Carissime lettrici e carissimi lettori,
un pensiero va a Venezia, ma anche a Matera. E un pensiero profondo non manca per Taranto, per altri versi, ma con tutta la sofferenza che le si deve, per questa bella città del sud del nostro Paese.
La mente, a vedere Venezia con l’acqua che sale e penetra in tutto, corre a Firenze, a quella che rimase travolta dal suo fiume, sempre a novembre, poco più di mezzo secolo fa. Anche allora Venezia andò sotto l’acqua, ma il disastro toccato alla città di Dante era così spropositato per violenza della corrente che passò in secondo piano. L’acqua dell’Arno travolse la città e con lei migliaia di opere d’arte, di libri, di tesori culturali. Un lutto che fece sì che giovani (e non solo) donne e uomini da tutto il mondo accorressero, era il 4 novembre del 1966, nel capoluogo toscano per lavorare come in preghiera al suo capezzale, amarla, cercare di ridare vita a quel Rinascimento che l’ha resa grande e la fa grande nel mondo. Venezia, in questo novembre 2019, forse non ha subìto quanto toccò alla sua consorella d’arte, alla Firenze di allora, ma è pur vero, e lo hanno detto in tanti, che la conta dei danni subìti in questi giorni dalla Serenissima si devono ancora fare, si deve ancora aspettare per sapere quanto è toccato in perdita concreta a questo gioiello di cultura e di arte, a questa Porta non solo d’Oriente al quale si volge geograficamente, ma con lo sguardo addosso del mondo intero. L’Arno allora fu impietoso e irruente, ma l’acqua del mare è salata e quando si asciuga lascia la sua essenza, il sale, sui muri, come lo ha fatto su quelli di San Marco e della sua cripta. Il sale corrode subdolamente, senza darlo a vedere nell’immediato. Era da quel 1966 che non vedevamo la città lagunare così in ginocchio. Oggi la situazione è peggiore perché questa volta ci sono anche due vittime, nell’isola di Pellestrina. Colpita San Marco e colpita la Fenice e Ca’Pesaro (anche da un incendio) simboli, seppure non unici, della città: “Siamo stati a un soffio dall’apocalisse ha detto il procuratore della Basilica Pierpaolo Campostrini, l’acqua è entrata nella Basilica, ha allagato il pavimento, e rompendo le finestre è entrata nella cripta. La cosa potrebbe essere pericolosa perché l’acqua potrebbe aver dato problemi statici alle colonne che reggono la Basilica”.
Un quadro davvero drammatico della situazione, soprattutto se si tiene conto di un dato impressionante che dice che il quaranta per cento dei casi di superamento del livello giudicato come eccezionale dell’alta marea nella laguna si è verificato negli ultimi decenni. Questo vuol dire che il cambiamento del clima sta manifestando le sue ripercussioni e ci sta dicendo che se non mutiamo atteggiamento e proteggiamo questo nostro pianeta la pagheremo a caro prezzo. E il rischio è perdere anche la bellezza creata dall’uomo, come Venezia, appunto.
Ma a Venezia c’è l’àncora mai gettata davvero in mare del Mose. Una di queste mattine, tra l’alluvione e oggi, il New York Time ha scritto: ”Venezia al collasso tra cambio climatico e corruzione”, un concetto che è rimbalzato su tutti i giornali del mondo, dall’America all’Asia. Perché Venezia, assalita dai turisti, è e rimane oltre che una città italiana anche un patrimonio di tutto il pianeta e ciò ci carica, carica le istituzioni, di una grande responsabilità.
Il Mose, la grande macchina che doveva salvare Venezia si è ormai trasformata nell’eterna storia italo/veneziana che sembra sempre in procinto di risolversi, ma si blocca e non trova ancora una soluzione. Nato sull’onda della speranza di salvare la Serenissima proteggendola dall’acqua, ora sta diventando un progetto troppo vecchio, inadeguato alle trasformazioni attuali del mare. Dal 2003, da quando sono iniziati i lavori di costruzione, l’opera si è fermata più volte, tra discussioni politiche e, gravissimo, episodi giudiziari. Oggi vediamo e subiamo tutte le conseguenze. Venezia ce lo grida da anni.
L’acqua ha invaso anche Matera, proprio quest’anno che sta volgendo alla fine e l’ha vista Capitale della cultura. Anche Matera ha sofferto sotto un fiume d’acqua che si è riversato nei suoi vicoli non risparmiando il famoso rione dei Sassi teatro, tra l’altro, di tanti straordinari film. Ha meritato, per i danni subiti, la telefonata al suo sindaco da parte del Presidente della Repubblica, perché le istituzioni hanno il dovere di essere presenti. Matera, il mare della Basilicata (Policoro in particolare), le sue strade e le sue strutture hanno subito danni ingenti. Insieme a Venezia ci devono far pensare che dobbiamo necessariamente fare qualcosa per loro cominciando dalla cura verso l’intero pianeta come ci suggerisce quella ragazzina “arrabbiata” con tutta la gente che abusa e non provvede alla salvezza dell’ambiente, ma inspiegabilmente contro di lei si è scagliato tanto, troppo odio, così consistente da far mimare un’impiccagione di una sua sagoma sotto un ponte di Roma. Cui prodest? O è semplicemente il fastidio provato da menti malate?
