Donna, ribelle, libertaria Eleonora Pimentel Fonseca e la rivoluzione partenopea del 1799

«Dopo la caduta della repubblica, Napoli non presentò che l’immagine dello squallore. Tutto ciò che vi era di buono, di grande, d’industrioso, fu distrutto; ed appena pochi avanzi de’ suoi uomini illustri si possono contare, scampati quasi per miracolo dal naufragio, erranti, senza famiglia e senza patria, sull’immensa superficie della terra». Sono le parole amare che aprono uno degli ultimi capitoli del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco: una rivoluzione «che doveva formare la felicità di una nazione, e che intanto ha prodotta la sua ruina», fatta oggetto di una repressione vile e feroce (119 uomini e 3 donne condannati alla pena capitale, 222 al carcere a vita, 322 a pene cosiddette ‘minori’); una repressione che letteralmente decapita e disperde la classe intellettuale napoletana (288 i deportati, 67 gli esiliati: tra questi ultimi Vincenzo Cuoco, rifugiato a Milano, ove nel 1801 pubblica il Saggio, poi ristampato nel 1806) e che condanna il Meridione d’Italia all’arretratezza e all’ignoranza.
La repubblica partenopea è proclamata il 24 gennaio 1799, il giorno successivo alla conquista della città da parte del generale francese Championnet, nel quadro dell’allargamento dei confini della Francia rivoluzionaria e dell’esportazione nei territori limitrofi – Italia per prima – degli ideali del 1789. Il re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, precedendo l’ingresso delle truppe francesi, aveva già lasciato la città, trasferendosi a Palermo sotto la protezione della flotta inglese (la Gran Bretagna, come noto, era irriducibile nemica della Francia rivoluzionaria e napoleonica); con lui la regina, Maria Carolina d’Asburgo Lorena, figlia di Maria Teresa d’Austria e sorella di Maria Antonietta regina di Francia. È desolante riconoscere che il destino di tanti uomini e donne, di intere nazioni, tra Settecento e Ottocento (e oltre), è dettato dalle studiate politiche matrimoniali delle case regnanti e dai nefasti legami personali al loro interno. Ma tant’è: lo aveva ben compreso Benedetto Croce, che nel suo fortunato saggio La repubblica napoletana del 1799, del 1912, individua in Ferdinando, Maria Carolina e nell’ammiraglio inglese Horatio Nelson i responsabili della repressione seguita alla caduta della repubblica partenopea. Una rivoluzione, a posteriori, destinata al fallimento: le repubbliche italiane erano infatti per la Francia una fonte di denaro con cui risanare il bilancio dello Stato e finanziare la guerra, del che repubblicani e giacobini italiani non avevano tardato ad accorgersi, pur non riuscendo a liberarsi dalla nomea di essere asserviti ai nuovi occupanti; i princìpi rivoluzionari, mutuati d’oltralpe, risultavano astratti e difficilmente applicabili nella realtà italiana; il popolo – a Napoli costituito in buona parte da ‘lazzaroni’, assimilati a vagabondi, banditi, nullafacenti – restava lontanissimo dalla borghesia intellettuale, che non riuscì a diventare espressione della collettività, alla quale poco importava dell’abolizione dei diritti feudali, sostanzialmente non compresa. Un’utopia, appassionata e generosa, ma un’utopia.
È in questo scenario che si afferma come protagonista Eleonora Pimentel Fonseca, intellettuale portoghese di nascita e napoletana d’adozione, studiosa di storia, diritto ed economia, matematica e fisica, già celebre autrice di versi alla corte di Maria Carolina e già nota per le vicende legate al suo matrimonio e alla sua separazione.
Leonor da Fonseca Pimentel (avrebbe poi rinunciato al titolo nobiliare, ribattezzandosi Eleonora Pimentel Fonseca) era nata a Roma nel 1752, per poi trasferirsi ancora bambina a Napoli, con la famiglia; divenuta giovanissima bibliotecaria della regina, nel 1776 aveva sposato Pasquale Tria de Solis, tenente dell’esercito borbonico di quasi vent’anni più anziano, al quale il padre di lei intenta con successo una causa di separazione nel 1785: dagli atti di questo processo (ritrovati da Franco Schiattarella cinquant’anni or sono), si apprende che l’ufficiale non solo aveva dilapidato la dote della consorte, ma aveva contribuito con percosse e violenze ai due aborti spontanei da lei patiti dopo la morte, per vaiolo, a pochi mesi di vita, dell’unico figlio (la vicenda privata e pubblica della ‘marchesa giacobina’ è ora ben ricostruita da Antonella Orefice nel saggio Eleonora Pimentel Fonseca. L’eroina della repubblica napoletana del 1799, edito nel settembre scorso).
A partire dagli anni Ottanta, Eleonora frequenta gli ambienti dell’Illuminismo napoletano: conosce il giurista Gaetano Filangieri e il medico e naturalista Domenico Cirillo, corrisponde con lo scienziato veneto Alberto Fortis (diciotto lettere da lei scritte, comprese tra il 1774 e il 1791, sono state scoperte vent’anni or sono da Giorgio Fulco, indimenticato docente di letteratura italiana alla Federico II di Napoli); è componente della delegazione che nel dicembre 1792 incontra l’ammiraglio francese Latouche Treville; in questa occasione è certamente segnalata alla polizia segreta borbonica per simpatie giacobine. Negli stessi anni, dal 1785 al 1797, riceve un sussidio dalla regina Maria Carolina, con la quale, fino agli anni Novanta – ovvero fino alla decapitazione di Luigi XVI e Maria Antonietta – condivide l’apprezzamento per gli ideali illuministi: la stessa Maria Carolina che, dopo la caduta della Repubblica, ne reclama con ostinazione la morte.
Incarcerata nell’ottobre 1798 in seguito a una perquisizione nella sua casa (è trovata in possesso di alcuni volumi dell’Encyclopédie), è liberata nel gennaio 1799: a lei, scrittrice e studiosa illuminata, è affidata la direzione del “Monitore Napolitano”, il bisettimanale che accompagna la breve vita della repubblica partenopea e che viene redatto quasi interamente da Eleonora, nella casa presa in affitto in via Santa Teresella degli Spagnoli (ubicata nei cosiddetti ‘Quartieri Spagnoli’, nel cuore della città): 35 numeri, pubblicati il martedì e il sabato, dal 2 febbraio all’8 giugno 1799. Il 13 giugno segna infatti la fine della repubblica.

