«Più la meta sarà vicina, più dura sarà la lotta». Filippo Maria Beltrami e la battaglia di Megolo (13 febbraio 1944)

«ITALIANI,
l’anno che oggi s’inizia, sarà l’anno della liberazione della Patria.
Molteplici indizi confortano questa speranza, danno questa assoluta certezza.
Ma più la mèta sarà vicina, più dura sarà la lotta; lotta contro l’invasore straniero, lotta contro l’infame oppressore fascista.
E a noi, che sin dall’inizio di questa azione di patrioti, volevamo, consoni alle tradizioni del nostro popolo, improntare la lotta a caratteristiche di gentilezza e di cavalleria, improvvisamente è caduta la benda dagli occhi.
Agli Zurlo, ai Serravalle, ai Cintoli, tranquillamente rimandati alle loro case e alle loro famiglie, stanno, tragico confronto, le vittime di Borgosesia, di Biella, i fucilati di Novara, povere spoglie seviziate, irrigidite nello spasimo di una atroce agonia, lasciate nel fango delle vie cittadine e nei fossati delle fortezze: vittime e fucilati la cui unica colpa fu di aver amato veramente la Patria, o, destino ancor più tragico, di aver attraversato la strada alla urlante canea dei sanguinari assassini.
E
allora il popolo ha diritto di gridare, deve gridare: BASTA! Basta con queste infamie, basta con questi massacri.
E questo grido che già gonfia i petti sia raffica di vento che tutto spazzi, tutto distrugga davanti a sé. Terribile diventi la nostra ira, l’ira di tutta la gente martoriata e oppressa.
VIVA L’ITALIA!».
Il proclama, a firma ‘Filippo Beltrami’ è affisso il 1° gennaio 1944 sulle cantonate di Omegna e porta «il tricolore e il nome del Capitano in tutte lettere», scrive Giuliana Gadola, compagna di vita e di lotta di Filippo Maria Beltrami, nella biografia Il Capitano; il libro, del 1945, racconta «come suo marito divenne un comandante partigiano, combatté per brevi, intensi mesi contro i fascisti e contro i tedeschi, cadde infine in uno scontro a fuoco in mezzo ai suoi compagni» (così Gianni Rodari). Poche settimane più tardi, il 13 febbraio 1944, il Capitano – così è chiamato in ragione del grado militare nel Regio Esercito – trova infatti la morte nella battaglia di Megolo, in Val d’Ossola, con altri undici uomini della sua formazione.
Filippo Maria Beltrami è nato nel 1908, appartiene alla borghesia lombarda benestante ma antifascista, è un architetto affermato. Dopo l’8 settembre 1943 si trasferisce nella villa di famiglia a Cireggio, presso Omegna, con la moglie Giuliana e i tre figli, Giovanna, Luca e, piccolo di pochi mesi, Michele. Qui, accanto a Giuliana, sceglie la Resistenza. «Ero stato, prima di andare coi partigiani, un giovane borghese sempre vissuto in famiglia; il mio tranquillo antifascismo era prima di tutto opposizione al culto della forza guerresca, una questione di stile, di “sense of humor”, e tutt’a un tratto la coerenza con le mie opinioni mi portava in mezzo alla violenza partigiana, a misurarmi su quel metro» scrive Italo Calvino nella prefazione (del 1964) a Il sentiero dei nidi di ragno. Secondo Mauro Begozzi, autore del Signore dei ribelli – accurato saggio sulla figura del Capitano e sulla Resistenza nel Cusio-Ossola dal settembre 1943 al febbraio 1944 – «Filippo Beltrami avrebbe potuto dire di sé e della propria esperienza pressappoco le stesse cose».
La scelta della Resistenza, da parte di un borghese che pure avrebbe potuto tranquillamente optare per l’attendismo, si compie nel segno della consapevolezza e della responsabilità: il Capitano è un uomo stimato e autorevole, diviene un punto di riferimento per giovani e giovanissimi ‘sbandati’ del territorio, che hanno acquisito o maturato una coscienza antifascista, che rifiutano l’arruolamento nelle file della Repubblica Sociale Italiana, che sperimentano attraverso la ‘banda’ la democrazia diretta, in cui ciascuno è responsabile per sé ma anche per il gruppo. I venti-trenta ‘ribelli’ che si uniscono a Beltrami in settembre diventano circa quattrocento in dicembre, non senza difficoltà di organizzazione e di gestione; l’unione del gruppo ‘Quarna’ di Filippo Beltrami e del gruppo ‘Massiola’ di Alfredo Di Dio – che morirà nell’ottobre 1944, durante la ritirata dalla Val d’Ossola – porta, nel dicembre 1943, alla costituzione della brigata ‘Patrioti Valstrona’, che opera in collegamento con il Cln e con la brigata garibaldina di Cino Moscatelli. Beltrami è ormai divenuto un comandante quasi leggendario: dopo l’occupazione dimostrativa di Omegna, operata con Moscatelli, su di lui è posta una taglia di centomila lire, ma – racconta Giuliana, riportando un’affermazione del marito – «Ho il popolo con me; perché devo aver paura?»; è «un borghese sentimentale, ma buon patriota, coraggioso, uomo d’azione disposto a battersi», inoltre «gode di grande popolarità e prestigio» e il suo distaccamento è «ordinato, abbastanza disciplinato» scrive Vittorio Flecchia (nome di battaglia ‘Valbruna’) in un rapporto sulla situazione nel Novarese inviato al Comando generale delle Brigate “Garibaldi” a fine dicembre 1943. Il proclama lo dimostra: alla ‘cavalleria’ che ha connotato le azioni del Capitano e della sua formazione (diversi prigionieri fascisti sono stati rilasciati dopo la cattura), nazisti e fascisti hanno risposto con azioni di rappresaglia contro la popolazione civile, con la strage di inermi, con l’ostensione dei corpi delle vittime in segno di spregio e minaccia.
Il 22 dicembre Giuliana, che per qualche tempo è stata accanto al marito in una baita dell’Alpe Camasca, rientra a Cireggio: «Ogni volta che torno qui in Camasca – dirà il loro figlio ultimogenito Michele durante una commemorazione, il 16 agosto 2014 – penso che qui è iniziata l’avventura partigiana del papà e che in una di queste baite il papà e la mamma hanno passato insieme gli ultimi giorni, prima che la mamma ritornasse da noi figli e il papà proseguisse la lotta, fino al tragico epilogo di là dai monti».
Il 23 il comando tedesco intima a Beltrami la consegna delle armi; il Capitano risponde dichiarando con lealtà le proprie intenzioni, poi riaffermate nel proclama di Capodanno: «combattere fino alla liberazione della nostra patria, liberazione dagli occupanti stranieri, di qualunque nazionalità siano, liberazione dall’infame cricca fascista, colpevole di vent’anni di malgoverno». Il 16 gennaio 1944, in occasione di un pesante rastrellamento tedesco in Val Sesia, porta aiuto a Cino Moscatelli, inviandogli un centinaio dei suoi uomini, guidati dai migliori partigiani della formazione, che fanno ritorno in Val Strona due giorni dopo. Il Capitano pensa inizialmente di organizzare la difesa della valle, poi, però, decide di spostare la brigata in Val d’Ossola, sia per ragioni di gestione degli uomini e riorganizzazione della lotta, sia per non esporre la popolazione locale al rischio di rappresaglie: dal 23 gennaio, infatti, è giunta a Omegna la 10
a compagnia del 12° reggimento delle SS-Polizei: decisa a ‘ripulire’ il territorio dalle bande; è guidata da Ernst Simon, che aveva già combattuto sul fronte orientale, ove la popolazione sovietica era stata letteralmente decimata.

