Un artista in movimento. Daniel Schinasi, fondatore del Neofuturismo

Anima cosmopolita, Daniel Schinasi ricorda per certi versi il “métèque” della canzone di Moustaki, come lui ebreo sefardita con radici ad Alessandria d’Egitto e con comune scelta in età matura di risiedere a Nizza, condividendo «di Provenza il mare e il suol». Città fertile di spiriti innovatori, Alessandria ha dato i natali a Marinetti, fondatore del Futurismo, e Ungaretti, fautore di un Ermetismo che è poesia della memoria tradotta in un linguaggio scarno ed essenziale discendente dalla cultura della grande e ricca biblioteca ellenistica, patrimonio inestimabile più volte distrutto nell’antichità. Di Alessandria era anche Ipazia, vissuta fra il 350/370 e il 415 d.C. Rappresentante della filosofia neoplatonica, fu uccisa da una folla di cristiani avversi al suo sapere ed è considerata una martire della libertà di pensiero.

Incontro per la prima volta Daniel Schinasi alla proiezione del cortometraggio L’esodo di un ebreo italiano d’Alessandria girato da Ulrike Hahn. Per citare una recensione: «Il film narra episodi della vita di Daniel Schinasi. Nato nel 1933 ad Alessandria d’Egitto, durante la guerra di Suez, nel 1956 è costretto a rientrare in Italia… Si ripercorrono l’esodo, l’arrivo a Livorno, i luoghi dove ha vissuto, il suo lavoro. La vita e la carriera sono marcate dalla creatività, dall’impegno sociale contro le atrocità, in favore della pace». M’incuriosisce tutto di lui e rimango colpita dal parallelo tra due opere monumentali in cerca di fissa dimora, entrambe espressione artistica di testimonianza civile: i grandi pannelli di Schinasi inizialmente esibiti nell’atrio della stazione di Nizza con il titolo Omaggio alla Costa Azzurra, Terra di Pace di Luce e Libertà, e l’imponente composizione di Enrico Baj sui funerali dell’anarchico Pinelli (12 metri per 4, voluto riecheggiamento de I funerali dell’anarchico Galli del Carrà futurista visibile al museo MOMA di New York). Un anno fa avevo sollecitato una degna collocazione per Baj inviando al Comune di Milano una petizione accompagnata da una raccolta di numerose firme che recitava: «… Quando un’opera diventa di fruizione collettiva dovrebbe essere esposta all’aperto… [Occorre] evitare che allestimenti temporanei, o anche permanenti, secondo il principio del «dove c’è spazio» la rendano puro oggetto decorativo…».

Al termine della proiezione del film di Ulrike Hahn, patrocinata dal Consolato d’Italia a Nizza, l’assessore metropolitano Robert Roux aveva promesso di onorare i pannelli di Schinasi inserendoli in uno spazio in grado di esaltarne il valore artistico e simbolico. E nel celebrare l’artista aveva sottolineato come non si distinguano varie fasi nella sua produzione. Ma mentre le immagini dei quadri scorrevano sullo schermo mi chiedevo: esisteranno diversi nuclei d’interesse? Questa domanda mi spinse a fissare un appuntamento con l’artista. E lì nacque l’incanto, il fascino di una storia sull’onda dei ricordi. Innumerevoli cataloghi e recensioni descrivono la sua carriera, ma nulla può competere con la magia che emana dal vederlo nel bell’appartamento tappezzato di suoi quadri. E sotto i soffitti altissimi di una casa in stile haussmannien di quadri se ne possono appendere davvero molti!

