepotentemente ostacolata dal padre di Antonia, l’avvocato Roberto Pozzi, che le rese faticosamente struggente il suo coinvolgimento amoroso con il professor Cervi, terminato dopo tre anni di continue rinunce, fino all’abnegazione estrema di lasciarlo allontanare via per sempre dalla sua vita, ma non dal suo cuore e dalla sua mente. Del resto, siamo negli anni Trenta del Novecento, in una famiglia altolocata della borghesia meneghina: padre avvocato, madre nobildonna nipote di Tommaso Grossi, amico dei noti scrittori milanesi Alessandro Manzoni e Carlo Porta. Antonia non potrà avere libertà di sentimenti, di sogni e desideri per il futuro, in quanto donna e dunque obbligata ad ossequiare rigorosamente il suo status di ragazza benestante, dedita agli studi e proiettata verso un destino già preconfezionato dalle convenzioni sociali e dalle volontà paterne. Quel padre colto e raffinato da un lato molto amato, dall’altro è stato causa di tanto dolore per la Pozzi, non solo per aver stroncato senza appello i sentimenti della ragazza verso Cervi – rifiutandogli anche la sua mano – ma anche per essere impunemente intervenuto a cancellare tracce di questi sentimenti nei versi della Pozzi, operando una criminale revisione delle sue poesie e del suo testamento finale e camuffando la verità della sua morte con la bugia della polmonite. Allo stesso tempo, proprio in virtù della sua appartenenza ad una famiglia benestante, ella aveva potuto sperimentare altre libertà e possibilità che non a tutte le ragazze della sua età erano concesse: studiare appassionatamente, leggere, viaggiare, vivere la sua immensa passione per la montagna. È quella gabbia dorata in cui la giovane poeta vivrà tutti i suoi ventisei anni, prigioniera di un mondo che non le avrebbe mai concesso di realizzare il suo desiderio di amore e maternità con colui del quale era inestricabilmente innamorata, come lei stessa scrive in una lettera indirizzata a Cervi datata 26 aprile 1930: Ora sono calma, sicura, buona. Sì, Antonello: forse è orgoglio troppo grande il dirlo, ma mi sembra di essere veramente buona, ora. Sono ciò che devo essere.
La lettura della poesia di Antonia può indiscutibilmente essere una straordinaria esperienza di viaggio, con la prorompente eloquenza silenziosa delle sue parole scritte, dei suoi versi sempiterni, respiro di un’anima fragile ma allo stesso tempo colma di una vita che implode dentro le viscere, senza possibilità di esprimersi pienamente al di fuori della sua intimità. Così descrive i luoghi montani del suo cuore in una lettera indirizzata all’amica Elvira Gandini, datata 8 agosto 1928, mostrando a soli sedici anni una tale intensità e nitidezza di scrittura che incanta chi legge: Sabato notte, con una luna che inondava tutta la valle, sono salita sulla Grigna, ed ero lassù prima dell’alba, sola sulla vetta, sotto il sorriso gelido delle ultime stelle. A poco a poco, rompendo con gli occhi intenti la nebbia, ho visto il nostro Cervino sorgere dalla notte e chiamare a sé i primi raggi del sole e indorarsene. Allora ho pensato che voglio camminare molto e imparare a non stancarmi e prepararmi con tutte le mie forze, per poter andare almeno fino alla Capanna e vedere di lassù un tramonto ed un’alba. E mentre ero lì, immobile, sull’erba madida di guazza, rosata dal primissimo sole, e non mi giungeva altro suono che quello delle campane, sospinto, verso l’alto, a ondate, pensavo alle nostre sere di Breil, alla voce del tuo strumento che parlava lentamente coi lumi dei pastori sulla montagna, con le stelle che si levavano dal nevaio e si coricavano tra le rocce.
