A girare per New York ci si sente subito in confidenza con la città. Molto è dovuto al fatto che abbiamo visto un’infinità di film ambientati là e appena si arriva ci si trova in un déja vu, e si pensa: ma è proprio come al cinema! Ci sono davvero i carrettini di venditori di hot dog, i bar bui e vagamente equivoci, le aree per giocare a pallacanestro circondate da rete metallica, i diner dove mangiare uova strapazzate e pancetta a qualunque ora, la gente che cammina veloce con i bicchieroni di polistirolo pieni di caffè bollente, gli artisti e le artiste di alto livello che suonano nella metropolitana, i ristoranti di tutte le gastronomie del mondo, gli ebrei ortodossi tutti in nero coi riccioloni, e i grattacieli sono davvero proprio alti, mamma mia quanto sono alti! L’unica cosa strana è che per strada non incontri Robert De Niro (e, sì, Woody Allen che il lunedì suona il clarinetto al Carlyle con la sua band di vecchietti lo puoi pure andare a sentire, ma fra ingresso e consumazione partono almeno 150 dollari. Be’, è l’America, no?). Ma forse il motivo principale della facilità con cui si gira per le città statunitensi è che, quasi dappertutto, si sa esattamente dove si è. A Manhattan si imparano subito i punti cardinali: le strade chiamate Est stanno a Est e quelle chiamate Ovest stanno a Ovest, e certamente dopo la Quindicesima c’è la Sedicesima. Dare appuntamenti è facilissimo, molto più che a Milano o a Vienna dove, con tutti quei viali circolari, si finisce sempre col perdere la bussola.

Nel bel libro di Deirdre Mask Le vie che orientano. Storia, identità e potere dietro ai nomi delle strade, già presentato da Sara Marsico nel numero 90 di Vitaminevaganti e da Barbara Belotti nei numeri 91 e 92, i capitoli dedicati agli Stati Uniti sono godibilissimi e pieni di notizie di prima mano. Mask, che vive a Londra, è un’avvocata e scrittrice nata e cresciuta negli Stati Uniti del Sud, e ha girato un po’ dappertutto. La prima cosa che colpisce delle strade statunitensi, racconta, è la frequenza della loro disposizione ortogonale e della toponomastica numerica, che non è l’unica – non mancano certo strade non intersecantisi a novanta gradi né nomi propri – ma è assolutamente tipica, tanto che, nel nostro immaginario, la Qualche-Numero-Avenue e la Qualche-Numero-Street rappresentano tutte le strade americane. Mask ne ricorda i motivi e le origini storiche con molti esempi. Duecentocinquant’anni fa Manhattan, che allora si chiamava Mannahatta, era una foresta e gli esseri viventi che popolavano l’attuale East Village erano soprattutto roditori. Poi la popolazione si moltiplicò a un ritmo impressionante e fu necessario ricorrere a un progetto urbanistico vero e proprio. A questo proposito un altro critico acutissimo, Salvatore Settis, ha scritto in Se Venezia muore che, ai primi del Novecento, il progetto più affascinante e futuristico per New York era ispirato a Venezia, l’unica città al mondo in cui la circolazione dei veicoli è drasticamente separata da quella dei pedoni (nessuno attraverserebbe il Canal Grande a nuoto), ma l’idea di piani distinti per auto, in basso, e persone, in alto, fu giudicata di ardua realizzazione e non ebbe successo. La scelta ortogonale fu ritenuta la più economica e facile da percorrere e solo gli insediamenti urbani precedenti, che ricalcavano le città europee e tenevano conto della morfologia del terreno, rimasero a ricordare i luoghi da cui provenivano le masse migranti. La scelta geometrica però, sotto sotto, celava altre impellenze: facilitava la delimitazione regolare degli appezzamenti e quindi la stima e la compravendita: era insomma una manna per gli agrimensori e gli speculatori. In seguito alla rettificazione degli angoli, infatti, il piano regolatore del 1807 provocò l’esplosione del valore dei terreni e della rendita fondiaria, e la griglia ortogonale fu applicata a tappeto, come se Manhattan fosse un foglio di carta da disegno (giova ricordare, a questo proposito, che Mannahatta significa più o meno “Isola dalle molte colline”, delle quali l’urbanistica si volle dimenticare). Il progetto iniziale prevedeva addirittura costruzioni per il cento per cento del suolo, senza alcuno spazio libero, e fu solo intorno al 1850 che un rettangolo fu lasciato alla natura e diventò Central Park.