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La narrazione si dipana in modo non cronologico, e va bene così. Non si tratta di scrivere una biografia, ma di cogliere il personaggio. Devo solo badar bene ad ascoltare a orecchie aperte oltre che bearmi con gli occhi, perché la quadreria di casa Schinasi fa di tutto per distogliermi dal racconto. In vari spezzoni in ordine sparso sento rievocare gli anni 1965/66 trascorsi in Svizzera, il lavoro in un reparto di articoli sportivi, la piccola accademia serale di Silvio Bicchi. I tanti luoghi di una diaspora personale. Daniel indica il tavolino che lo segue nei continui spostamenti, i quadri, la valigia, il tappeto. Nel 1967/70 si alternano soggiorni a Parigi e a Cecina, dove Daniel disegna la porta di casa, quasi una scultura. La vedo in foto, bellissima. È il tempo della riflessione sull’esistenza dell’uomo, i suoi desideri, la società, le guerre, la violenza, la pace. C’è l’intento di elevare la fatica e la figura del contadino. Pendolare sulla linea ferroviaria Antignano-Pontedera, Daniel lavora per due anni alla Piaggio visitando officine e scoprendo la vita agra degli operai. Aveva sperato di trovare la stessa bella atmosfera degli otto anni trascorsi alla Citroën di Alessandria d’Egitto, ma alla Piaggio il titolare era uno che nemmeno salutava. Eppure il colloquio pre-assunzione era andato bene, anche se poi la chiamata tardava ad arrivare, tanto che per sbarcare il lunario bisognava ingegnarsi con un incarico di supplente alle Case Pie, che comunque gli offrivano una stanza per dipingere tutta sua.

Ad Alessandria era cresciuto sereno e spensierato. Giocava a pallone e negli anni ’40 seguiva il calcio alla radio perché la televisione doveva ancora arrivare. «Allora c’era un cronista bravissimo, Nicolò Carosio, che commentava le partite della domenica. Riusciva attraverso la parola a trasmettermi l’immagine. Lo sport mi ha dato la possibilità soprattutto di fare una ricerca del movimento. C’è l’atleta che con il corpo crea un dinamismo armonico e ritmato, come il cavallo al trotto. Poi c’è la boxe, che ha aspetti forti e non meno dinamici pur mostrando la crudeltà del combattimento, del picchiare, la parte ingrata dello spettacolo. L’aspetto più comico dello sport secondo me si ha nel wrestling, in cui la lotta è finta e, siccome lo sai, non ci stai male. Anche il ciclismo è un bello sport. Vedere un ciclista che fa una scalata in montagna o vola in velocità ai Campionati del mondo, beh, a me piace molto. La scherma oltre che bella è molto elegante…».

Ad Alessandria parlava inglese, francese, arabo, e naturalmente italiano. Dopo aver conseguito il diploma di ragioneria nell’Istituto Don Bosco dei salesiani, a 20 anni aveva già un impiego alla Citroën. Capitava spesso dal carrozziere che riparava le auto e rimase affascinato dal grande quadro con donne nude e cavalli esposto nel negozio di antiquario che stava di fronte all’officina. Un collega gli propose di fare dei quadretti copiando i paesaggi delle cartoline, a cominciare da una marina di Chioggia con barche a vela. Ma invece di copiare la cartolina, ne uscì un pescatore. Non c’è verso: il pittore non sa imitare, anche a volere la sua mano inventa. Il giorno seguente Daniel acquista pennelli, olio di lino, tela. Dipinge un giardino, lo mette sul comò. Al ritorno lo trova tutto nero. Manca la tecnica, bisogna imparare, formarsi sui libri. Ecco allora la scoperta dell’Impressionismo (luce) e del Rinascimento (disegno). Scatta l’innamoramento per Pissarro, Monet, Manet, i cui soggetti sono la campagna, un carro trainato da un cavallo, cose che non si vedevano ad Alessandria. Ed emerge la voglia di vivere dove ci sono queste cose. Nel frattempo la crisi di Suez ha scardinato il mondo degli italiani in Egitto. Il 14 dicembre 1956, per editto di Nasser, Daniel insieme all’intera famiglia deve partire sulla nave Esperia, portando con sé una valigia piena di disegni, di libri tascabili Mondadori e Garzanti stampigliati dalla Censura, e la somma di 24 dollari; sono gli unici beni concessi dalle autorità a chi espatria. Il 18 dicembre sbarca a Venezia e a mezzanotte arriva alla stazione di Livorno con un gruppo di profughi. Nel 1957 abita per qualche mese all’Albergo Svizzera di Ardenza. Si trasferisce poi ad Antignano in due stanze di Villa Frattini, ex sede estiva di gerarchi fascisti, che ospitarono anche alcuni pittori legati al Futurismo. Nel 1958 vince il Secondo Premio della Città di Lerici. Rifiutato al Premio Rotonda di Ardenza, espone nelle Sale della Comunità Ebraica di Livorno e dona il ricavato della vendita ai bisognosi di Israele.