Un’altra città italiana sta soffrendo, e non a causa delle cattive condizioni metereologiche di questi giorni. Taranto con la sua acciaieria, l’Ilva, sta subendo da troppo tempo le conseguenze di una cattiva amministrazione di una fabbrica e di una non chiara risposta da parte dei Governi. I suoi abitanti sono impauriti. Da una parte sono terrorizzati da un’eventuale chiusura della fabbrica, perché vorrebbe dire perdita del lavoro e del sostentamento per migliaia di persone e di famiglie. Ma dall’altra l’Ilva, con il cattivo controllo dei gas di scarico dei suoi forni, ha pesantemente minato la salute di troppi tarantini seminando tanto dolore e morte. Per questo il cuore della cittadinanza di Taranto è come spezzato in due e urge, oggi che è sopraggiunta una nuova crisi, che si trovi una soluzione il prima possibile, per la fabbrica, per i suoi dipendenti, per i cittadini tutti e per l’Italia.
Nella mente ricordiamo due anniversari, uno più intimo, più personale: i dieci anni dalla morte di un ragazzo, Stefano Cucchi. L’anniversario arriva nel momento della sentenza della Cassazione che ha dato la condanna a 12 anni per chi si è macchiato, soprattutto in veste dello Stato (che è posto lì a proteggere i suoi cittadini!) di questo orribile delitto. L’altro è la ricorrenza dell’attentato al Bataclan di Parigi (il 13 novembre del 2015, 90 morti) che è figlio di una violenza assurda, fondata e ipocritamente nascosta dietro l’esaltazione fanatica di un dio che, se esistente, nulla può aver direttamente chiesto agli uomini e alle donne accecati dall’odio per convincerli a mietere vittime in suo nome. Anche da non credenti non possiamo ammettere che un essere creatore abbia delegato il suo creato a uccidere il proprio simile.
Gli importanti avvenimenti di questa settimana ci hanno portato a trascurare in parte i contenuti di questo numero che pure appaiono interessanti per gli eventi che ricordano e per le persone di cui si parla. Celebriamo la nascita della Grande Caterina di tutte le Russie, seconda a portare questo appellativo dopo il suo predecessore Pietro detto appunto Il Grande e rimasto nella Storia per aver aperto quella finestra sull’Europa che sarà Pietroburgo, a lui intitolata, capitale di cultura e di bellezza, molto vicina a Venezia per i suoi canali e i suoi ponti. Si parlerà di sostenibilità che, come scrive l’autrice dell’articolo, è un modo di vedere la vita, una filosofia. L’amore per l’economia, che articolo dopo articolo abbiamo scoperto di avere leggendo in proposito su questa rivista, ci racconta di Almerina Ipsevich alla quale si deve la definizione e il sistema della cosiddetta congiuntura.
Ha spento cento candeline l’attivissima Lia Origoni, artista sarda la cui voce eccezionale è andata ben oltre i confini della sua isola, La Maddalena, dove è nata il 20 novembre di un secolo fa. La storia di Käthe Schmidt riempie la terza puntata delle donne artiste, legate in qualche modo alla prima guerra mondiale. Da ferma interventista, a sue dolorose spese, dopo la morte del figlio Peter, prenderà atto e capirà tutto il male di un conflitto bellico e darà all’arte opere dove il dolore di una madre viene palesato e celebrato in un dolore universale.
Una passeggiata tra le vie del territorio di Fiumicino, non solo ospitante l’aeroporto, che ci fa incontrare altre donne alle quali sono intitolate le strade, ma ci mette di fronte alla realtà di una minoranza schiacciante e, purtroppo, non unica.
Il mito delle sirene, di cui ricordiamo dai tempi di scuola i passi riguardanti Ulisse, legato al palo per non esserne ammaliato dal canto, incantano anche noi con la storia della loro presenza nella letteratura e nell’arte.
Finiamo in un buco nero, ma non per parlare di Fisica, ma di ragazzi e ragazze, della loro educazione, di quello che può e deve fare la scuola “perché l’educazione – scrive l’autrice nel bell’articolo che ne parla con passione e convinzione – è un lavoro che chiede costanza e orizzonti chiari non è un servizio che si eroga o un prodotto che si vende: è ciò che dà senso alle relazioni, che dà cittadinanza alla cultura di un popolo”. Sì abbiamo proprio bisogno di insegnanti, di educatori così. Allora salveremo il mondo e sapremo salvare, perché no, anche Venezia!
Editoriale di Giusi Sammartino
Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
Il più commovente dei tuoi articoli …ci sentiamo sperduti circondati da tante catastrofiche notizie …ma spiragli di luce si affacciano tra tanto buio e vale la pena evidenziarli sempre …brava Giusi
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Grazie Enza. Le tue parole sono commoventi per me. Grazie della tua costante attenzione. Leggo con tanto piacere ciò che mi scrivi. Scusami solo del ritardo (dipende molto dal mio “imbiancamento” informatico (ma ho imparato….ihihih) Tanti auguri di feste serene. A presto
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