Lidia Menapace se n’è andata. Il maledetto virus si è portato via anche lei.
Come abbiamo scritto nel saluto che le abbiamo dedicato come IFE Italia, non voglio parlare di lei al passato perché restano con noi la sua forza, la sua ironia, la sua instancabile dedizione alla costruzione di un mondo migliore. Instancabile Lidia lo era per davvero, letteralmente. Se quello che le si proponeva le sembrava intelligente fosse pure un dibattito, una manifestazione, un incontro politico fra amiche femministe, un presidio, lei saltava sul primo treno e da Bolzano raggiungeva il resto del mondo. Partecipava alle iniziative con l’entusiasmo e la curiosità di una fanciulla, e soprattutto con semplicità senza “tirarsela” benché avrebbe potuto farlo.
Ricordo che una volta le chiesi cosa le sarebbe piaciuto che le regalassimo per ringraziarla di aver accettato l’invito a un incontro comasco, in una delle tante campagne elettorali che mi son trovata a vivere, e lei mi rispose che amava i libri gialli perché le tenevano compagnia in modo discreto, ma intrigante nelle tante ore che passava sui treni per spostarsi da una parte all’altra del Paese. Un giallo, semplicemente. Quando la si aspettava in una qualsiasi stazione la potevo scorgere mentre scendeva dal treno e poi raggiungerti con il suo passo da montanara e il suo sorriso sulle labbra e negli occhi. Ti faceva capire che era lì non solo per intervenire a una iniziativa ma per mantenere viva una relazione d’amicizia. Per lei il “personale è politico” non era uno slogan ma un modo d’essere. Con Lidia si poteva parlare di tutto, anche di cose minute perché amava la vita nella sua interezza e senza “puzza sotto il naso”. Ricordo in particolare una mattina a casa mia insieme a Haidi Giuliani (le avevamo ospitate entrambe dopo un’iniziativa sulla mattanza di Genova in occasione del G8) quando passammo del tempo sul balcone a guardare il panorama, con lei che chiedeva a mio marito come si chiamasse il paesino che si intravedeva più sotto o la montagna che si vedeva all’orizzonte…
«Lidia non è mai stata una madre simbolica o una madre badessa e nemmeno una grande madre» come scrive giustamente Rosangela Pesenti, in un suo appassionato ricordo di Lidia. Non è un caso che fosse circondata da un affetto infinito. Si poteva essere d’accordo con lei oppure no sul piano teorico o politico, ma questo non scalfiva di un millimetro l’amicizia che ti legava a Lidia. Perché era una compagna autentica. E proprio perché autentica Lidia non è mai stata accondiscendente come quando rispondeva in modo deciso, a volte brusco, ogni qualvolta ritenesse fosse il caso. Leggendario il suo rifiuto a essere indicata come ex-partigiana, visto che lei si sentiva ancora tale.

In questi giorni moltissimi articoli ne hanno ricordato la biografia. Non sto a ripeterla. Voglio però sottolineare come il percorso teorico e l’impegno di Lidia siano caratterizzati da una grande curiosità di itinerari culturali e di relazioni umane. La si ricorda, giustamente, per la partecipazione, come staffetta, alla Resistenza, per l’insegnamento letterario alla Cattolica di Milano o ancora per l’impegno nel PdUP (dopo che lasciò spontaneamente la Democrazia Cristiana) e nel “Manifesto” quotidiano che fondò insieme, in particolare, a Rossana Rossanda e Luciana Castellina, donne “eretiche” come lei. Credo però che i punti più salienti della sua avventura di vita siano da una parte la ricerca di alternativa e di rinnovamento delle categorie di pensiero nel marxismo e del rapporto di quest’ultimo con il cristianesimo e dall’altra, ancor più appassionatamente, la teoria e la pratica femminista che ha fatto di lei un riferimento ineludibile per tante generazioni di donne. Conobbi Lidia Menapace quando, da giovane aclista che si sentiva stretta dentro la dimensione cattolica, incontrai la “teologia della liberazione”, in particolare, gli scritti di Leonardo Boff, che mi permisero di “scoprire” quanto la povertà non fosse un dato “naturale”, ma un prodotto di un sistema economico e di un modello sociale, quello capitalista, fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sulla logica del profitto e sulla gerarchizzazione della società. E così partecipai, affamata di sapere, a un corso sul marxismo tenuto da un padre francescano in una parrocchia comasca di periferia, che mi permise di capire meglio la realtà che mi circondava. Ma compresi anche che ancora mi mancavano dei link, che mi serviva ancora dell’altro, e cioè che accanto all’analisi oggettiva dei rapporti sociali fosse necessario comprendere la materialità dei soggetti in gioco. E incontrai il femminismo, in particolare quello interessato a confrontarsi con il marxismo, e alcune intellettuali con le quali avrei iniziato un lungo percorso, personale e politico, che continua ancora oggi. Una di queste fu, per l’appunto, Lidia Menapace. Ricordo che la contattai, ci siamo piaciute e da allora siamo sempre rimaste in contatto condividendo innumerevoli iniziative, manifestazioni, dibattiti.