Nel documentario di Ulrike Hahn una voce fuori campo chiede perché non sia mai tornato ad Alessandria, ma non si sente la risposta. La ottengo ora e la spiegazione è che l’Egitto non era più un Paese libero, come non lo è tutt’oggi. In città restano poche decine di ebrei, ricchi ma non autorizzati a esportare denaro. Così lo devolvono pagando viaggi di vacanza a israeliani. C’è il caso dello zio che ha lasciato in testamento i suoi averi alla ragazza musulmana che lo aveva curato, malgrado esistessero altri eredi all’estero. E non è nemmeno stato facile: ha dovuto convertirsi all’islam e poi sposarla per poterla rendere sua erede legittima.

Torniamo al 1962: lo sviluppo industriale va a gonfie vele, è il boom economico. Nello studio di Antignano prende forma il sogno di un mondo pulito, dell’uomo non schiavo. Si alternano tecniche a spatola con colori amalgamati, a pennellata, a tasselli, a mosaico, in una geometria rigorosa. Sono sogni utopistici. La geometria comincia a diluirsi e a sparire, finché rimane la nebbia entro cui s’intravvede una figura, fino a una ricostruzione nuova, all’introduzione del cerchio per dare dinamismo. Ecco delinearsi il Neofuturismo che fa emergere l’uomo dal mondo tecnologico. Già il futurista Boccioni, influenzato dal cubismo, aveva voluto riportare la figura umana al centro. E così Balla. Era servita la lezione di Paolo Uccello, in qualche modo futurista ante litteram, ma anche le anime gemelle di Metzinger, Feininger, Franz Marc, Jacques Villon, tutti attenti all’essere umano, all’esistenza.

Sono pochi i pittori del Novecento interessati alla Storia, che invece per Daniel è un fulcro appassionante, scevro di contaminazioni di tendenza, fucina di sperimentazioni cinetiche, astratte e concettuali, purché ci sia “qualcosa”, come in Klee, Kandinsky, Mondrian. «…L’importante è che oggi l’artista sia serio, abbia il rispetto di sé stesso e del proprio lavoro non facendosi affascinare dall’effimera bellezza delle mode e dal quadro veloce da vendere…». Continuano le evocazioni: «… Mi sono trovato con una visione del mondo geometrico già prima di conoscere i Futuristi, e questo mondo, fino al 1962, probabilmente si riallacciava alla rigorosa arte egizia, ma in pittura c’erano forme geometriche che rappresentavano e descrivevano anche temi, come quello dello spaccapietre o del pescatore, con un tratto semplice e pulito… Sono arrivato all’eliminazione quasi totale della geometria, ma è stato un periodo molto breve con poche opere. Da qui però bisognava ricostruire. La verità si palesa nel momento in cui arrivi quasi al nulla, poi riprendi un discorso nuovo e ritorni alla geometria, ma non come prima, stavolta più dinamica, più movimentata. E come nasce l’opera? Nasce con un movimento di luce, di linee e di composizione…».

