In direzione ostinata e contraria. Il mondo femminile di Fabrizio De André e l’amicizia con Fernanda Pivano

Da tempo avrei voluto scrivere un contributo alla memoria di uno dei miei tanto cari poeti, il laico più credente di tutti i bigotti credenti che esistano, il cantore degli ultimi e delle ultime, l’anticonformista dalla voce colta e arguta, lo sferzatore di coscienze scomode in Italia negli anni tra i Sessanta e i Novanta. Un nome e cognome che da anni sostengo andrebbe studiato tra i banchi di scuola – molti/e magari già ne hanno l’ardire: Fabrizio De André, che ci lasciava l’11 gennaio 1999. Ma cosa aggiungere di nuovo in un articolo che non si pone l’ambizione di essere esaustivo (e come si potrebbe con un’opera intellettuale di tale levatura?), ma solo il desiderio di omaggiare con affetto un uomo che accompagna la mia vita sin dall’adolescenza? Faber, appellativo che gli aveva dato l’amico Paolo Villaggio, data la sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell, oltre che per l’assonanza con il suo nome, è uno scrigno inesauribile di spunti e ricerche, a diversi livelli: letteratura, storia della canzone italiana, umorismo, storia del costume, storia del Novecento, e tanto altro. Insomma, non basta certo un solo articolo per rinnovarne e celebrarne la memoria, ma è maggiormente opportuno, a mio parere, soffermarsi di volta in volta sui vari aspetti che compongono la poliedrica vita e opera di questo grande artista della nostra cultura.
In una rivista come “Vitamine Vaganti”, Fabrizio De André occupa un posto più che adeguato, sia perché elargisce davvero, in ogni tempo, vitamine per riflettere e immunizzare il nostro apparato mentale da fattori nocivi, sia perché è stato un artista particolarmente attento alle donne e alla loro valorizzazione. È su questo precipuo aspetto che vorrei soffermarmi in questa sede. Le donne Faber le difende con la parola potente delle sue canzoni, con la denuncia di quanto esse sono costrette a subire nella società borghese e patriarcale, le valorizza quando quella stessa società le bistratta e calpesta, fa emergere le ultime, le più fragili, siano esse sante, ragazze della porta accanto, prostitute o le donne concrete della sua vita.
Nell’album La buona novella del 1971 assistiamo alla narrazione di una Vergine Maria umana, con un destino segnato sin dall’infanzia, come quello di tante bambine di ieri e di oggi: Scioglie la neve al sole, ritorna l’acqua al mare, / il vento e la stagione ritornano a giocare. / Ma non per te, bambina, che nel tempio resti china, / ma non per te bambina che nel tempio resti china (L’infanzia di Maria). La ritroviamo poi sposa nella bottega del falegname Giuseppe che fabbrica croci, una destinata anche al loro figlio, in tutta la tragica tensione dell’essere madre di un figlio votato alla morte, intensamente e umanamente sofferente per questo destino che le riempirà il cuore di dolore: Mio martello non colpisce, / pialla mia non taglia / per foggiare gambe nuove / a chi le offrì in battaglia, / ma tre croci, due per chi / disertò per rubare, / la più grande per chi guerra / insegnò a disertare (Maria nella bottega del falegname); l’eco lontana di brevi parole / ripeteva d’un angelo la strana preghiera / dove forse era sogno ma sonno non era. / “Lo chiameranno figlio di Dio”, / parole confuse nella mia mente, / svanite in un sogno, ma impresse nel ventre (Il sogno di Maria). È una Maria in cui si raccolgono tutte le donne della terra, nel loro essere donne e madri, fragili e nello stesso tempo rese guerriere dalla maternità: Ave Maria, adesso che sei donna, / ave alle donne come te, Maria, / femmine un giorno per un nuovo amore / povero o ricco, umile o Messia. / Femmine un giorno e poi madri per sempre / nella stagione che stagioni non sente (Ave Maria). In un bellissimo dialogo con le due madri dei rispettivi ladroni che furono crocifissi con Cristo, Maria pronuncia parole visceralmente materne: Piango di lui ciò che mi è tolto, / le braccia magre, la fronte, il volto, / ogni sua vita che vive ancora, / che vedo spegnersi ora per ora. / Figlio nel sangue, figlio nel cuore, come nel grembo, e adesso in croce, / ti chiama amore questa mia voce. / Non fossi stato figlio di Dio / t’avrei ancora per figlio mio (Tre madri). Chi mai penserebbe di prestare attenzione ai sentimenti delle madri dei due ladroni nel trittico del Golgota? De André dà loro voce mostrando una sensibilità acuta e preziosa: Madre di Tito: / “Tito, non sei figlio di Dio, / ma c’è chi muore nel dirti addio”. / Madre di Dimaco: / “Dimaco, ignori chi fu tuo padre, / ma più di te muore tua madre”. / Le due madri: / “Con troppe lacrime piangi, Maria, / solo l’immagine d’un’agonia: / sai che alla vita, nel terzo giorno, / il figlio tuo farà ritorno: / lascia noi piangere, un po’ più forte, / chi non risorgerà più dalla morte” (Tre madri).
