Compagne di combattimento

Erano in cinque e, nel giro di due anni, sarebbero diventate 70.000. Chi fu testimone e protagonista di questa storia, Lina Fibbi, raccontò molti anni dopo che non si ricordava se fosse il 13 o il 15 novembre 1943 e se nell’appartamento in cui si erano date appuntamento ci fosse una stufa rossa. Di sicuro c’è che quel giorno un gruppo di donne fecero diventare la Resistenza non una questione privata, come avrebbe scritto anni dopo Beppe Fenoglio, ma una questione femminile.
Si chiamavano Giovanna Boccalini Barcellona, Rina Picolato, Lina Fibbi, Lina Merlin e Ada Marchesini Gobetti. Erano comuniste, socialiste e azioniste, ma intorno a loro si sarebbero ben presto raccolte anche democristiane, esponenti del movimento comunista cattolico, liberali e tante, tante donne che si dichiaravano indipendenti e diedero un contributo fondamentale ai Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà (Gdd) che nacquero a Milano in quell’appartamento.
L’esperienza milanese fu solo l’inizio di un’avventura che interessò tutta la Penisola, sia quella occupata dai tedeschi, dove i Gdd si erano dati come obiettivo quello di assistere e sostenere la guerra partigiana; sia quella liberata, ma alle prese con la distruzione e le precarie condizioni postbelliche. In un Paese diviso, disorientato e senza una guida, con un re fuggito dalla capitale insieme a Badoglio e il governo fantoccio della Repubblica Sociale Italiana al Nord, sorse un movimento, all’inizio confuso e disordinato, ma spontaneo, che, come avrebbe scritto poi Luigi Meneghello, fu un’onda in grado di avvolgere e travolgere tutti/e quelli/e che, dopo l’annebbiamento del ventennio fascista, drammaticamente si disincantarono e sentirono l’esigenza di riscattarsi dando il proprio contributo alla lotta di Liberazione.
In quel disperato risveglio, a seguito di eventi traumatici come la morte di un figlio, di un fratello, del marito; come gli arresti e la deportazione di centinaia di renitenti alla leva o di ebrei o ancora a seguito di una specifica richiesta d’aiuto anche da parte di uno sconosciuto, si attivò quel codice di emergenza tutto femminile che, nei momenti più drammatici e disperati, consente alle donne di trovare la forza di ripartire, rendendole capaci di dare il meglio di sé in situazioni di grande privazione. Questo furono i Gdd: una rete organizzata e altamente specializzata di donne che da una parte assistevano i partigiani fornendo loro indumenti e viveri, informazioni e documenti, ma anche compagne capaci di combattere una guerra dura come quella partigiana; dall’altra tentavano di mantenere vivi quei valori che, durante i conflitti, tendono a dissolversi, determinando una progressiva disumanizzazione dell’esistenza. Le donne dei Gdd portavano fiori alle tombe dei partigiani trucidati; organizzavano raccolte straordinarie di indumenti per realizzare pacchi da recapitare ai volontari per la libertà durante le ricorrenze, come il Natale; si prodigavano per distribuire ai bambini giochi e dolci e rendere loro meno dure le privazioni belliche; sostenevano materialmente e moralmente le famiglie logorate dall’assenza e dall’insostenibile incertezza del ritorno dei propri cari coinvolti nel conflitto. A tutto questo si aggiungevano le lotte e le proteste, che spesso sfociarono in manifestazioni e scioperi contro il governo nazifascista, per l’aumento delle razioni alimentari, per una maggiore quantità di combustibile necessario al riscaldamento domestico, ma anche per un salario adeguato al lavoro che molte donne svolgevano al posto degli uomini. 
