Il 3 febbraio è andata in onda su RaiUno l’ultima puntata di una bella fiction, La guerra è finita, liberamente ispirata alla vicenda di un gruppo di circa 800 bambini/e e adolescenti ebrei rimasti orfani e sopravvissuti alla guerra e ai campi di sterminio nazisti, alle marce della morte verso Mauthausen, Gusen, Dachau, Auschwitz, Bergen Belsen, che tra il 1945 e il 1948 furono ospitati a Selvino, nella Val Seriana, in un edificio noto col nome di Sciesopoli, ex colonia per i figli dell’élite fascista milanese. Dal 1945, dopo la Liberazione, Sciesopoli diventa luogo di accoglienza per questi ragazzi/e, che lì compiono un percorso di rinascita e riappropriazione delle loro radici identitarie ebraiche, di recupero fisico e psicologico dopo le atrocità dell’inferno a cui erano sopravvissuti, un percorso di nuova vita per essere poi pronti ad andare in terra d’Israele. La violenza aberrante e gratuita perpetrata dai carnefici nazisti e fascisti non ha spiegazioni logiche e si inorridisce di fronte ai cadaveri di donne, uomini, anziani e anziane sterminati dalla follia della perfetta macchina della morte del Reich. Ma se si pensa ai tanti innocenti e indifesi bambini e bambine, l’orrore scorre maggiormente pungente nelle vene e la commozione diventa incontrollabile, come è accaduto a me di fronte alla narrazione televisiva delle terribili esperienze che i bambini della Shoah hanno vissuto.
Mi è tornata così alla mente una storia di speranza, di altruismo, di amore, nel buio più pesto per l’umanità, la storia di una giovane donna coraggiosa, che si è spesa con ogni mezzo a sua disposizione e con tutte le sue forze per salvare tanti di quei bambini e bambine da una fine crudele e senza senso, una donna che non ha avuto per un attimo esitazione alcuna in ciò che faceva, nemmeno a costo di perdere la sua stessa vita. Mi sono detta che donne così val la pena di cercare, seguire, imitare. Se volessi, infatti, stilare un elenco di donne che assurgano a modelli da seguire, sicuramente nelle prime posizioni collocherei il nome di questa donna, Irena Krzyżanowska Sendler. Nata il 15 febbraio 1910 in una famiglia cattolica di orientamento socialista, il gene dell’altruismo e del rispetto dei diritti umani Irena l’ha sin dall’infanzia, quando cresce con un padre medico che muore di tifo contratto da pazienti, per lo più ebrei, che i suoi colleghi si erano rifiutati di curare. Irena riceve poi aiuto per gli studi dai componenti della comunità ebraica, riconoscenti per le cure ricevute. Lei stessa all’università si oppone alla ghettizzazione delle e degli studenti ebrei e viene espulsa per tre anni. Trasferitasi a Varsavia nel 1939, quando già Hitler ha occupato militarmente la Polonia, Irena diviene assistente sociale e si adopera incessantemente per aiutare numerose famiglie ebree a fuggire, fornendo loro documenti falsi. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale la giovane ha ventinove anni e lavora come assistente sociale per l’amministrazione comunale, e, con il supporto del direttore del dipartimento (che per questo verrà deportato ad Auschwitz), presta soccorso alle e agli Ebrei, oggetto di ogni tipo di discriminazione da parte dell’autorità nazista occupante.

Nel 1942 entra a far parte della resistenza polacca con il nome di Jolanta, nel movimento clandestino cattolico Zegota, (Consiglio per l’aiuto agli Ebrei), che le affida il compito di salvare i bambini e le bambine ebree del ghetto, dal quale già più di 280 mila persone erano state deportate a Treblinka. Il Consiglio per l’aiuto agli Ebrei, fondato nel dicembre 1942 e guidato dal socialista Jan Grobelny, è l’organizzazione più vicina alle sofferenze degli Ebrei, e riceve fondi da organizzazioni ebraiche come il Bund e il Jewish National Fund. Dopo la distruzione del ghetto, con l’aumento vertiginoso delle persone ebree di cui occuparsi, Zegota incontra grosse difficoltà nel finanziamento.
Treblinka, Belzec e Sobibor sono i cosiddetti “campi della morte”, la macchina dello sterminio dotata di camere a gas e fosse comuni in cui accumulare cadaveri, diretta da Odilo Globocnik, che inghiotte deportati e deportate dei ghetti urbani, come previsto dall’operazione del Reich nota come “Aktion Reinhard”, dal nome di Reinhard Heydrich, assassinato dai partigiani cecoslovacchi in un attentato nel giugno 1942.

In Polonia i ghetti sono creati nei distretti di Cracovia, Varsavia, Radom, Lublino e Leopoli, nel Governatorato generale, la zona della Polonia orientale non direttamente annessa alla Germania, ma sotto diretto controllo tedesco. Il ghetto di Varsavia è creato a partire dall’agosto 1940 e ci vivono circa 500.000 persone, quasi la metà dell’intera popolazione cittadina, in una superficie equivalente a circa un ventesimo dell’intero territorio urbano. Gli Ebrei nel ghetto sono isolati e privati di tutto, costretti a sopravvivere in condizioni miserrime, senza elettricità, gas, comunicazioni, con razioni alimentari giornaliere da fame: ai Tedeschi spettano 2310 calorie al giorno, agli Ebrei 184. Circa 100.000 ebrei ed ebree muoiono di stenti, di fame, di maltrattamenti, e dal 1942 è avviata la “soluzione finale”, ovvero il rastrellamento e la deportazione al campo di Treblinka, dove sono assassinate quasi 300.000 persone. Il 18 gennaio 1943, di fronte all’ennesimo rastrellamento, un gruppo di resistenti fa fuoco contro le SS, ingaggiando una rivolta che, sebbene sedata, dà non poco filo da torcere ai generali del Reich, impegnandoli in una vera e propria battaglia che dura fino al mese di maggio, quando il generale Jürgen Stroop dichiara la totale distruzione del ghetto.