Le vie attorno al parco sono diventate così ricercate che quando Donald Trump, nel 1987, inaugurò il suo faraonico palazzone, definito da Herbert Muschamp, il critico di architettura del New York Times, «un grattacielo anni Cinquanta vestito di lamè per un party anni Ottanta», pretese di cambiare l’indirizzo dal numero 15 di Columbus Circle (poco più che una rotatoria piena di smog) al numero 1 di Central Park West. Il fatto è che a New York milionari e immobiliaristi possono, pagando una tassa di circa undicimila dollari, cambiare gli indirizzi a proprio piacere per rendere l’edificio più appetibile: un altro palazzone di lusso al numero 520 di Park Avenue non è neppure su quella strada ma a una cinquantina di metri e un appartamento su una via dal nome prestigioso può costare anche il dieci percento di un altro appena girato l’angolo. La stessa Park Avenue, che prima era solo un pezzo della 4th Avenue, fu ribattezzata così su pressione dei ricchi che ci abitavano. La toponomastica, a Manhattan, è anche un fatto estetico e quindi economico. Il problema, come dice Hector Rivera, del Manhattan Topographic Bureau, è che «non ha molto senso spendere tre milioni di dollari per un appartamento che poi l’ambulanza non riesce a trovare se ti viene un infarto».
Per noi del Vecchissimo Continente e per i nostri vicini nordafricani e mediorientali, con le nostre kasbe, con Babele e Venezia e Il Cairo e Istambul, per noi che abbiamo dovuto inventare il triangolo onde poter triangolare e quindi misurare i nostri territori montuosi, desertici, fluviali, costieri, boscosi, una città testardamente razionale e artificiale non ha senso. Perfino Roma, con tutti i suoi trascorsi militareschi e imperialisti e la mania del cardo e del decumanus, di angoli retti ne ha ben pochi. Ma quando vediamo un film che si svolge a San Francisco ci prende lo stupore alla vista di quelle salite e discese inumane: noi ci avremmo fatto belle strade curve e comode, magari con qualche tornante, e in cima una piazza con una chiesa e alcune panchine all’ombra.

Ma la ciliegina sulla torta urbana è sempre la toponomastica perché si sa, come dice la Bibbia, Dio prima creò il cielo, la terra e gli annessi e connessi, e poi gli diede i nomi. Non paghi di aver ridotto la lussureggiante e sinuosa Mannahatta a uno schema per cruciverba, gli urbanisti decisero che sarebbe stato più razionale numerare le strade: stabilirono dunque che esse dovevano rispondere al solo criterio della ragione, a differenza di quelle europee che raccontavano storie e rammentavano vite.
L’atteggiamento statunitense-medio nei confronti della toponomastica, scrive Mask, è assai ambiguo. In alcune zone rurali la gente non vuole sentir parlare di dare nomi alle strade: sostiene di non averne bisogno, tanto in quelle lande chiunque conosce chiunque e il postino più di tutti. A chiedere informazioni su un indirizzo in alcune zone della West Virginia, per esempio, c’è da impazzire, tanto sono vaghe. Chi ci abita le ritiene superflue, anche perché se non sei di quelle parti è meglio che tu te ne vada, o riceverai un’accoglienza scostante e sospettosa. È vero che la toponomastica è stata codificata in Europa in epoca napoleonica e che ha avuto soprattutto lo scopo di schedare le persone facilitando la tassazione e la coscrizione obbligatorie, ma oggi non avere un indirizzo preciso è svantaggioso: i miliardi di terrestri privi di indirizzo non accedono al credito e al voto. Abitare in una strada con un nome, secondo Mask, facilita l’uscita dalla povertà.