Per gli e le amanti della montagna i versi della Pozzi sono balsamo che lenisce affanni e preoccupazioni:
Non monti, anime di monti sono / queste pallide guglie, irrigidite/ in volontà d’ascesa. E noi strisciamo / sull’ignota fermezza: a palmo a palmo, / con l’arcuata tensione delle dita, / con la piatta aderenza delle membra, / guadagnammo la roccia; con la fame / dei predatori, issiamo sulla pietra / il nostro corpo molle; ebbri d’immenso, / inalberiamo sopra l’irta vetta / la nostra fragilezza ardente. In basso, / la roccia dura piange. Dalle nere, / profonde crepe, cola un freddo pianto / di gocce chiare: e subito sparisce / sotto i massi franati. Ma, lì intorno, / un azzurro fiorire di miosotidi / tradisce l’umidore ed un remoto / lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo / rattenuto, incessante, della terra (Madonna di Campiglio, 13 agosto 1929).
Nei monti la poeta intravede un’anima che arrampica con la fame dei predatori e con la volontà di chi desidera ascendere al cielo, verso quell’immenso che rende l’uomo ebbro dell’eternità, di quegli interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi di leopardiana memoria, fino ad una simbiosi metamorfica con l’irta vetta alla quale aderisce pienamente la fragilezza ardente dell’esistenza prigioniera di un corpo molle. Le nere e profonde crepe ed il freddo pianto spariscono subito dinanzi all’azzurro fiorire di miosotidi, fino al disvelarsi del singhiozzo incessante che si ode in un lamento vivo della terra. Sono versi travolgenti, ancora oggi vibranti un’energia che lascia stupefatti di come tanta vita possa essere esistita in un corpo che si è procurato la morte a soli ventisei anni. Antonia, infatti, si suicida il 3 dicembre 1938 sul prato antistante l’abbazia di Chiaravalle, altro luogo da lei amato, dopo aver assunto una massiccia dose di barbiturici. Quasi profeticamente, esattamente quattro anni prima di morire, scriveva mentre era a Pasturo, luogo in cui volle farsi seppellire:
Questo non è esser morti, / questo è tornare / al paese, alla culla: / chiaro è il giorno / come il sorriso di una madre / che aspettava. / Campi brinati, alberi d’argento, crisantemi/ biondi: le bimbe/ vestite di bianco, / col velo color della brina,/ la voce colore dell’acqua / ancora viva/ fra terrose prode./ Le fiammelle dei ceri, naufragate / nello splendore del mattino, / dicono quel che sia / questo vanire / delle cose terrene/ – dolce – , / questo tornare degli umani, / per aerei ponti / di cielo, / per candide creste di monti / sognati, / all’altra riva, ai prati / del sole (Pasturo, 3 dicembre 1934).
La montagna è sempre presente nell’orizzonte poetico ed esistenziale di Antonia, come il luogo in cui non esser morti ma tornare alla culla, alle origini, ad una rinascita. È il luogo in cui la poeta vive epifanici rapimenti da cui sgorgano profetici versi sulla sua vita e vocazione alla poesia, alla quale ella si abbandona completamente, unica dimensione dell’esistenza umana in cui raggiunge la pienezza del suo essere al mondo e del suo intrinseco dolore:
Oh, tu bene mi pesi / l’anima, poesia: / tu sai se io manco e mi perdo, / tu che allora ti neghi / e taci. / Poesia, mi confesso con te / che sei la mia voce profonda: / tu lo sai, / tu lo sai che ho tradito, / ho camminato sul prato d’oro/ che fu mio cuore, / ho rotto l’erba, / rovinata la terra – / poesia – quella terra / dove tu mi dicesti il più dolce / di tutti i tuoi canti, / dove un mattino per la prima volta / vidi volar nel sereno l’allodola / e con gli occhi cercai di salire – / Poesia, poesia che rimani / il mio profondo rimorso, / oh aiutami tu a ritrovare / il mio alto paese abbandonato –/ Poesia che ti doni soltanto / a chi con occhi di pianto / si cerca – / oh rifammi tu degna di te, / poesia che mi guardi (Pasturo, 23 agosto 1934).