L’ultimo ricordo che ho di lei è legato all’invito che le rivolgemmo come IFE Italia, l’associazione femminista in cui sono impegnata, chiedendole se fosse interessata a discutere con noi del “manifesto femminista” (“Parole manifeste per donne di conflitto”) che avevamo appena redatto (dopo un lungo lavoro di confronto e dibattito al nostro interno, durato quasi due anni). Lidia accettò l’invito di buon grado ringraziandoci per aver pensato a lei. Ci incontrammo a Milano, discutemmo appassionatamente e animatamente come si conviene fra amiche e compagne sincere. L’incontro venne poi suggellato da un gustoso pranzetto nel quale non mancò un buon calice di vino rosso, come piaceva a Lidia. Alla fine ci invitò a continuare il nostro impegno politico e femminista. Glielo promettemmo.
Mi convinceva molto il suo approccio teorico secondo il quale per cambiare il mondo non sarebbe bastato superare le differenze di classe se insieme non si fosse lottato per il superamento di ogni ruolo sociale gerarchico e di potere che si riproduce nella società. Lidia allora, eravamo agli inizi degli anni ‘80, auspicava che bisognasse «trovare una dialettica che si alimentasse di molti poli di diversità reali, fondate, autonome e non riducibili, nemmeno in ultima analisi, le una alle altre», esponendo la tesi di «una multipolarità dialettica, di un modello mentale multiverso, di una visione del mondo davvero democratica perché fondata su diversità non riducibili e su parzialità universali». E il femminismo poteva dare conto di queste diversità non riducibili e di questa parzialità universale. Beatrice Aliverti, una mia carissima amica, femminista e compagna, mi ha ricordato in questi giorni un pensiero di Lidia che spiega bene il “suo” femminismo: «La mia mamma ci ha insegnato a essere economicamente indipendenti e poi a fare quel che si vuole. I mariti si possono trovare, lasciare, si può prenderne un altro, ma non bisogna mai chiedere loro i soldi per comprare le calze. Non si può essere indipendenti di testa se non lo si è nei piedi» Un femminismo concreto, vivo, che Lidia non ha mai tradito, né rimosso, né dimenticato pur continuando a frequentare i luoghi misti della politica.
Ecco, per questo credo che l’eppur bisogna andar… valga anche per noi, anche se ora ci sentiamo tristi. Dobbiamo continuare ad andare per mantenere la promessa fatta a Lidia e a noi stesse. E allora, ciao Lidia, ora che sei nella vastità dell’universo, sappi che quello che ci hai lasciato resterà con noi. Per sempre.
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Articolo di Nicoletta Pirotta

Attiva in campo associativo, sindacale e politico: il filo rosso che ha legato questi ambiti è stato ed è l’impegno femminista. Sono stata fra le fondatrici dell’Assemblea Permanente delle donne della Funzione Pubblica CGIL di Como e, in Italia, della Marcia Mondiale delle donne. Con il Prc sono stata eletta per due mandati consecutivi nella Commissione Pari Opportunità di Regione Lombardia. Dal 2008 sono attivista di IFE Italia e nella rete europea di “Feminists for Another Europe”.