La guerra santa dei pezzenti. Guccini e la Rivoluzione

Il lato politico di Francesco Guccini compare in varie canzoni.
Stagioni, pubblicata nel 2000, racconta di un tragico evento di molti anni prima, in «quel giorno d’autunno/in ottobre avanzato/con il cielo già bruno», un episodio accaduto lontano dall’Italia, «in terra boliviana», ma che scosse profondamente non solo il terzo mondo ma anche la sinistra europea e italiana in particolare.
«Ci prese come un pugno /ci gelò di sconforto /sapere a brutto grugno/che Guevara era morto».
Era il 9 ottobre 1967 quando el Che veniva fucilato in una scuola nel paesino di La Higuera, località Vallegrande, in Bolivia, dopo che una soffiata l’aveva fatto catturare, asmatico ferito e privo di munizioni, lasciato senza aiuti sovietici con qualche decina di compagni cubani. Trapela nel testo il dolore di un giovane universitario quando «tra sessioni d’esami/giorni persi in pigrizia e giovanili ciarpami/arrivò la notizia».
«Passarono stagioni/ma continuammo ancora/a mangiare illusioni/e verità a ogni ora».
Con il passare degli anni il lutto viene elaborato e nasce una nuova consapevolezza: «forza compagni allerta, si deve andare avanti/ E avanti andammo sempre con le nostre bandiere…».
Una canzone scritta decenni dopo è frutto anche di tutte le delusioni successive, una volta finiti «gli anni fatati di miti cantati e di contestazioni, […] i giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni».
A spegnere queste «belle illusioni» non sono state solo le disfatte politiche ma probabilmente anche la maturità e l’uscita dalla giovinezza: «qualcosa negli anni/terminò per davvero/cozzando contro agli inganni/del vivere giornaliero/e i compagni di un giorno/o partiti o venduti/sembra si giri attorno/a pochi sopravvissuti».
Eppure, superata la tristezza, Stagioni sembra dare spazio a un messaggio di speranza, quando la frase triste «Che Guevara è morto, mai più ritornerà» si trasforma prima in quella più mite «Che Guevara è morto, forse non tornerà» e poi in una sorta di profezia benevola: «da qualche parte un giorno/dove non si saprà/dove non lo aspettate/il Che ritornerà».

STAGIONI

Fondamentale per chi si espone politicamente nella seconda metà del Novecento è il rapporto con gli Stati Uniti. Il «vuoto mito americano» citato in Piccola città contrasta con «la scoperta di Hemingway» di Incontro: l’America è insomma un elemento ricorrente nei testi gucciniani e nei sogni della sua generazione. In 100 Pennsylvania Ave., canzone di fine anni Settanta scritta alla vigilia dell’elezione di Reagan alla Casa Bianca, l’America è trattata con sarcasmo, come la potenza imperialista e razzista di cui la donna un tempo amata è parte: «immagino tu e lui, due americani sicuri e sani/un poco alla John Wayne/portare avanti i miti kennedyani e far scuola agli indiani/amore e ecologia lassù nel Maine, […] fingendo o non sapendo proprio niente/di quello che può ancora far la CIA/santi dell’occidente/per gli USA e così sia».
Cirano è un testo del 1996 scritto insieme a Beppe Dati e Giancarlo Bigazzi. L’ispirazione è tratta ovviamente dal Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand, lo spadaccino della letteratura francese ottocentesca reso celebre dal suo naso lungo. Questo Cyrano, italianizzato nella scrittura e nella pronuncia in Cirano, oltre all’amore dolce e impossibile per la sua Rossana, acquisisce anche una connotazione politica e proclama il suo disprezzo nei confronti di alcune squallide figure attuali.
Siamo nella seconda metà degli anni Novanta ed è chiaro che frasi come «andate chissà dove per non pagar le tasse/col ghigno e l’ignoranza dei primi della classe» e ancora «feroci conduttori di trasmissioni false/che avete spesso fatto del qualunquismo un’arte/coraggio liberisti buttate giù le carte» sono rivolti alla società di Berlusconi e ai suoi valori di furbizia e di inganno.
Lo sfogo dello sfortunato Cirano prosegue: «io sono solo un povero cadetto di Guascogna/però non la sopporto la gente che non sogna» e poi ancora «non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato».
Alle espressioni di rabbia politica si alternano i versi d’amore dello spadaccino alla sua «dolcissima signora», come a voler alleggerire l’amarezza dell’insieme.

D'amore di morte...

In Addio, Guccini esprime la stessa rabbia ma in maniera più morbida. Non è il «non perdono e tocco» di Cirano, ma l’allontanamento, l’addio, indirizzato «a tutte le vostre cazzate infinite/a riflettori e paillettes delle televisioni/alle urla scomposte di politicanti e professionisti/a quelle vostre glorie vuote da coglioni».
Come in Cirano con i qualunquisti, anche in Addio Guccini attacca «chi non sceglie non prende parte non si sbilancia/o sceglie a caso per i tiramenti del momento/curando però sempre di riempirsi la pancia, […] chi si dichiara di sinistra e democratico/però è amico di tutti perché non si sa mai/e poi anche chi è di destra gli è simpatico/ed è anche fondamentalista per evitare guai».
Il brano è cantato «nell’anno novantanove di nostra vita» da un Guccini ormai maturo che però si definisce «eterno studente», saggio senza la presunzione di essere saggio,«perché la materia di studio sarebbe infinita e soprattutto perché so di non sapere niente».
Addio è un testo più morale che politico, di critica all’ipocrisia e alle nuove verità propagandate dalla televisione (è pubblicata nel 2000, in piena era berlusconiana), dove i valori sono quelli delle «modelle senza umanità, […] sempiterne belle in gara sui calendari» e dei «personaggi cicaleggianti del talk show che squittiscono a ogni ora un nuovo vero».
Ricordando però anche il mito della contestazione attraverso l’esoterismo, in cui pochi suoi coetanei hanno creduto davvero, il poeta non risparmia nemmeno le «magie di moda delle religioni orientali che da noi nascondono soltanto vuoti di pensiero».
Il testo è dedicato a un non meglio identificato «tu, ipocrita uditore, mio simile, mio amico».

