Lo ammetto, preferisco orientarmi secondo mappe «figurabili», riflesso dello spazio circostante. Non amo i navigatori satellitari e i sistemi di posizionamento GPS e, infatti, nella tasca dello sportello della macchina ancora conservo un arrotolato, spiegazzato e pluridecennale stradario cartaceo – Tuttocittà – passato da un’automobile posseduta all’altra. Nel libro di Deirdre Mask Le vie che orientano. Storia, identità e potere dietro ai nomi delle strade, edito da Bollati Boringhieri, si legge che nell’antica Roma si procedeva allo stesso modo, guidati da ciò che si incontrava, un tempio, un porticato, una bottega, un albero. Mappe «figurabili», anzi vere e proprie sinestesie scrive Deirdre Mask, in cui vista e olfatto guidavano contemporaneamente i passi umani. «La vita a Roma era un attacco continuo ai sensi. […] Per orientarsi, si poteva seguire il naso. Prima i cattivi odori: escrementi gettati sui marciapiedi; urina… corpi sudati, bancarelle del pesce […], carcasse, interiora lasciate a marcire nelle strade. Ma poi arrivavano anche odori gradevoli: profumi fatti con grasso di bue impregnato di petali di fiori ed erbe aromatiche, pane appena sfornato, sbuffi di incenso, carne arrostita al fuoco.» Con le dovute proporzioni, ancora oggi in città ci si muove attraverso odori, non sempre gradevoli e dominati dall’inevitabile smog. Indicare le strade secondo modalità descrittive è restata prassi per secoli e secoli ed ecco allora le frequenti “via della chiesa”, “via delle mura”, “largo del lavatoio”, “piazza del mercato” in piccoli e grandi centri di gran parte d’Europa.
L’odonomastica diviene una questione di potere in tempi più recenti. A Parigi, negli anni successivi alla Rivoluzione del 1789, si volle ridisegnare il volto della città ricca di testimonianze dell’Ancient régime. Non potendola radere al suolo, i vecchi palazzi aristocratici furono trasformati in edifici pubblici e le strade rinominate. I loro nomi per la prima volta divennero emblemi di ideologia e potere, «banderuole esposte ai venti della politica» e per questo destinate a breve vita visto che, mutato il clima storico-politico, si è sempre provveduto a cambiare le denominazioni stradali. In Croazia l’arteria principale di Vukovar ha mutato il proprio nome ben sei volte nel corso del Novecento; in Italia, dopo la caduta del fascismo, si sono riviste le scelte odonomastiche del regime così come, in Ucraina e Polonia, sono state emanate leggi volte a «decomunistizzare» i toponimi in uso.
In Spagna, grazie l’articolo 15 della Legge della memoria storica del 2007, le amministrazioni locali hanno potuto eliminare i riferimenti «di esaltazione personale o collettiva della sollevazione militare della guerra civile e della repressione della dittatura» e cambiare i nomi delle vie e delle piazze intitolate a personaggi del franchismo; in alcune realtà urbane spagnole si è cominciato a dedicarle anche a figure femminili di rilievo, cercando di colmare il gender gap presente nell’odonomastica di tutto il mondo. Ultimamente, però, lo stesso articolo 15 sta permettendo una revisione al contrario. L’amministrazione cittadina di Madrid, di cui fanno parte il Partito Popolare, Ciudadanos e il partito di estrema destra Vox, vuole cancellare le strade dedicate agli antifascisti e antifranchisti Francisco Largo Caballero e Indalecio Prieto. È notizia di questi giorni. Secondo i rappresentanti di Vox, sia Largo Caballero che Prieto contribuirono a consegnare armi ai militanti e non ignorarono le violenze compiute dai gruppi combattenti. Una vera e propria revisione storica della guerra civile e dei suoi protagonisti contro la quale si stanno muovendo organi di stampa e intellettuali, oltre al Psoe.