Nel 1972 Faber traduce la canzone Joan of Arc di Leonard Cohen, dando vita alla storia di un’altra forte figura femminile, Giovanna d’Arco. Il punto culminante e intensamente drammatico della canzone è il racconto del rogo che Giovanna subisce in virtù della sua eresia. La sua fierezza è magistrale ma allo stesso tempo sensuale, simbolo della forza e resistenza di tante donne della storia di fronte alle violenze contro di esse non solo perpetrate, ma anche acuite con maggiore acredine in quanto esseri di genere femminile: “E se tu sei il fuoco raffreddati un poco / le tue mani ora avranno da tenere qualcosa” / e tacendo gli si arrampicò dentro / ad offrirgli il suo modo migliore di essere sposa. / E nel profondo del suo cuore rovente / lui prese ad avvolgere Giovanna D’Arco / e là in alto e davanti alla gente / lui appese le ceneri inutili del suo abito bianco. / E fu dal profondo del suo cuore rovente / che lui prese Giovanna e la colpì nel segno / e lei capì chiaramente / che se lui era il fuoco lei doveva essere il legno (Giovanna d’Arco).
Nella canzone Rimini del 1978 trova spazio la figura di una ragazza semplice, Teresa, che sogna di poter evadere dalla routine e dalla ristrettezza mentale del suo luogo natio, appunto Rimini, diventato meta di fugaci approdi estivi e di amori ingannevoli che durano spesso il tempo di una sola estate. Teresa rimane incinta del figlio del bagnino, che l’ha sedotta e abbandonata, e abortisce quel bambino. La riflessione sulla solitudine che la investe è incisiva e profonda: Ora Teresa è all’Harrys’ Bar / guarda verso il mare / per lei figlia di droghieri / penso che sia normale. / Porta una lametta al collo / vecchia di cent’anni / di lei ho saputo poco / ma sembra non inganni. / “E un errore ho commesso — dice – / un errore di saggezza / abortire il figlio del bagnino / e poi guardarlo con dolcezza / ma voi che siete a Rimini / tra i gelati e le bandiere / non fate più scommesse / sulla figlia del droghiere” (Rimini).
Poi ci sono le prostitute, le donne sbagliate, quelle che il perbenismo ipocrita addita come rovinafamiglie, poco di buono, millantatrici. A loro Faber dedica le poesie più belle: la chiamavano Bocca di rosa / metteva l’amore sopra ogni cosa. Si sa che la gente dà buoni consigli / sentendosi come Gesù nel tempio / si sa che la gente dà buoni consigli / se non può più dare cattivo esempio. / Così una vecchia mai stata moglie / senza mai figli, senza più voglie, / si prese la briga e di certo il gusto / di dare a tutte il consiglio giusto. Spesso gli sbirri e i carabinieri / al proprio dovere vengono meno / ma non quando sono in alta uniforme / e l’accompagnarono al primo treno. / Alla stazione c’erano tutti / dal commissario al sagrestano / alla stazione c’erano tutti / con gli occhi rossi e il cappello in mano. Persino il parroco che non disprezza / fra un miserere e un’estrema unzione / il bene effimero della bellezza / la vuole accanto in processione. / E con la Vergine in prima fila / e Bocca di rosa poco lontano / si porta a spasso per il paese / l’amore sacro e l’amor profano (Bocca di rosa). Dolcissima e quasi fiabesca è la figura di Barbara, che vive l’amore liberamente e senza vincoli: Lei sa che ogni letto di sposa / è fatto di ortica e mimosa / per questo ad un’altra età / Barbara / l’amore vero rimanderà / Barbara. / E intanto lei gioca all’amore / scherzando con gli occhi ed il cuore / di chi forse la odierà / Barbara / ma poi la perdonerà / Barbara (La canzone di Barbara, 1972).