Nel 1969 Daniel Schinasi redige il Manifesto del Neofuturismo, un’avanguardia che si presenta come un ripensamento futuristico dell’estetica e della funzionalità delle città in rapida crescita a causa dell’industrializzazione pervasiva del secondo dopoguerra. Si sono sviluppati nuovi flussi di pensiero nella vita, nell’arte e nell’architettura. In Italia tra gli anni Sessanta e Novanta del Novecento si stampa la rivista “Futurismo Oggi” a cura di Enzo Benedetto, uno degli ultimi futuristi storici. Si segnalano lo storico dell’arte Luigi Tallarico e, a partire dall’anno 2000, i cosiddetti neofuturisti Antonio Saccoccio, Vitaldo Conte, Roberto Guerra e il futurologo Riccardo Campa, coautore insieme ad altri di Marinetti 70. Sintesi della critica futurista (Armando editore, 2014). In architettura ricorrono i nomi di Zaha Hadid, Calatrava, Renzo Piano, studio SOM. Altri conoscenti ed estimatori? I tre maggiori collezionisti e sostenitori, Pietro Alberto, Giuliano Fanfani e Nicola Loprieno. Oscar Ghez, amico e collezionista svizzero. Sonia Delaunay (non occorrono spiegazioni). Marinetti e la figlia, che lavorava alla Rizzoli in Galleria a Milano. Guido Lopez di Milano, storico e scrittore, fonte preziosa per le competenze sul mondo ebraico. Gabriele Mandel, critico d’arte. Enrico Crispolti, specialista della critica sul Futurismo. Jacques Lepage teorico dell’École de Nice e del Mouvement Supports/Surfaces, i seguaci del Nouveau Réalisme, André Verdet, poeta, sostenitore del Neofuturismo con un testo scritto per la mostra antologica al Château Musée di Cagnes nel 2000, Vincenzo Marotta che ha appoggiato e scritto molto sul Neofuturismo per più di 40 anni. A Zurigo il gallerista Max Bollag diventa uno dei mecenati più affezionati. Joseph Joffo (autore del romanzo Un sacchetto di biglie) andava spesso a trovarlo nello studio di Parigi. Altri incontri con Carrà, De Chirico, Hoffmann della Bauhaus, Fausta Cialente…

Che cosa non ti convince del Futurismo? «…Una cosa grave del Futurismo è la mancata presenza della donna. Infine gravissimo è stato quando Marinetti voleva distruggere i musei e tutto ciò che era vecchio […] buttando anche i manifesti dalla Torre Eiffel…».

Daniel Schinasi, artista ma anche docente, nei suoi venti anni di insegnamento alla Libera Accademia da lui stesso istituita a Rosignano Solvay non si è mai permesso di ritoccare i disegni degli allievi, in base al diktat che correggere significa fornire un esempio diverso creato sul momento, perché si impara disegnando, scomponendo, ricomponendo. Ha tratto profitto da tutto ciò che gli accadeva e, abbandonando il miraggio della Terra Promessa cantata da Ungaretti, ha viaggiato e raccolto spunti. Così nell’atrio della Stazione Centrale di Pisa fa bella mostra il murale La Battaglia di Mallorca, combattuta dai pisani per fermare i turchi, ma emblematica della lotta di Pisa contro Firenze, due poli del suo percorso in treno. Lo fronteggia un altro suo famoso dipinto, l’Omaggio a Galileo Galilei, alle arti, alla tecnica e al lavoro nei campi. Cos’era successo? Vedere quelle pareti bianche e non poterne far qualcosa gli rodeva dentro, così contattò il capo stazione. Il progetto arrivò alla Cassa di Risparmio e da lì giunse la sponsorizzazione dei due murales costruiti su una rete metallica che consente di spostarli. Successivamente la Banca Toscana commissionò un lavoro per l’aula magna di ingegneria. E così via: ricostruire l’immensa produzione di Daniel Schinasi occuperebbe pagine e pagine. Sempre si ritrova il messaggio della luce che vince sulle tenebre, perpetuando idealmente il tema fin-de-siècle del Ballo Excelsior (Teatro alla Scala, 11 gennaio 1881), che celebrava il trionfo della scienza e del progresso contro l’oscurantismo esaltando le grandi opere e invenzioni.

