Un viaggio musicale: ridiscutere il genere, tra corpi e modelli

Il mondo musicale purtroppo non fa eccezione tra gli ambienti in cui la presenza delle donne è stata storicamente svilita e, ancora oggi, rimane adombrata, marginale. Se ne è parlato durante l’incontro online a cura di Toponomastica Femminile e dell’Ottavo Municipio di Roma, che ha visto alternarsi le voci di musiciste e musicisti differenti per età e background musicale, ma anche studiose, ballerine ed artiste, sviluppando un confronto tanto poliedrico quanto costruttivo ed interessante.
Milena Gammaitoni, professoressa associata di sociologia generale, ha aperto l’incontro pronunciandosi su quanto sia fondamentale un recupero di tutte le artiste il cui indiscusso talento non le ha salvate da un’ingiustificabile ed inaccettabile damnatio memoriae: compositrici, cantautrici, musiciste e, andando ancora più a ritroso nel tempo, trovatore, che con la musica raccontavano gli abusi che subivano. Sono tutte presenze escluse e paradossalmente rese assenti, perché secondo la convenzione, in quanto donne non potevano rappresentare un modello canonico e universale di genialità. Chi più dell’iconica Catherine Kay McCarthy, scrittrice e musicista folk irlandese, naturalizzata italiana, attiva dalla fine degli anni ’70, può testimoniare la discriminazione delle artiste? Lei che fu presentata al Folk Studio di Roma come «la buttera maremmana con la voce d’angelo» per come si vestiva. 
Kay ha raccontato quanto la musica sia stata protagonista assoluta di ogni sfaccettatura della sua vita e come il suo percorso artistico sia stato costellato da sessismo e clichè maschilisti già dalla tenera età: ha ricordato come in chiesa cantavano il gregoriano solo tra bambine, perché erano ritenute più docili, mansuete e facili da comandare rispetto ai bambini. Il canto, rammenta la musicista dublinese, grazie a Virginia Woolf, è rimasto impresso nel folklore anglosassone come un’arte androgina, senza limiti di genere, ma ciò non è bastato a stroncare sentenze umilianti come «quando ti sposerai smetterai di cantare»,  che Catherine rivela di aver sentito troppe volte. Difatti, essere una compositrice è ritenuto anomalo al punto che, digitando la parola su Google, tra i risultati compare prima la macchina tipografica rispetto alle autrici musicali. Kay ha spiegato come in Irlanda sia meno complesso essere rispettata come cantante che come direttrice di orchestra o compositrice, ma con grande amarezza questo discorso può essere esteso a molti paesi e a molti generi musicali: basti pensare al blues, che Mauro Zennaro, grafico, ex docente appassionato di questa musica, ha approfondito con cura durante l’incontro, alternando il discorso all’esecuzione di canzoni di celebri artiste statunitensi con la band Blues to the bone, di cui lui stesso fa parte.

Blues to the bone

Le donne che si sono affermate in questo mondo musicale, che affonda le radici nell’America nera e popolare, tendenzialmente sono state tutte cantanti: questo perché, a differenza degli uomini, oltre al lavoro logorante dovevano badare alla casa e alla famiglia, senza poter dedicare del tempo allo studio degli strumenti. Rimaneva la voce, per narrare soprattutto storie di dolore, disperazione e abbandono, come nel caso dello struggente Empty bed blues (Blues del letto vuoto) di Bessie Smith (1928), emblema di solitudine delle donne i cui mariti erano migrati o venduti come bestiame dopo aver coperto il fabbisogno di lavoro fisico.

«I woke up this morning with a awful aching head
My new man had left me, just a room and a empty bed.»

(«Questa mattina mi sono alzata con un terribile mal di testa,
Il mio nuovo uomo mi ha abbandonata, resta solo una stanza e un letto vuoto.»)