La poesia è un atto di catarsi, di discesa negli inferi della propria esistenza per rinascere purificati ad una vita restituita nella sua verità e crudezza. È degna di essa, infatti, solo chi si cerca con occhi di pianto. È la poesia che permette ad Antonia di mettersi a nudo, di lasciarsi perscrutare da ogni dettaglio del mondo naturale, di abbandonarsi ai sensi con i quali percepisce odori e colori intorno a sé, in un crescendo di sensazioni ed emozioni che la riportano ai ricordi di un’infanzia ormai perduta:
Odor di verde – / mia infanzia perduta – / quando m’inorgoglivo / dei miei ginocchi segnati – / strappavo inutilmente / i fiori, l’erba in riva ai sentieri, / poi li buttavo – / m’ingombran le mani / odor di boschi d’agosto – al meriggio – / quando si rompono col viso acceso / le ragnatele – / guardando i ruscelli il sasso schizza / il piede affonda / penetra il gelo fin dentro i polsi – / il sole, il sole / sul collo nudo – / la luce che imbiondisce i capelli – / odor di terra, / mia infanzia perduta (Pasturo, agosto 1934).
Antonia aveva un grande amico nelle passeggiate e scalate in montagna, la guida alpina Emilio Cenci, prezioso per lei nell’esplorazione dei sentieri e nelle arrampicate. L’amicizia con Cenci è consolidata dal comune senso di appartenenza al mistero della vita e dalla sensazione di eternità che le vette regalano a chi si avventura alla loro conquista, divenendo occasione di immersione nel silenzio, elemento che riappacifica la nostra anima turbata dai rumori della vita:
Nebbie. E il tonfo dei sassi / dentro i canali. Voci d’acqua / giù dai nevai nella notte. / Tu stendi una coperta per me / sul pagliericcio: / con le tue mani dure / me l’avvolgi alle spalle, lievemente, / che non mi prenda / il freddo. / Io penso / al grande mistero che vive / in te, oltre il tuo piano / gesto; al senso / di questa nostra fratellanza umana / senza parole, tra le immense rocce / dei monti. / E forse ci sono più stelle / e segreti e insondabili vie / tra noi, nel silenzio, / che in tutto il cielo disteso / al di là della nebbia (Breil 9 agosto 1934).
Ed è dolce, bello, un sollievo per l’anima stanca, camminare per i sentieri che conducono in alto, lontano dalla malinconia dell’esistenza:
È bello camminare lungo il torrente: / non si sentono i passi, non sembra / di andare via. / Dall’alto del sentiero si vede la valle / e cime lontane ai margini / della pianura, come pallidi scogli / in riva a una rada – Si pensa / com’è bella, com’è dolce la terra / quando s’attarda a sognare / il suo tramonto / con lunghe ombre azzurre di monti / a lato – Si cammina lungo il torrente: / c’è un gran canto che assorda / la malinconia – (Breil 9 agosto 1934).
La montagna è una presenza importante e possente nella poesia di Antonia, una presenza che rievoca alla penna della poeta l’immagine delle donne, immense nella generosità dei loro grembi e delle loro mani mentre accolgono e reggono l’intera umanità che ritorna alla vita vera, in un mondo-altro rispetto ad un laggiù da cui la madre-montagna attende il ritorno dei suoi figli con infinita speranza.