A sostenere l’azione dei Gdd, c’era però la convinzione, profondamente radicata in particolar modo nel gruppo milanese, che le donne in quel momento, ma soprattutto dopo la Liberazione, avrebbero potuto e dovuto fare la differenza diventando protagoniste della rinascita democratica dell’Italia. Dopo un ventennio in cui erano state ridotte al ruolo di “incubatrici viventi”, a non avere voce, ma a rimanere relegate nella sfera privata, come raccontato da Ettore Scola nel film Una giornata particolare attraverso il personaggio di Antonietta interpretato da Sofia Loren, le donne italiane si allenavano a riprendersi il posto che spettava loro e lo fecero istantaneamente. Subito dopo la fondazione dei Gdd, infatti, il comitato direttivo centrale dei Gruppi inoltrò una richiesta ufficiale di riconoscimento dell’organizzazione femminile al Clnai chiedendo inoltre una rappresentanza al suo interno. Non ricevette risposta se non nell’estate del 1944 quando alla fine gli esponenti politici del Comitato Centrale di Liberazione, presi si potrebbe dire per sfinimento da un gruppo di donne ostinate e caparbie, acconsentirono alle loro richieste. Oltre all’ostinazione e alla determinazione, le gaddiste milanesi mostrarono una certa attitudine per il giornalismo: dobbiamo proprio a loro la nascita di “Noi Donne”, l’organo di stampa dei Gdd milanesi, diretto principalmente da Boccalini Barcellona. La scelta del nome fu influenzata da un altro giornale, che si chiamava nello stesso modo, ed era stato pubblicato a Parigi, a partire dal 1937, dalle fuoriuscite antifasciste italiane guidate da Teresa Noce. Come non vedere però una continuità con “La Donna”, rivista fondata contemporaneamente alla nascita della Lega per gli interessi femminili di Anna Maria Mozzoni nel 1880? In entrambe le testate infatti si metteva in luce come la situazione di minorità, in cui era costretta la donna, fosse strutturale e condivisa da tutte a prescindere dalla condizione sociale, personale e politica; ecco perché tutti e due i giornali facevano leva sulla necessità per le donne di unirsi in un’organizzazione aperta e pluralista che le rappresentasse in quanto tali, rivendicando un’emancipazione a 360 gradi. “Noi Donne” sarebbe diventato poi l’organo di stampa dell’Udi (Unione Donne Italiane) che, nel secondo dopoguerra, sarebbe diventata la fucina del movimento emancipazionista femminile italiano. Le prime edizioni milanesi del giornale, oltre a fornire importanti indicazioni su quale fosse l’organizzazione territoriale dei Gdd, invitavano le donne non solo a dare il proprio contributo alla guerra di liberazione nazionale, ma a riflettere e a prendere coscienza della propria condizione: solo studiando, informandosi e confrontando le proprie posizioni mediante il dibattito ci si poteva preparare ad essere la futura classe dirigente di un Paese che tutte volevano fosse democratico e paritario nell’accesso alle professioni e alle cariche politiche; nella retribuzione salariale, ma anche e soprattutto all’interno della famiglia perché era proprio quello il luogo in cui la parità era conditio sine qua non dell’emancipazione sociale e politica.
La storia del movimento femminista italiano insegna però quanto ancora fosse lunga la marcia delle donne verso il riconoscimento dei propri diritti, ma non si può negare che, in quel novembre del 1943, un gruppo di sognatrici scrivendo con una macchina da scrivere con l’inchiostro blu: «Noi compagne di combattimento» diventarono sorelle, quelle sorelle di cuore che ancora oggi risvegliano nelle altre l’entusiasmo annebbiato; che ricordano quanto ognuna di noi sia chiamata, per quello che può, a prendere parte a quella marcia e soprattutto che l’identità femminile, pur essendo qualcosa di unico, a volte sfuggente, difficile da definire, si costruisca meglio insieme attraverso un noi che non si dimentica dell’io e un io che non può fare a meno del noi, come avrebbe detto Marisa Rodano alla fine della sua lunga militanza all’interno dell’Udi.

Foto1. GDD

 

Articolo di Alice Vergnaghi

Lh5VNEop (1)Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.

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