Non può mancare un riferimento al più grande personaggio della letteratura spagnola, folle cavaliere nonché re degli utopisti e dei sognatori. Commenta lo stesso Guccini: «Gli autori magari muoiono o scompaiono, ma certi loro personaggi rimangono per sempre tra noi: […] mi piace pensare che, mentre Cervantes se n’è andato ormai da secoli, il suo personaggio cavalchi ancora nelle plaghe della Mancha». Ed ecco il suo tributo a Miguel De Cervantes Saavedra, Don Chisciotte.
La canzone è un dialogo tra el ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, coraggioso e visionario, e il suo leggendario scudiero Sancho Panza, pigro e realista, interpretato dall’argentino Juan Carlos “Flaco” Biondini, chitarrista della band che accompagna Guccini. Il dialogo è molto fedele al testo di Cervantes, senza dimenticare l’assalto ai mulini a vento scambiati per giganti e quello alle pecore «attaccate come fossero un esercito di mori», ma c’è una novità rispetto al testo del 1605: Don Chisciotte, oltre che folle, è caratterizzato da una grande sete di giustizia sociale e il «male» in questione è incarnato dal capitalismo. Come conclusione, il cavaliere e lo scudiero smettono di discutere e raggiungono un improbabile accordo: «il potere è l’immondizia nella storia degli umani/e, anche se siamo soltanto due romantici rottami/sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte/siamo i grandi della Mancha Sancho Panza e don Chisciotte!».

Don Chisciotte

«Lanciata bomba contro l’ingiustizia» è il verso con cui da sempre Francesco Guccini chiude ogni concerto, polo opposto della facile Canzone per un’amica che apre i concerti con la frase «lunga e diritta correva la strada». La locomotiva è forse la sua opera più celebre, una bellissima ballata che canta il gesto estremo simbolo della lotta di classe.
«Non so che viso avesse neppure come si chiamava» è l’apertura del poema, anche se è stata scritta alla fine, l’ultimo tassello aggiunto a un puzzle militante già poeticamente completo e perfetto. Non so che viso avesse è anche il titolo che Guccini darà alla propria autobiografia, edita nel 2010 da Mondadori, che in copertina ha proprio una locomotiva. In realtà, come si chiamasse il protagonista della canzone lo sappiamo: Pietro Rigosi, ferroviere anarchico, che il 20 luglio 1893 partì su un locomotore fermo presso Poggio Renatico con l’intenzione di colpire un treno di lusso in transito da Bologna ma fu poi deviato su un binario morto. La fine gucciniana della vicenda non corrisponde alla verità storica: Rigosi, sopravvissuto, fu licenziato dal lavoro formalmente per motivi di salute e fatto passare per pazzo e non per anarchico, onde evitare che il movimento operaio simpatizzasse con lui e che altri ripetessero il suo gesto. Erano gli anni della crisi di fine secolo, dominati da quel «mito di progresso lanciato sopra i continenti» che schiaccia le fasce sociali più deboli. E molto spesso il treno, «un mostro strano» che «sembrava avesse dentro un potere tremendo, la stessa forza della dinamite», simboleggia questo progresso dannoso: si pensi ad esempio ai dipinti di William Turner o alla poesia Il treno di Giosuè Carducci, in cui la macchina a vapore è definita «bello e orribile mostro».
Non è facile giudicare il lato umano di Pietro Rigosi mentre «salì sul mostro che dormiva e cercò di mandar via la sua paura», ma il cantautore emiliano umano lo è sempre e, tentando di spiegare i motivi di un gesto così forte, ipotizza «forse una rabbia antica, generazioni senza nome che urlarono vendetta e gli accecarono il cuore»; non c’è un giudizio morale verso chi «pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto», eppure lo stesso Guccini fa notare che il suo protagonista «dimenticò pietà, scordò la sua bontà». I pensieri dell’uomo-ferroviere però non si sentono, sono coperti dal sibilo del vapore mentre la locomotiva corre «sempre più forte» (e sembra che la chitarra acceleri insieme al treno) e «sembra quasi cosa viva», una cosa viva che lancia un messaggio potentissimo: «sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria: fratello non temere che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria!”».
Nello schianto finale della locomotiva sembra accendersi «la bomba proletaria che illuminava l’aria, la fiaccola dell’anarchia». Anni dopo Giorgio Gaber dichiarerà che chiunque riesca a scrivere tredici strofe su una locomotiva è un grande autore. E con La locomotiva, composta nel 1972, Guccini si fa cantore della lotta di classe, anzi della «guerra santa dei pezzenti».
«E che ci giunga un giorno ancora la notizia…»

LOCOMOTIVA GUCCINI

 

 

Articolo di Andrea Zennaro

4sep3jNIAndrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.

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