Lui, lei e l’altra: breve storia triste di Gemma Donati

Non deve avere avuto un’esistenza semplice e serena Gemma Donati.
Gemma…chi? Chi è costei? Forse qualcuno nel leggere il suo nome ci ha dovuto pensare un po’ prima di identificarla nella sua mente, o forse non la si è mai sentita particolarmente nominare. Eppure, essendo moglie di un uomo italiano altamente illustre e appartenendo lei stessa ad una famiglia che non passava certo inosservata a Firenze nel XIII secolo, avrebbe dovuto godere di altrettanta memoria. E invece di Gemma non si parla mai, se non in pochissime occasioni relegate a momenti di approfondimento critico e accademico.
Figlia di Manetto Donati, cugina di terzo grado di Corso, Forese e Piccarda Donati, Gemma era nata forse il 3 marzo 1265, stesso anno del suo sposo promesso, niente poco di meno che Dante, Dante Alighieri! Lui, il sommo poeta, idolo letterario di intere generazioni da sempre, l’autore dell’opera più letta, studiata, amata e tradotta al mondo dopo la Bibbia, un’opera che mette al centro più di ogni altra cosa l’amore, ogni forma di amore: quello di Dio per l’umanità e quello degli esseri umani per i propri simili.
Il destino di Gemma è quanto di più triste una donna si possa augurare. Promessa in matrimonio a Dante per interesse già dal 9 febbraio 1277, data vergata nell’atto notarile del fiorentino ser Oberto Aldovini, in cui si stabiliva anche la dote di Gemma in 200 fiorini, tra il 1285 e il 1290 la fanciulla si ritrovò sposata all’austero e in altre faccende affaccendato Dante, figlio di Alighiero di Bellincione di Alighiero, famiglia fiorentina di piccola nobiltà ma decaduta. L’unione con Gemma rappresentava il classico matrimonio combinato, promessi alla tenerissima età di dodici anni e con molta probabilità senza alcun fondamento d’amore, il che non è inusuale per l’epoca. Ma fin qui nulla di strano per una giovane in pieno Medioevo. Sarebbe stato un matrimonio ordinario come tanti, se non ci fosse stata la presenza incombente, ingombrante, strabordante di un’altra donna, l’unica che Dante amerà di amore assoluto e divinizzato: Bice, figlia di Folco Portinari, a noi nota, notissima come Beatrice. Per l’appunto. A noi notissima. Deve essere stato questo il vero grande dramma interiore di Gemma: la sua presenza di donna e moglie non ha avuto alcun riflesso nella vita e nella vasta opera di Dante. Non un cenno, non una menzione, ogni verso, ogni frase, ogni riferimento è rivolto alla donna che ha rapito Dante da quando aveva solo nove anni fino alla sua morte. Non solo: Beatrice era sposata a Simone de’ Bardi, ricco banchiere di Firenze, anche lei con un destino segnato dalla morte, probabilmente per il parto del primo figlio, essendo giovanissima, appena adolescente, quando viene, pure lei, destinata al matrimonio combinato.
A Beatrice il sommo poeta ha dedicato un intero – e meraviglioso – romanzo autobiografico, la Vita Nova, la sua presenza si intravede già nelle varie rime precedenti la Divina Commedia, è per lei che Dante ha la forza di attraversare la selva oscura della sua esistenza e di compiere un viaggio ultraterreno che lo porterà ad incontrarla, con sua immensa e indicibile gioia.
Insomma, un’intera esistenza, quella di Gemma, vissuta nel più totale nascondimento non volontario e nella rassegnazione, quella che accomuna gran parte delle donne del passato, non consce del tutto dei loro diritti ma ben istruite sui loro doveri verso il coniuge e verso il focolare domestico. Una rassegnazione che permette a Gemma di vivere accanto a Dante senza mai ribellarsi, a quanto ne sappiamo, e mettere al mondo ben tre figli certi e uno probabile: Pietro, Iacopo, Antonia e forse un Giovanni. E indovinate la beffa del destino? Iacopo e Pietro saranno i primi commentatori della Divina Commedia del padre, dopo aver a lungo cercato gli ultimi canti del Paradiso, che, secondo il racconto di Giovanni Boccaccio, Iacopo avrebbe ritrovato grazie a un sogno in cui lo stesso Dante gli rivelava il posto segreto della camera da letto in cui erano riposti. Avranno ovviamente, essendo uomini, carriere rispettabilissime: Pietro sarà giudice a Verona e Iacopo intraprenderà la carriera ecclesiastica. Antonia, invece, diventerà monaca forse nel convento delle Olivetane a Ravenna e assumerà il nome di suor Beatrice!
Non c’è stato modo alcuno per Gemma di lasciare un segno nel marito: nel mondo si vede / maraviglia nell’atto che procede / d’un’anima che ‘nfin quassù risplende; ogne lingua deven, tremendo, muta / e gli occhi non l’ardiscon di guardare, cosa venuta / di cielo in terra a miracol mostrare…sono solo alcuni dei versi che Dante dedica a Beatrice, come se Gemma non esistesse minimamente nel suo orizzonte di vita!
Di certo, non è una situazione strana per l’epoca essere sposati e non amarsi, ma sicuramente per questa coppia la situazione è andata ben oltre: non solo Dante e Gemma non si amavano, ma lui dichiarava apertamente nella Vita Nova di essere perdutamente legato ad un’altra donna che, seppur morta presto, era diventata baldanza d’Amore a segnoreggiare il cuore del poeta, restando per sempre la gloriosa donna de la sua mente, elevata al ruolo di santa nel Paradiso e consegnata alla memoria futura del mondo intero come la prima grande figura femminile della letteratura mondiale.
Nel momento più difficile della vita di Alighieri, ovvero l’esilio da Firenze, Gemma ebbe la concessione di rimanere in città insieme ai suoi figli. Una forma di riscatto la ebbe alla morte di Dante: il comune di Firenze le restituì l’equivalente della dote che le era stata sottratta con i beni del marito confiscati al momento della condanna a morte in contumacia. Una consolazione, seppur magra, ad una vita vissuta nell’ombra e nella nostalgia probabilmente di un amore mai vissuto, esempio di tante donne mai citate, cadute nell’oblio, che come lei nella storia hanno dovuto subire tutta l’ingiustizia di un mondo governato solo ed esclusivamente da una visione di stampo maschilista.

 

In copertina, “Henry Holiday, l’incontro immaginario fra Dante e Beatrice (con il vestito bianco) accompagnata dall’amica Vanna (con il vestito rosso), sul Ponte Santa Trinità in Firenze (1883)“

 

 

Articolo di Valeria Pilone

Pilone 400x400.jpgGià collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.

Un commento

  1. La misoginia caratterizza tutta la nostra storia. Alle donne non fu mai dato di scegliere la persona da sposare. Spesso neppure agli uomini che però poterono innamorarsi di altre, cosa a noi spesso negata o punita gravemente dal potere e dalla società.

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