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Lungo il percorso che oggi porta il suo nome (e ove io stessa ho arrancato al passo con i giovani di Anpi Monza e Brianza nell’agosto 2016, a oltre duemila metri, e non c’era neve né maltempo), il 28 gennaio Filippo Beltrami, con la quarantina di uomini che scelgono di rimanere nella brigata (le defezioni sono state numerose), lascia dietro di sé Cireggio e Quarna, abbandona l’Alpe Camasca, tocca Strona e Campello Monti, scavalca la montagna alla bocchetta di Ravinella e, dopo averne costeggiato il lago, giunge in vista della Val d’Ossola e scende a Megolo.
Qui, dopo aver rifiutato nuovamente la resa e la consegna delle armi, in un bosco di castagni in località Cortavolo, la mattina di domenica 13 febbraio sostiene l’attacco delle forze naziste e fasciste. Avrebbe potuto mettersi in salvo: non lo fa, con un gesto di coerenza che merita rispetto e silenzio. Lo scontro è rievocato in modo puntuale da Paolo Bologna nel suo saggio La battaglia di Megolo, del 1979: mentre i due lati dello schieramento partigiano riescono a sfilarsi senza perdite, gli uomini del Capitano, attestati in posizione centrale, non cedono, fino alla fine. «Filippo, – scrive Giuliana – già ferito al viso e alla testa, seguitava a sparare, a dare ordini ai suoi, che gli cadevano intorno a uno a uno. Le parole uscivano stente e confuse dalle sue labbra lacerate; finché cadde lui stesso, la gola aperta, in un lago di sangue».
Cadono, con Filippo Beltrami, il fedelissimo Antonio Di Dio (fratello di Alfredo), già ufficiale di carriera; l’avvocato di Monza Gianni Citterio; gli «amici nella breve giovinezza» Gaspare Pajetta (fratello minore di Giancarlo e Giuliano, entrambi partigiani e nel dopoguerra parlamentari comunisti), di diciotto anni, e Aldo Carletti, di ventuno; Angelo Clavena, socialista di Codogno; il diciottenne di Villadossola Emilio Toninelli e il diciannovenne Bortolo Creala di Borgomanero; e con loro Carlo Antibo, Bassano Bressani, Emilio Gorla, Paolo Marino.

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I corpi di Filippo Maria Beltrami e Antonio Di Dio sono portati a Cireggio, «a Megolo – scrive Paolo Bologna – restano le altre dieci salme che vengono accolte da una fossa comune su cui la gente del paese pone qualche fiore; a fine guerra verranno le famiglie a riprendersi i loro figli, ma due partigiani vi resteranno per sempre, i giovani Pajetta e Carletti».

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Nel minuscolo cimitero di Megolo, sulla tomba di Gaspare e Aldo, li ho pianti come fossero miei figli.
«Quel 13 febbraio a Megolo il movimento partigiano non è morto, da quel giorno al maggio 1945, quando i soldati alleati da una parte del fronte, quelli sovietici dall’altro, apriranno con le lacrime agli occhi i cancelli dei lager dello sterminio e della vergogna, i nazisti dovranno fare ancora e duramente i conti col movimento di Resistenza in tutta Europa e in quest’ultimo angolo di mondo che si chiama Val d’Ossola. Anzi, proprio qui, di lì a pochi mesi i signori della guerra subiranno l’umiliante beffa della liberazione della vallata, e saranno gli stessi ufficiali tedeschi e i loro alleati fascisti, che a Megolo hanno cantato vittoria, non sapendo quanto si sarebbe rivelata effimera, a dovere subire l’iniziativa dei “ribelli della montagna”». (Paolo Bologna)

 

 

 

 

Articolo di Laura Coci

y6Q-f3bL.jpegFino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Insegna letteratura italiana e storia ed è presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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