Costruire un nuovo Stato e un nuovo modo di pensare passa anche attraverso le scelte odonomastiche. In Sudan l’uscita dalla dittatura e l’avviamento di un processo di trasformazione nella società ha comportato il cambiamento dei nomi delle vie, che sono state intitolate alle persone morte durante la rivolta contro il dittatore Omar al-Bashir. In Cina, durante la Rivoluzione Culturale, il Partito Comunista ha utilizzato i nomi delle strade come strumento di propaganda, vietando però l’intitolazione alle persone. Quindi sì a «via della Guardia Rossa», ma nessuna strada dedicata a Mao Zedong e, precisa Deirdre Mask, i nomi delle vie sono diventati uno strumento per tenere sotto controllo le minoranze etniche e religiose. Nelle regioni con lingua e cultura autonoma «ci si aspetterebbe più varietà nei nomi delle strade, ma […] è vero il contrario: le regioni con una maggiore concentrazione di minoranze etniche hanno toponimi più simili a quelli di Pechino rispetto ad altre regioni».
Nel capitolo che l’autrice dedica a Berlino, la narrazione diventa più drammatica e dolorosa. In Germania erano moltissimi i nomi delle vie, delle piazze, dei vicoli contenenti la parola «ebrei», tutti cambiati durante il nazismo e reintrodotti dopo la fine della guerra. Alcune di queste strade si trovavano nei centri urbani, dove le famiglie ebree avevano i loro negozi e le loro attività; altre erano ai margini degli abitati, segno evidente che non era loro concesso vivere e muoversi nei centri urbani; altre ancora si trovavano in aree rurali. Gli Judenpfade (sentieri degli ebrei) e gli Judenwege (cammini degli ebrei), ora un misto di immersione nella natura e di viaggio nella memoria per visitatrici e visitatori, mantengono la memoria dei movimenti e dell’esistenza della popolazione ebraica in Germania, testimonianza delle attività di venditori ambulanti, commercianti di tessuti e di bestiame in tempi in cui alle donne e agli uomini ebree/i era consentito girare intorno ai centri urbani, non farvi ingresso. Dopo l’avvento al potere di Hitler i nomi di queste strade furono cancellati e, scrive Deirdre Mask, «man mano che le vie degli ebrei cambiavano nome, anche la mappa dei luoghi in cui gli ebrei potevano muoversi cambiava». Nel settembre 1933 le autorità cittadine di Rothemberg, per esempio, vietarono a donne, uomini, giovani, vecchi ebrei di passare per la piazza intitolata al fuhrer, quasi fossero capaci di contaminare uno spazio “sacro”. Divennero illegali le intitolazioni a importanti personalità di origine ebrea e furono cancellate, insieme a molte altre, le intitolazioni a Gustav Mahler; non si salvò, ad Amburgo, l’intitolazione a Heinrich Hertz, definito «un mezzo ebreo», la cui scoperta delle onde elettromagnetiche non fu sufficiente a salvarne la memoria. «Mentre sparivano dalla Germania, gli ebrei stavano anche scomparendo dalla segnaletica urbana», conclude Mask.
A guerra finita, la ridenominazione delle strade fu uno dei punti centrali del nuovo corso politico voluto dalle quattro potenze vincitrici e, ancor prima della costruzione del muro, si videro gli approcci differenti. Nella zona di influenza di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia le intitolazioni naziste furono cancellate ma, invece di commemorare i nomi di quante/i si erano opposti alla barbarie nazista, si scelse di ritornare alle denominazioni del passato, come se dittatura e guerra non fossero esistite. Nella zona di influenza sovietica, al contrario, si vollero celebrare uomini e donne della resistenza contro il nazismo e anche intitolare vie ad artisti, filosofi, politici vicini al comunismo.
Un ulteriore cambiamento si è avuto con la riunificazione delle due Germanie, dopo la caduta del muro. Scrive Deirdre Mask che nel 1991 «il Senato di Berlino propose di cambiare i nomi di decine di strade che ricordavano comunisti, combattenti della guerra civile spagnola, poeti, romanzieri e membri della resistenza». Fu cancellata l’intitolazione al giovane Artur Becker, morto in Spagna per mano dei fascisti, e al suo posto venne scelta la più antica denominazione di Kniprodestraße, in ricordo del cavaliere teutonico Winrich von Kniprode, vissuto nel Trecento, conquistatore di territori a est dei confini tedeschi. Karl Marx Platz tornò a essere Palaisplatz (piazza del palazzo) e Friedrich Engels Straße fu trasformata in Köningstraße (via del re). A Dresda la piazza dedicata a Julius Fučík, giornalista e leader comunista impiccato dai nazisti, prese il nome “neutro” di Straßburger Platz. La percezione è che «la riunificazione delle due Germanie non fu una fusione, ma un’“annessione”. […] Tra tutte le città del mondo, Berlino è sicuramente una di quelle con la storia più tumultuosa, passata in meno di un secolo dai prussiani alla Repubblica di Weimar, dal nazismo alla guerra fredda» e «i toponimi sono “sostanza e metafora della lotta sostenuta da Berlino per trovare la propria identità”».
E l’identità della città è in divenire, in un continuo confronto col passato. Nel “quartiere africano” di Berlino, l’Afrikanisches Viertel, le vie ricordavano i nomi di coloro che, guidando il processo di colonizzazione tedesca in Africa, furono coinvolti in numerose azioni di violenza, dalla distruzione dei villaggi, agli stupri e alla schiavizzazione di migliaia di donne e uomini. Per anni alcune associazioni tedesche si sono battute per modificare i nomi di quelle strade, non sempre ricevendo consenso tra la cittadinanza. Per questo motivo a partire dal 2018, il governo tedesco ha preso la decisione di intitolare quelle aree urbane ad attivisti che combatterono contro i colonizzatori tedeschi per la liberazione dei territori africani.

Alcune volte le suggestioni di una storia e di un personaggio possono superare i confini nazionali, la forza evocativa di un nome diventa così potente da entrare di diritto nella storia di un altro popolo. Nel 1981 quando Bobby Sands, attivista dell’IRA eletto al parlamento britannico, morì in carcere in seguito a un prolungato sciopero della fame, alcuni giovani iraniani incollarono un cartello, del tutto simile alla segnaletica viaria di Teheran, sopra la targa che riportava il vero nome della via, Winston Churchill Street. Non era una via qualsiasi, era l’indirizzo dell’ambasciata della Gran Bretagna. Una bella provocazione contro il governo britannico, che il popolo iraniano riteneva responsabile dei lunghi anni di dittatura e di un colpo di stato, nel 1953, contro il governo democraticamente eletto, reo di voler nazionalizzare la compagnia petrolifera anglo-iraniana. L’odio nei confronti degli inglesi accumunava le comunità cattoliche nordirlandesi e quelle iraniane, i ragazzi iraniani si rispecchiarono in quel gesto estremo, nell’atto di ribellione di Bobby Sands. Probabilmente ci furono tentativi di staccare il cartello, ma i giovani teheraniani avevano fatto il lavoro con maestria e la nuova segnaletica resse. In breve, senza che ci fosse ancora una delibera delle autorità locali a ufficializzare il nuovo indirizzo, la via dell’ambasciata britannica divenne “Bobby Sands Street”. L’intitolazione spontanea, partita dal basso, di una strada a Bobby Sand non era solo il nome di una via, si trasformava in monumento celebrativo.
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Articolo di Barbara Belotti

Già docente di Storia dell’arte, si occupa ora di toponomastica femminile, storia, cultura e didattica di genere e scrive per diverse testate e pubblicazioni.Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Toponomastica del Comune di Roma.