È questo il terribile scenario in cui Irena compie la sua azione di salvataggio di circa 2500 bambine e bambini del ghetto, destinati a morte certa. Li salva in diversi e disparati modi: facendosi passare per una tecnica di condutture idrauliche e fognature, entra nel ghetto con un furgone nel quale nasconde i neonati nelle casse degli attrezzi e i bimbi più grandi in sacchi di juta, accompagnata da un cane che abbaia per evitare che i nazisti sentano i pianti infantili. I più piccoli sono portati fuori dal ghetto dentro ambulanze o altri veicoli. Spesso sono addormentati con sonniferi e rinchiusi in un sacco o in una cassa per passare nella parte ariana, facendo credere alla Gestapo che si tratti di morti per tifo. Altri sono nascosti dentro le ambulanze in borsoni e valigie; Irena sa che non sarà perquisita a fondo perché lavora a contatto con malattie contagiose. Quanto deve essere stato difficile e doloroso convincere le madri a separarsi dai loro figlioletti e figliolette, quanta fatica deve avere vissuto nel convincere le famiglie che quella separazione è necessaria per la salvezza dei loro piccoli.
Fuori dal ghetto, Irena fornisce a bambine e bambini documenti falsi, le/i affida a famiglie cristiane o a conventi cattolici e seppellisce gli elenchi con i veri nomi nel giardino della sua amica Jadwiga Piotrowska, in Via Lekarska 9. Tra le sostenitrici della coraggiosa opera di Sendler c’è anche Stanisława Bussoldowa, che aiuta le ebree a partorire nel ghetto e che nel 1942 accoglie nella sua casa una bambina di soli sei mesi, salvata in una scatola di legno: Elżbieta Ficowska, figlia di Henia Koppel Rochman e Josel Koppel.
Dopo la rivolta del ghetto nel 1943, Irena diviene direttrice del dipartimento di Zegota, ma nell’ottobre dello stesso anno è arrestata dalla Gestapo e sottoposta a violente torture che le provocheranno danni permanenti alle gambe. Condannata a morte e reclusa nel carcere di Pawiak, ne esce grazie alla grossa somma di denaro che l’organizzazione Zegota offre a un ufficiale nazista per corromperlo. Continua a vivere in clandestinità con il nome di Klara Dabrowska, ma non interrompe la sua collaborazione con Zegota.
Con la fine della guerra la vita di Irena non torna del tutto alla normalità, perché, ritenuta sovversiva, è messa sotto osservazione dai Servizi di sicurezza comunisti con l’accusa di favorire la clandestinità di membri dell’Esercito Partigiano. Nel 1949 è arrestata e violentemente interrogata dalla polizia segreta: è incinta e in carcere perde il bambino, nato prematuramente. Nel 1948 si iscrive al Partito operaio unificato polacco, da cui fuoriesce vent’anni dopo in segno di protesta per le repressioni contro studenti ed intellettuali e per la campagna antisemita lanciata dal governo. Nel 1965 è riconosciuta dallo Yad Vashem di Gerusalemme, memoriale della Shoah in Israele, come una Giusta tra le Nazioni, e la sua lista, due volte più lunga di quella di Oskar Schindler, è lì custodita. Davanti alla Commissione per la nomina dei Giusti delle Nazioni, testimonia anche Teresa Tucholska-Körner il cui vero nome è Chaja Estera Stern, la prima bambina di cui si era occupata Irena, nascondendola in casa sua dopo la distruzione del ghetto di Varsavia.
Nel 2003 riceve la più alta decorazione civile della Polonia, l’Ordine dell’Aquila bianca, e il premio Jan Karski “per il coraggio e il cuore”, assegnatole dal Centro americano di cultura polacca a Washington.

Nel 2006 l’associazione “I figli dell’Olocausto”, insieme al Ministero degli Esteri, dà vita al premio “Irena Sendler” per aver reso migliore il mondo.
La storia di Irena è rimasta sepolta nell’oblio per tanti anni, fino a quando nel 1999 tre studentesse di una scuola del Kansas – su impulso del loro insegnante, il prof. Norman Conard, che dà loro un articolo del 1994, intitolato The others Schindler – contribuiscono a riportarla alla luce, grazie alla messa in scena di un’opera teatrale intitolata La vita in un barattolo e alla creazione del progetto omonimo con l’obiettivo di diffonderne la storia.

Fino all’ultimo suo respiro Irena non ha fatto altro che ripetere: «Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria. Avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai».
Irena si spegne il 12 maggio 2008, a novantotto anni, ed è sepolta a Varsavia. A lei sono intitolate diverse strade nel mondo e uno spigolo per arrampicata in Val d’Aveto – Cima Janus Korczak (1626 m).


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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.