NAPOLI-1799
Napoli, 1799

«Come va il mondo! Il re di Napoli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l’abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui» scrive con dolore Vincenzo Cuoco.
La controrivoluzione era in atto già da febbraio: su mandato di Ferdinando (e delle alleate Gran Bretagna e Austria), il cardinale Fabrizio Ruffo era sbarcato in Calabria e si era posto a capo delle truppe sanfediste, inneggianti alla ‘Santa Fede’, che avevano individuato il nemico nei rivoluzionari borghesi, atei e miscredenti. In maggio le truppe francesi di stanza nel sud sono spostate nel nord della penisola. Il 13 giugno i sanfedisti entrano a Napoli, rendendo grazie a sant’Antonio (particolarmente venerato nel meridione agricolo quale protettore degli animali), in contrapposizione a san Gennaro, colpevole di aver dato luogo al miracolo del sangue anche in presenza degli occupanti francesi.
Dichiarata decaduta la repubblica partenopea l’8 luglio, inizia la repressione, vile e feroce. Fabrizio Ruffo aveva ottenuto la capitolazione ‘con onore’ dei patrioti asserragliati nella fortezza di Castel Sant’Elmo, ai quali aveva garantito la possibilità di lasciare Napoli. Sottoscritto l’accordo, il re e la regina, con il capo di gabinetto Giovanni Acton, esautorano Ruffo dal comando e aprono quella che si configura come una triste vendetta personale.
«Già da due mesi un certo Speziale [Vincenzo Speciale], – scrive Vincenzo Cuoco – spedito espressamente da Sicilia, avea aperto un macello di carne umana in Procida, ove condannò a morte un sartore, perché avea cuciti gli abiti repubblicani ai municipi, ed anche un notaro, il quale in tutto il tempo della durata della repubblica non avea mai fatto nulla e si era rimasto nella perfetta indifferenza. — Egli è un furbo — diceva Speziale: — è bene che muoia». Il 1° giugno 1799 erano stati giustiziati dodici patrioti procidani (tra loro farmacisti e sacerdoti, ma anche braccianti e marinai), ai quali ora è intitolata Piazza Martiri, sul promontorio orientale dell’isola, ai piedi della Terra Murata.