Le montagne
Occupano come immense donne / la sera: / sul petto raccolte le mani di pietra / fissan sbocchi di strade, tacendo / l’infinita speranza di un ritorno. / Mute in grembo maturano figli / all’assente. / (Lo chiamaron vele / laggiù – o battaglie. Indi azzurra e rossa / parve loro la terra). Ora a un franare / di passi sulle ghiaie / grandi trasalgon nelle spalle. Il cielo / batte in un sussulto le sue ciglia bianche. / Madri. E s’erigon nella fronte, scostano / dai vasti occhi i rami delle stelle: / se all’orlo estremo dell’attesa / nasca un’aurora / e al brullo ventre fiorisca rosai. (Pasturo, 9 settembre 1937)
Nel medesimo tempo queste madri mute generano figli all’assente, con un richiamo, a mio avviso, alla maternità mancata ma tanto desiderata dalla Pozzi con Antonio Maria Cervi, che rappresenta uno dei motivi ricorrenti della sua poesia e della sua angoscia esistenziale, frutto probabilmente della mentalità a lei contemporanea – e non del tutto estinta – che vede la realizzazione piena di una donna nella maternità, al punto tale – se non si realizza – da struggersi in un’infinita morsa di dolore che non le lascia tregua e la conduce alla più travolgente malinconia. Scriveva nel suo diario il 4 febbraio 1935, a soli ventitré anni: Il mio disordine. È in questo: che ogni cosa per me è una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi. Ma donarsi è un atto di vita che implica una realtà effettiva al di là di noi e invece ogni cosa che mi chiama ha realtà soltanto attraverso i miei occhi e, cercando di uscire da me, di risolvere in quella i miei limiti, me la trovo davanti diversa e ostile. […] Tortura è stata la mia maternità immaginaria, valida fino a che ci fu al mio fianco un essere che condivideva questo anelito di salvazione di una vita in un’altra vita, valida finché fu non illusione, ma speranza, e speranza di bene non soltanto per me; ma quando si riconobbe illusione e divenne soltanto dolore mio, si isterilì, si schematizzò. Feci del mio dolore un’astrazione, un’armatura su cui appoggiare, scaricare la responsabilità della mia vita. A ben vedere, questa prosastica confidenza alle pagine del suo diario è in embrione ciò che diventerà poi compiuta creatura poetica in Le montagne: il donarsi come atto di vita che implica una realtà effettiva al di là di noi, ovvero le montagne come immense donne che maturano figli all’assente tacendo l’infinita speranza di un ritorno, la sua realtà che invece è diversa e ostile come il franare di passi sulle ghiaie, la maternità immaginaria vissuta come tortura che diventa dolore e si isterilisce, ciò che poi nella poesia diventa brullo ventre.
Tutti i versi proposti in questa sede sono solo una minima parte della produzione poetica di Antonia Pozzi. L’umile e breve excursus qui seguito vuol essere un invito alla lettura di una poeta che merita di essere maggiormente presente nelle nostre vite, perché la poesia è vita come scriveva Pasolini: Alle volte è dentro di noi qualcosa / (che tu sai bene, perché è la poesia) / qualcosa di buio in cui si fa luminosa / la vita (da Poesia in forma di rosa, 1964). I percorsi di lettura che si possono intraprendere all’interno dell’opera di Antonia sono tanti: in questo tempo estivo mi è sembrato utile e bello offrire un assaggio di poesia dedicata alla montagna, in realtà protagonista nelle creazioni della Pozzi e sempre presente anche con pochi elementi che richiamano ad essa. La montagna era parte della vita di Antonia, che oltre ad essere poeta era anche fotografa. Sono molte infatti le fotografie che ci ha lasciato dei luoghi montani che visitava, ma anche di momenti quotidiani, oggetti di vita concreta, suoi attimi di convivialità e felicità.
L’amore per la poesia e per la montagna non hanno purtroppo salvato dalla morte il corpo di questa giovane sofferente e tanto tormentata, ma hanno certamente permesso alla sua anima di sentirsi parte di una natura, di una terra che dopo averla generata l’ha riaccolta nell’ultimo ed estremo atto:
In riva al lago azzurro della vita / son corpi le nuvole bianche / dei figli carnosi del sole: / già l’ombra è alle spalle, catena / di monti sommersi. / E a noi petali freschi di rosa / infioran la mensa e son boschi / interi e verdi di castani smossi / nel vento delle chiome: / odi giunger gli uccelli? / Essi non hanno paura / dei nostri volti e delle nostre vesti / perché come polpa di frutto / siamo nati dall’umida terra (Pasturo, 10 luglio 1938).
È stata un’esistenza ferita, quella di Antonia, per troppa vita che aveva nel sangue:
Per troppa vita che ho nel sangue / tremo / nel vasto inverno. / E all’improvviso, / come per una fonte che si scioglie / nella steppa, / una ferita che nel sonno / si riapre, / perdutamente nascono pensieri / nel deserto castello della notte […] (12 gennaio 1935).
Oggi, come aveva espresso nell’ultima volontà affidata ad una lettera indirizzata ai genitori, Antonia riposa a Pasturo sotto un masso della Grigna, fra i cespi di rododendro: «Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace».
In copertina: Grigna, settembre 1935
Articolo di Valeria Pilone
Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.
Bellissimo ricordo di Antonia. Grazie!
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