Tra le tante storie forti, irriverenti, anticonformiste, messe in musica e poesia da De André, non si può non ricordare quella di Fernanda Farias de Albuquerque, all’anagrafe Fernandinho, nome d’arte Prinçesa, una transgender brasiliana nata maschio, che abbandona il paesaggio contadino della sua infanzia per seguire il suo desiderio di femminilità, facendosi operare chirurgicamente per poter diventare finalmente donna e correre “all’incanto dei desideri”: E io davanti allo specchio grande / mi paro gli occhi con le dita / a immaginarmi tra le gambe / una minuscola fica. / Nel dormiveglia della corriera / lascio l’infanzia contadina / corro all’incanto dei desideri / vado a correggere la fortuna. / Nella cucina della pensione / mescolo i sogni con gli ormoni / ad albeggiare sarà magia / saranno seni miracolosi. Che Fernandino mi è morto in grembo / Fernanda è una bambola di seta / sono le braci di un’unica stella / che squilla di luce e di nome Prinçesa. / A un avvocato di Milano / ora Prinçesa regala il cuore / e un passeggiare recidivo / nella penombra di un balcone (Prinçesa). Faber le inventa un lieto fine in compagnia di un avvocato milanese a cui Prinçesa “regala il cuore”, ma la vita di questa persona non ha avuto un epilogo sognante: morta suicida nel 2000 in circostanze misteriose, Fernanda era stata vittima di abusi sessuali a sette anni, prostituta nelle grandi città brasiliane, in Spagna e poi per le strade di Milano. Nel 1990 a Roma finisce a Rebibbia perché tenta di uccidere una sfruttatrice e qui, dopo aver scoperto di essere sieropositiva, incontra Giovanni Tamponi, pastore sardo ergastolano, che le suggerisce di parlare della sua storia a Maurizio Jannelli, ex brigatista. La vita di Fernanda diventa un’autobiografia, pubblicata nel 1994 col titolo Prinçesa dalla cooperativa “Sensibili alle foglie” gestita da Renato Curcio. La presentazione a Torino verrà infatti contrastata dai parenti delle vittime delle BR per la presenza di quest’ultimo. L’autobiografia ispira anche la canzone a Faber, che viene così collocata all’inizio dell’ultimo album Anime salve, pubblicato nel 1996, e interamente dedicato alla solitudine in tutte le sue forme, anche quella di una transgender come Fernanda. In un articolo apparso sul “Corriere della Sera”, il critico musicale Mario Luzzatto Fegiz scrive: «”le radici di anarchia e cristianesimo sono comuni. Le strade si divisero quando il cristianesimo sconfinò in un meccanismo autoritario”. Così dice Fabrizio De André quando gli chiedono se il suo nuovo album Anime salve, che esce oggi a distanza di quattro anni da Nuvole, sia più mistico o più anarchico. “Grillo – dice commosso De André – ha preso nella mia vita il posto che aveva il mio fratello maggiore”. Grillo sdrammatizza: “Dai, Fabrizio, trasformati in Bossi e insulta i giornalisti”. Una cronista incauta chiede: “Come mai Grillo è qui?”, e lui: “Lei è l’inviata della Settimana enigmistica?”. Momento ridanciano di un incontro serio centrato sui grandi temi dell’umana condizione. Come si conveniva a un disco quale Anime salve, un viaggio musicalmente affascinante, con l’impiego di strumenti di diversa origine organica, che sostiene la seguente tesi: viviamo in un mondo di minoranze oppresse dalle maggioranze, di isolamenti e solitudini coatte vissute a volte con dignità e fierezza, a volte con il disperato sconforto di chi si sente abbandonato» (Mario Luzzatto Fegiz, De André: che eroi i diseredati, in “Corriere della Sera”, 19 settembre 1996). Incredibile come il contesto storico e sociale non sia poi così lontano da quello odierno – compresi i personaggi: lo sfondo è attuale come il messaggio fortemente sociale ed esistenziale di Anime salve.
Estremamente carnale e trasgressiva è Jamina, la “sultan-a de e bagasce” di Creuza de mä, album del 1984 interamente composto in genovese, quarto nella classifica di “Rolling Stone Italia” dei 100 dischi italiani più belli di sempre, con l’inestimabile autoriale apporto musicale di Mauro Pagani. La creuza è nel genovesato una strada suburbana che scorre fra due muri determinando solitamente i confini di proprietà e collegando l’entroterra con il mare. Jamina è promessa di speranza e di felicità che i marinai incontrano in porto all’attracco e alla quale si lasciano andare nelle voglie e speranze sessuali più sfrenate e fantasiose: sultan-a de e bagasce / dagghe cianìn Jamin-a / nu navegâ de spunda / primma ch’à cuaé ch’à munta e a chin-a / nu me se desfe ‘nte l’unda / e l’ûrtimu respiu Jamin-a / regin-a muaé de e sambe / me u tegnu pe sciurtï vivu / da u gruppu de e teu gambe (sultana delle troie / dacci piano Jamina / non navigare di sponda / prima che la voglia che sale e scende / non mi si disfi nell’onda / e l’ultimo respiro Jamina / regina madre delle sambe / me lo tengo per uscire vivo / dal nodo delle tue gambe) (Jamin-a).