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Ferdinando IV ordina infatti di annullare qualsiasi provvedimento preso in virtù degli «infami princìpi democratici» e di sottrarre agli archivi tutti i documenti relativi alla repubblica e alla repressione, inasprita da Horatio Nelson, comandante della flotta inglese inviata a sostegno dei ‘sovrani legittimi’. Come scrive Mario Praz a proposito del «sadismo inglese», l’atteggiamento sanguinario di Lady Hamilton durante le esecuzioni capitali napoletane del 1799 è «ben noto»: Emma Hamilton era moglie dell’ambasciatore britannico William Hamilton e amante di Horatio Nelson, nonché intima amica di Maria Carolina. Lo stesso Nelson muta in morte la condanna al carcere a vita per l’ammiraglio Francesco Caracciolo, impiccato il 30 giugno al pennone di una nave borbonica e gettato in mare senza onoranze funebri, per poi riemergere pochi giorni dopo davanti allo sbigottito Ferdinando (è il soggetto di un bel quadro di Ettore Cercone, datato 1888 e conservato al Museo della Certosa di San Martino, che mio padre mi mostrò da bambina, raccontandomi della rivoluzione della ‘nostra’ Napoli).
Ed Eleonora? Eleonora risulta tra i firmatari della ‘obbliganza’, l’impegno a lasciare il Regno di Napoli per non farvi mai più ritorno, ma proprio mentre le navi francesi stanno per salpare alla volta di Tolone – così racconta un compagno – è trattenuta, poi fatta sbarcare, infine processata il 17 agosto e condannata a morte per impiccagione. La sentenza è eseguita il 20 agosto, nella centrale piazza Mercato.
Di lei è disperso il corpo, né esiste un ritratto certo, scarsi sono i documenti, e non solo per la damnatio memoriae voluta dagli ineffabili Ferdinando e Maria Carolina. Era donna, ribelle e libertaria: tre volte colpevole. Ma Eleonora Pimentel Fonseca è uno degli «esempi di virtù» di cui tramanda memoria Vincenzo Cuoco, perché «la memoria di coloro che abbiamo perduti è l’unico bene che ci resta, è l’unico bene che possiamo trasmettere alla posterità».
«Audet viris concurrere virgo. Ma essa si spinse nella rivoluzione, come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa donna avea meritata l’approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l’adornavano. Nell’epoca della repubblica scrisse il Monitore Napolitano, da cui spira il più puro ed il più ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un’indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo, volle bevere il caffè, e le sue parole furono: Forsan haec olim meminisse iuvabit».
Donna, ribelle, libertaria. E, da vera napoletana, amante del caffè.

EleonoraPimentelFonseca.Milano.RosaEnini
Milano, foto di Rosa Enini

Una bellissima ricostruzione della sua vita e del suo tempo compare nel romanzo di Enzo Striano Il resto di niente (1986) da cui la regista Antonietta De Lillo trasse il film omonimo interpretato da Maria de Medeiros (2004).

 

 

Articolo di Laura Coci

y6Q-f3bL.jpegFino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Insegna letteratura italiana e storia ed è presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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