Vincenzo Marotta propone un raffronto tra Marc Chagall e Daniel Schinasi: «Non cercheremo di accostare esperienze d’Arte e di vita assai distanti, sappiamo infatti che diverso è il modo di fare pittura, di sentire lo spazio e il colore fra i due artisti, di rapportarsi al passato, di vivere la propria dimensione di vita. Il ragazzo ebreo russo Marc Chagall, lasciato il villaggio della sua infanzia, prima per Pietroburgo e poi per l’Europa, portando chiusa nell’anima la pena dell’esodo come un esilio, possiede attraverso il sogno e la memoria la forza fantastica di richiamare a sé, come attraverso un caleidoscopio, tutto il mondo caduto dietro le spalle e nelle pieghe del tempo, ma ben vivo ancora dentro il suo cuore […] Per Schinasi essere ebreo non è solo ritrovare la memoria dell’infanzia, la pena dell’esodo dalla sua Alessandria e dell’esilio per l’Europa. Essere ebreo per lui è riaffermazione consapevole della propria serietà religiosa, della propria appartenenza storica ad un popolo che lotta per la propria libertà e il proprio avvenire; per lui significa essere uomo accanto agli altri uomini, portatore di civiltà universale.

La pittura di Schinasi non si abbandona mai all’inconscio o ai sogni, non procede per simboli o allusioni. La sua forza fantastica e sentimentale obbedisce sempre ad una chiara razionalità di espressione, ad una rappresentazione dinamica e realistica della vita… Ferma restando la differenza tra i due nel modo di sentire e di fare pittura, di strutturare lo spazio e liberare il colore, non c’è dubbio che tra questi artisti esiste una profonda relazione di pensiero e di affetti, che hanno la loro spiegazione nella comune radice umana, nella loro severa educazione religiosa, nella spirituale e profonda inquietudine, che li spinge alla ricerca di un esito liberatorio. Chagall è felice quando può giungere a questo esito attraverso il sogno e la memoria. Schinasi si caratterizza per una più risoluta, consapevole affermazione di sé nel presente per la forte carica del suo dinamismo, che traduce in impetuosa forza morale…».

A distanza di qualche giorno Daniel mi invita a visitare il suo atelier, ad un primo piano affacciato su strada. Subito si avvicina alla finestra una conoscente, che intavola un veloce scambio di chiacchiere. Già in occasione della proiezione del film avevo capito che la regista Ulrike Hahn era passata davanti a quella finestra e fra un discorso e l’altro era sbocciata l’idea di girare L’esodo di un ebreo italiano d’Alessandria. Daniel Schinasi è così, cordiale, immediato, comunicativo, grand raconteur. Mi guardo attorno e vedo legni affastellati, debordanti da un cassone. Il fatto è che non smette di acquistare cornici, ma quando sente l’urgenza di dipingere non bada se il supporto, sia esso tela o tavola, abbia le dimensioni adatte per le cornici a disposizione e scopre quasi sempre di non avere nulla di pronto. Allora armeggia con chiodi e martello per comporre quel che gli serve usando legni di fortuna e listelli. Mentre parla osservo le mani, non giovani, ma sapienti, dispensatrici di armonie e conoscenze. Mi è stato detto che sono anche mani pranoterapeutiche, che guariscono. E che plasmano, come dimostrano alcune sculture non finite, per lo più di ballerine. Sono opere in creta, cave, altrimenti scoppierebbero durante la cottura. Per quest’ultima passione manca l’esperienza, ma le dita vanno, è una specie di febbre che non molla. In realtà non è un interesse recente. Tutto cominciò a Livorno nel 1962 con il professore Giulio Guiggi, grande scultore. Nell’82 in Grecia, a Syfnos, c’era una spiaggia di terra rossa dove arrivava un asino con sacchi da caricare. Qui Daniel ricevette in dono materiale sufficiente per modellare tre creazioni. Un incipit in continua evoluzione, ma su linee diverse dalla scultura contemporanea, che non convince per la deformazione eccessiva della figura umana, scarnificata, quasi annullata. Almeno una idea dell’uomo deve esistere, con forme che lo rispettino. Questo è il messaggio fondamentale: il rispetto dell’uomo.

 

Articolo di Nadia Boaretto

0_9e7goFLaureata in lingue e letterature straniere all’Università Bocconi. Ex insegnante di inglese, traduttrice, attiva partecipante a testi del teatro di figura. Femminista, socia fondatrice della Casa delle Donne di Milano.

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