Le vite e le storie, beninteso, esistono anche nelle vie statunitensi e pure lì possono causare polemiche. Come nelle nostre strade i nomi di diversi personaggi storici dalla condotta discutibile, così in alcuni Stati del Sud, come la Florida, alcune vie portano il nome di schiavisti. La Florida è uno degli Stati in cui la presenza del Ku Klux Klan si è manifestata con maggior asprezza. Fra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, le cosiddette leggi “Jim Crow” sancirono la disuguaglianza del popolo statunitense in base al colore della pelle e alcuni personaggi che avevano avuto un ruolo attivo nel commercio di esseri umani assunsero fama di eroi, i cui nomi finirono con l’essere tramandati in quelli di molte strade, anche per una troppo disinvolta campagna di riconciliazione tra Stati del Sud e del Nord che si erano combattuti durante la Guerra di Secessione. Quando, in seguito a pressioni popolari, alcuni di questi nomi sono stati cambiati, diverse persone hanno protestato non in quanto razziste ma perché, secondo loro, i nomi non sarebbero la sostanza delle cose e, mantenendo quelli vecchi, si sarebbe fatto un passo avanti verso la tolleranza e il perdono. La risposta dell’autrice è: «Di per sé, cambiare un nome non cambia di certo il carattere. Ma potrebbe essere il segno che è la memoria a cambiare». E ricorda che anche nella comunità afroamericana c’era chi non si opponeva al mantenimento dei toponimi confederati e razzisti perché aveva “cose più importanti da fare”, e anche per “non disturbare”, ovvero per paura, come aveva fatto lei durante una gita scolastica nei luoghi della Guerra di Secessione, quando qualcuno si era messo a sventolare una bandiera confederata. Era l’unica bambina afroamericana in una classe bianca.
Gli Stati del Sud, dove vive la maggior parte della gente afroamericana, sono quelli con la maggior concentrazione di toponimi razzisti. Quando morì Martin Luther King, ad Haarlem, in Olanda, gli fu intitolata una strada nel giro di una settimana e a Mainz, in Germania, in tre, ma ad Atlanta, in Georgia, sua città natale, ci vollero otto anni. Molte persone bianche e benestanti si rifiutano di abitare in vie dedicate a King e ad altri afroamericani, quindi i toponimi finiscono con il sancire la divisione razziale. Scrive Deirdre Mask a proposito di St. Louis, Missouri: «Il sobborgo di Ladue, abitato per l’87 percento da bianchi, ha un reddito familiare medio di 203.250 dollari. A una decina di chilometri di distanza, la zona intorno a Martin Luther King Drive è abitata per il 94 percento da neri e ha un reddito medio di 27.608 dollari».

Qual è il futuro della toponomastica? In un mondo sempre più collegato per via telematica, in cui ci si porta appresso il proprio indirizzo di posta elettronica ovunque e dove senzatetto e migranti non abitano da nessuna parte, ma il commercio online e le consegne a domicilio sono sempre più diffuse, il problema è pressante. La geolocalizzazione potrebbe sostituire i toponimi e alcune aziende, come Google e Facebook, hanno studiato sistemi simili. Ma i nomi delle strade rivelano la Storia e la cultura di una città e permettono di leggerla in modo più completo. Scrive Deirdre Mask: «Non sempre i nomi delle strade uniscono le persone. Gli indirizzi digitali evitano le discussioni sul significato racchiuso negli indirizzi. Ma a me le discussioni piacciono. Le discussioni dividono le comunità, ma sono anche ciò che le costituisce in quanto comunità».

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Articolo di Mauro Zennaro

Mauro Zennaro, grafico, è stato insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e altro in una blues band.