E poi c’è l’indimenticabile Marinella. Di essa Faber dichiarava in un’intervista: «Non è nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare una favola d’amore. È tutto il contrario. È la storia di una ragazza che a sedici anni ha perduto i genitori, una ragazza di campagna dalle parti di Asti. È stata cacciata dagli zii e si è messa a battere lungo le sponde del Tanaro e un giorno ha trovato uno che le ha portato via la borsetta dal braccio e l’ha buttata nel fiume e non potendo fare niente per restituirle la vita, ho cercato di cambiarle la morte. Così è nata la “Canzone di Marinella”, che se vogliamo ha anch’essa delle motivazioni sociali, nascostissime. Ho voluto completamente mistificare la sorte di Marinella. Non ha altra chiave di lettura se non quella di un amore disgraziato; se tu non racconti il retroscena è impossibile che uno pensi che all’origine c’era una gravissima problematica sociale. Certi fatti della realtà, soprattutto quand’ero giovane, mi davano un grande fastidio, allora cercavo di mutare la realtà» (Luciano Lanza, Gli anarchici, i poeti & gli altri – Intervista a Fabrizio De André, in “A/Rivista Anarchica”, anno 29 n. 252, A, marzo 1993). Il celeberrimo brano, che Faber aveva scritto nel 1962 e pubblicato due anni dopo, fu interpretato dalla sorprendente Mina nel 1967, di cui Fabrizio riconosce tutta la straordinaria capacità artistica e il talento vocale parlandone a Vincenzo Mollica nel 1999, in una delle sue rare interviste: «Ci vuole proprio un bel coraggio a cantare con Mina La canzone di Marinella perché la sua voce è un miracolo. Credo che lei sia nata con la musica nel dna, è come se avesse avuto una memoria prenatale della musica. Questo è un fenomeno tipico della genialità: quello di sapere prima di conoscere. Te ne accorgi quando la senti cantare perché le sue evoluzioni vocali, le picchiate, i glissati, i grappoli di note in brevissimi intervalli di tempo, le svisature della melodia sono assolutamente spontanee» (Vincenzo Mollica, Così è nata la canzone di Marinella in http://www.bielle.org/fabriziodeandre/pages/articolo6.htm). La canzone è una ballata dai toni dolci e malinconici: Questa di Marinella è la storia vera / Che scivolò nel fiume a primavera / Ma il vento che la vide così bella / Dal fiume la portò sopra una stella / Sola senza il ricordo di un dolore / Vivevi senza il sogno di un amore  / Questa è la tua canzone Marinella / Che sei volata in cielo su una stella / E come tutte le più belle cose / Vivesti solo un giorno, come le rose (La canzone di Marinella).
È una storia che fa riflettere con struggente commozione sulla sorte avversa di questa giovane ragazza, nella quale De André identifica tantissime donne prostitute a lui così care, ultime nella società ma destinate a rivelare al mondo il vero paradiso, in un’opera di mistificazione e santificazione alla quale Fabrizio dedica la sua poesia, perché nei carrugi di Genova in cui anch’egli si perdeva da ragazzo, affollati di poveri, miserabili, puttane, il cantante intravedeva, senza le ipocrisie del borghesismo, uno spiraglio di vera salvezza, quella che può provenire solo dall’essere stati immersi prima nella più profonda miseria e sofferenza esistenziale. È ciò che canta in una delle sue canzoni più belle, con parole che andrebbero recitate come un mantra: Ama e ridi se amor risponde / piangi forte se non ti sente / dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior (Via del Campo).
Meravigliose poi le parole che Faber dedica alle donne nella canzone Le passanti, una breve rassegna di figure femminili trattate con poesia e rispetto, come lui sapeva fare, sia che fossero giovani donne, sante, eroine o prostitute, tutte meritano la dignità di essere considerate regine perché rendono la vita degli uomini gioiosa, perché esse stesse sono gioia, sono vita, sono da pensare sempre con amore e mai con possesso e violenza: Io dedico questa canzone / ad ogni donna pensata come amore / in un attimo di libertà: / a quella conosciuta appena / non c’era tempo e valeva la pena / di perderci un secolo in più. / A quella quasi da immaginare / tanto di fretta l’hai vista passare / dal balcone a un segreto più in là / e ti piace ricordarne il sorriso / che non ti ha fatto e che tu le hai deciso / in un vuoto di felicità. / Alla compagna di viaggio / i suoi occhi il più bel paesaggio / fan sembrare più corto il cammino / e magari sei l’unico a capirla / e la fai scendere senza seguirla / senza averle sfiorato la mano. / A quelle che sono già prese / e che vivendo delle ore deluse / con un uomo ormai troppo cambiato / ti hanno lasciato, inutile pazzia, / vedere il fondo della malinconia / di un avvenire disperato (Le passanti).