Ma le cantanti con il blues riescono a esporsi e a descriversi ancora di più, rispondendo all’ipersessualizzazione impartita loro dai padroni bianchi, rovesciandola con mille metafore e immagini rese criptiche dallo slang, per rivendicare libertà ed autonomia: Janis Joplin, nonostante non fosse nera né schiava (proveniva da una famiglia medio-borghese) era rimasta folgorata da questa musica popolare e in Turtle blues si paragonò ad una tartaruga raccontando quanto fosse corazzata e , come tutte le donne che volevano gestire autonomamente la propria sessualità, cattiva.

«I’m a mean, mean woman,
I don’t mean no one man, no good.
I just treats ‘em like I wants to,
I never treats ‘em, honey like I should.»

(«Sono cattiva, una donna cattiva,
Non mi serve un uomo, affatto.
Io li tratto come voglio io
Non li tratto mai come dovrei, dolcezza.»)

Sulle note di Give me one reason di Tracy Chapman, il discorso si è esteso ad altre dimensioni musicali, coinvolgendo in primo luogo i jazzisti Eugenio Colombo e Sabina Meyer, che hanno entrambi confermato come questa disparità numerica tra compositori e compositrici caratterizzi anche il loro ambiente, sviluppatosi in continuità con il blues.

Eugenio Colombo e Sabina Meyer

In seguito si è parlato di hip-hop dando voce ad esponenti di alcune delle molteplici sfaccettature culturali di questo mondo musicale.

Phedra

Phedra, veterana della scena rap underground di Roma, ha inquadrato accuratamente il contesto sociale in cui è nata e si è sviluppata questa musica, una delle arti caratteristiche della cultura hip-hop. Ha parlato della propria esperienza di estrema minoranza (spesso e volentieri l’unica donna a partecipare alle competizioni) in un ambiente in cui il mercato discografico è cresciuto a dismisura negli ultimi anni, ma cerca, fatta qualche eccezione, più la showgirl della rapper.

Rosa White

Rimane della stessa idea anche Rosa White, altra talentuosa artista romana portavoce del rap nell’incontro, che si è raccontata attraverso la lettura delle proprie canzoni, in particolare Raggio di sole. Con L’Antidoto, brano accompagnato da un videoclip ad effetto, la rapper si è soffermata su quanto sia importante mettersi al primo posto.

A coronare il discorso sono sopraggiunte anche Wissal Houbabi, femminista intersezionale appassionata di hip-hop e Giulia Giorgi, in arte Giulia Chimp, b-girl (ovvero ballerina di breakdance) affiliata alla Wild Up Crew,gruppo di danza tutto al femminile: Wissal si è soffermata su quanto il rap sia stato uno strumento significativo per crescere e costruire un proprio percorso di autocoscienza e di riflessione, ma ha evidenziato anche l’altra faccia della medaglia, ovvero il machismo dilagante e la difficoltà del femminismo hip-hop (corrente nata negli Stati Uniti) ad attecchire in Italia, dove è preferita la comoda accettazione di certi atteggiamenti sessisti rispetto ad un approccio critico di genere. Ma questa discriminazione riguarda anche il mondo della breakdance, altra disciplina (non in un’accezione accademica, come ha sottolineato Wissal) dell’hip-hop, e Giulia Chimp lo ha confermato: la b-girl ha raccontato come nelle gare di ballo i gruppi femminili vengano presi in considerazione come se facessero parte della categoria dei bambini; ha aggiunto che, vista un’evoluzione continua in questo genere di danza, recentissimamente inserito tra le discipline olimpioniche, sarebbe doveroso un cambiamento atto a superare ed annientare definitivamente questi intollerabili fenomeni di diversificazione.

Wild Up Crew

Un cambiamento che, viste tutte le esperienze raccontate, deve essere radicale ed incisivo per mettere in luce chi merita, nel rispetto di tutti i generi, musicali e non.

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Articolo di Matteo Mirabella

Nato a Roma nel 1997, si laurea nel 2019 in Lettere Moderne all’Università di Roma Tre, dove al momento frequenta il corso Magistrale di Italianistica.
I suoi principali interessi sono rivolti alla letteratura, al giornalismo e alla musica, tre dimensioni che ama accostare e confrontare.

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