Ma le donne nella vita di De André non sono state solo cantate bensì anche vissute, nei suoi amori, nelle sue amicizie, nelle sue frequentazioni giovanili. Tra le sue più grandi amicizie compare il nome di una donna grandiosa, la scrittrice, studiosa e traduttrice genovese che don Antonio Gallo aveva chiamato “Signora America” nell’omelia per il suo funerale: è Fernanda Pivano, morta a Milano nel 2009, qualche mese prima della poeta Alda Merini. Nata nel 1917, diplomata in pianoforte, consegue la maturità classica con il compagno di classe Primo Levi e il professore di italiano supplente Cesare Pavese, che un giorno del 1938 le dà da leggere quattro libri della letteratura americana, folgorando di fatto la giovane studente, inizialmente non ammessa all’orale della maturità insieme a Levi perché i loro temi vengono considerati “non idonei”! I testi in questione, pietre miliari della letteratura mondiale, sono Addio alle armi di Ernest Hemingway, Foglie d’erba di Walt Whitman, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e l’autobiografia di Sherwood Anderson. Ma non è tutto: si laurea prima in lettere nel 1940, con una tesi su Moby Dick di Melville, e poi in filosofia nel 1943 con il professore Nicola Abbagnano, sul cui testo di storia della filosofia tutti e tutte le studenti liceali come me hanno versato lacrime e profuso sospiri, dal titolo meraviglioso Il valore della simpatia nell’educazione, e nello stesso 1943 pubblica per Einaudi, con la guida di Pavese, la sua traduzione dell’Antologia di Spoon River. Già questo basterebbe per annoverare Nanda tra i nomi di una ipotetica Walk of Fame della cultura. Viene arrestata a Torino perché suo fratello Franco era stato erroneamente scambiato per il traduttore del romanzo di Hemingway Addio alle armi, vietato nel nostro miope paese fascista fino al 1949: lui viene rilasciato, lei trattenuta e interrogata a lungo dalle SS. Si sposa con un architetto milanese, viaggia, traduce e fa conoscere autori come Francis Scott Fitzgerald e William Faulkner, promuove la valorizzazione in Italia degli scrittori della Beat Generation, tra cui Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs e Gregory Corso, diffonde autori come Henry Miller e Charles Bukowski, fa crescere giovani poeti, inaugura una struttura che diventerà la biblioteca “Riccardo (il padre) e Fernanda Pivano”, gira docu-film sulla sua vita e sulla beat generation, si occupa di musica, scrive su Bob Dylan e collabora con Fabrizio De André, che trae ispirazione dalla sua traduzione dell’Antologia di Edgard Lee Masters per l’album Non al denaro non all’amore né al cielo. Il 25 ottobre 1971 Fernanda intervista Faber a Roma, in una lunga e meravigliosa chiacchierata tra autrice della traduzione delle poesie e cantautore che le trasferisce in musica. Pivano chiede a De André: «Cerca di dirmi in che modo, quando eri ragazzo, a un ragazzo della tua generazione Masters è sembrato un contestatore», ed egli risponde: «Perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di fuori delle necessità pratiche». Alla fine, Fabrizio si rivolge a Nanda dicendole: «Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt’altra tendenza. È successo tra il ‘37 e il ‘41: quando questo ha significato coraggio» (retro della copertina del disco Non al denaro non all’amore né al cielo).
Il 26 luglio 1997 Fernanda consegna a Fabrizio il Premio Lunezia per il valore letterario del testo di Smisurata preghiera, presentando il cantante come «il più grande poeta in assoluto degli ultimi cinquant’anni in Italia, […] quel dolce menestrello che per primo ci ha fatto le sue proposte di pacifismo, di non violenza, di anticonformismo», aggiungendo che «sempre di più sarebbe necessario che, invece di dire che Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio americano» (dal sito ufficiale del Premio Lunezia, http://www.premiolunezia.it/2019/01/16/quando-fabrizio-de-andre-vinse-il-premio-lunezia/ ).

Pivano ai funerali di de andrè
Fernanda Pivano ai funerali di Fabrizio De André

Ai suoi funerali, don Antonio Gallo, altro grande amico sia di Nanda che di Faber, pronunciò parole bellissime per questa straordinaria protagonista della nostra storia culturale e musicale novecentesca: «No, la Fernanda non se n’è andata. Guardate quanta gente la ricorda in tutto il mondo, sui giornali, in tv. Ieri anche “L’Osservatore Romano” le ha dedicato un ottimo articolo. Ancora una volta il colle di Carignano, come nel gennaio del 1999, è un lago d’amore. Non se ne va Fernanda, il passato dei ricordi si insinua nel presente con una immanenza che è insieme dolente e grata. Altre persone ne prenderanno il testimone per proseguire l’impegno a lottare, con le armi della parola, della poesia, della coerenza, della pace, contro questo sistema che produce violenza, sfruttamento e infamità, che ostenta volgarità e ignoranza. Una volta la Fernanda sottolineava come fu colpita dalla “rivoluzionaria tenerezza” dei versi di Masters. “Una rivoluzione moderna” diceva. La Fernanda non hai mai creduto alla violenza e la sua vita è sempre stata avvolta in una rivoluzionaria tenerezza, per questo la ricordiamo col volto solare e un sorriso radioso. Come si divertiva quando traduceva con me un passo dell’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni. Sapeva il latino meglio di me e nel tradurre “alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda” esultava: “Chi dice di portare la democrazia con le armi è pazzo”. Alla domanda: “Qual è, Fernanda, il tuo sogno?”, rispose: “Voglio che Dio mi mostri il suo volto”. E aggiunse: “Quasi, forse”. Cara Fernanda, né quasi né forse. Nel Discorso della montagna, alla nona beatitudine troviamo: “Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati Figli di Dio”. Fernanda, Shalom, Salam, Pace! Ciao, Signora America. Ciao, Signora Libertà. Ciao, Signorina Anarchia». (Ciao Signora America. Per Fernanda Pivano, di don Andrea Gallo, Genova, 21 agosto 2009, in http://temi.repubblica.it/micromega-online/don-gallo-omelie-per-fabrizio-de-andre-e-fernanda-pivano/).

Foto.

Sono queste le parole che vorremmo venissero pronunciate in una precisa occasione che l’associazione di Toponomastica femminile chiede possa diventare concreta, ovvero l’intitolazione di una via o piazza genovese a Fernanda Pivano. Dopo la notizia, risalente al 18 dicembre scorso, secondo cui la Commissione toponomastica del Comune di Genova le ha rifiutato l’intitolazione di una piazza, proposta da un’istanza delle associazioni Orizzonti, Toponomastica femminile e Se non ora, quando?, Toponomastica femminile si è attivata con l’organizzazione dell’incontro del 2 gennaio ai Giardini Luzzati con tutti i cittadini e le cittadine che vogliono l’intitolazione nel Municipio 1° di Genova, ed è stata appositamente creata una pagina Facebook, dal titolo “Vogliamo l’intitolazione a Fernanda Pivano nel Municipio 1”, che sta raccogliendo pareri e commenti sull’iniziativa. L’obiettivo è sostenere l’istanza: fortemente vogliamo si arrivi alla realizzazione di quanto riteniamo giusto e doveroso nei confronti della memoria di una donna che merita non di essere obliata, ma di occupare il suo posto in uno spazio della sua Genova. Toponomastica femminile non si fermerà e andrà avanti nella ripresentazione di una nuova istanza per un altro spazio alle spalle dei Giardini Luzzati, come già anticipato dalla presidente Maria Pia Ercolini (https://genova.repubblica.it/cronaca/2019/12/31/news/un_incontro_e_una_pagina_facebookper_intitolare_una_piazza_in_centro_storico_a_fernanda_pivano). Faber sarebbe stato oggi il primo firmatario di questa iniziativa, avrebbe spronato la volontà di andare oltre le barriere della burocrazia, oltre le lungaggini create da chi non riesce a vedere al di là del proprio naso e si sofferma sulle cose piccole, avrebbe invitato a non arrendersi, come “servi disobbedienti alle leggi del branco”, viaggiatrici e viaggiatori instancabili “in direzione ostinata e contraria”.

 

 

Articolo di Valeria Pilone

Pilone 400x400.jpgGià collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.

6 commenti

  1. in qualità di appassionata del mondo deandreiano ero a conoscenza di molti particolari narrati nell’articolo, cose che però trona utile ricordare nell’anniversario della sua morte, affinchè si rinverdisca la memoria della grande umanità e genialità di Fabrizio, uomo,- poeta- artista- intellettuale del novecento.

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  2. Commovente articolo. Chi non ha amato Fabrizio De André. L’hanno scorso ho fatto un evento e mostra alla Villa Scheibler intitolato “La tempesta di ricordi con Fabrizio De André” per l’Associazione Amici della Mente all’ospedale Sacco Dipartimento di salute mentale. Dopo un corso di pittura ai pazienti durato tre mesi. La nostra Associazione nella persona del Presidente Gabriele Catania cura gli attacchi di panico con le canzoni di Fabrizio De André. Per sapere di più cerca i sul sito. In più lavoro al museo Alda Merini e faremo a breve un evento musicale con l’associazione e Dori Ghezzi. Un abbraccio

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