Come ogni anno, il 27 gennaio si è celebrata la Giornata della Memoria. Questa data in particolare è stata scelta e istituita ventuno anni fa perché in quel giorno del 1945 il campo di concentramento di Auschwitz venne liberato. Da allora, essa simboleggia il ricordo di una delle pagine più drammatiche che la Storia intera abbia mai vissuto e ciò non può che suscitare riflessione e analisi sul fenomeno sociale del razzismo, che si dipana fino ai nostri tempi.
A pensarci bene, una tra le prime parole ad emergere nell’ampio dibattito e nella ricostruzione storica è indifferenza. In realtà, per rimediare basterebbe una semplice parola: sensibilizzazione. Il fatto è che servirebbe sensibilizzare tutto l’anno — ogni giorno, ogni stagione — all’interno della società civile sulle tematiche della discriminazione razziale, dell’Olocausto, della deportazione, delle violenze successive alla guerra, della privazione di qualunque diritto fondamentale cui l’essere umano è stato sottoposto. E l’elenco potrebbe proseguire.
Ma da dove comincia la sensibilizzazione? Dove inizia a prendere forma la società civile? La risposta è di nuovo molto semplice.
Dalla scuola.
È risaputo che il 2021 non sia un anno scolastico qualsiasi a causa dell’emergenza sanitaria in corso, ma alla Memoria questo non interessa. Anzi. In un momento così precario come quello che stiamo vivendo l’indifferenza, purtroppo, non può che far peggiorare le cose. E di conseguenza è necessario rimediare attraverso un atteggiamento critico e un approfondimento che invita alla legalità. Tra i banchi di scuola, e ovviamente, anche fuori.
Ma la Storia ci insegna che non esiste sensibilizzazione autentica senza testimonianza diretta. E a questo proposito vorrei citare come esempio una figura che nel nostro Paese svolge questo compito civile da molti anni, in maniera emblematica.
Mi riferisco a Liliana Segre, che alla veneranda età di novant’anni si rapporta in maniera più che attenta e lucida con le problematiche più spinose della nostra società. Da non trascurare, il fatto che nel 2018 sia stata nominata Senatrice a vita “per i suoi altissimi meriti in ambito sociale” in contributo alla Patria.
Il 9 ottobre 2020 ha tenuto la sua ultima testimonianza pubblica sulla Shoah a Rondine, un piccolo borgo in provincia di Arezzo, la cosiddetta Cittadella della Pace. Il Corriere della Sera, in seguito, ha pubblicato la riproduzione integrale del suo discorso.

In una classe di scuola superiore (per le medie sarebbe opportuno un contenuto più semplificato), se fossi un’insegnante, farei leggere agli studenti questo libricino che contiene in sé l’autentico valore della Memoria e un valore forte e chiaro di legalità.
Liliana Segre, senza mezzi termini, dice di aver scelto la vita. Questa è la sua lezione di Storia davanti a una grande platea di studenti riuniti in presenza (con le norme di distanziamento, si intende) e in collegamento da remoto.
Tra 1944 e 1945 proprio nel campo di Auschwitz la Segre è stata deportata insieme a suo padre e ai suoi nonni, che da quel momento non rivide mai più, lasciando un vuoto incolmabile quanto inconsapevole — per lo meno allora — nella propria vita. È sul finale del suo racconto che si percepisce in termini ineguagliabili il significato delle parole della senatrice, che ha scelto di vivere, e non altro. Mi permetto di riportare integralmente questo passaggio.
«Era il 1° maggio. Mi camminava vicino il comandante dell’ultimo campo. Era un uomo crudele… era un uomo alto ed elegante. Buttò via la divisa. Si mise in mutande. Era vicino. Non mi aveva mai considerato, né me né alcuna altra prigioniera, per lui non esistevamo. Ma io sì avevo osservato lui, con terrore. Buttò per terra anche la pistola. E io, che non ero quella che sono oggi, che mi ero nutrita di odio e di vendetta, che lasciando la mano sacra di mio padre, giorno dopo giorno ero diventata un’altra, un essere insensibile, quello che loro volevano che io diventassi, pensai: “Adesso raccolgo la pistola e gli sparo”. Perché mi sembrava un giusto finale di quel periodo incredibile di cui ero stata testimone, io, viva ancora quel giorno.
Fu un attimo. Un attimo importantissimo, decisivo nella mia vita. Capii che mai, per nessun motivo al mondo, avrei potuto uccidere qualcuno. Capii che io non ero come il mio assassino. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento — ho finito sempre così, negli anni, la mia testimonianza — sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso».
Personalmente, anche io ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo Liliana Segre un paio di anni fa, durante un incontro pubblico presso l’Università Statale di Milano. Ricordo perfettamente quelle sue stesse parole — con il suo piglio nobile nel parlare e il suo portamento elegante — a conclusione della testimonianza. E soprattutto ricordo l’Aula Magna stracolma di studenti in un silenzio assoluto e vagamente irreale. È proprio questo silenzio carico di tensione emotiva, di pensiero e di riflessione che non può rendere indifferenti. La senatrice lo ha affermato chiaramente: lottare contro la Shoah è lottare pertestimoniare che l’essere umano è veramente umano anche quando attorno a lui di umano non c’è nulla (perdonate le ripetizioni); lottare contro l’indifferenza è lottare per la legalità.
Ecco, dunque, perché a scuola dovrebbero essere incentivati i percorsi sulla legalità. Per il valore intrinseco della Memoria che portano con sé. Inoltre, questo è un dibattito che oltrepassa il 27 gennaio: si può parlare anche di antimafia, di terrorismo, di storie e vittime di guerre, o più comunemente di educazione alla cittadinanza. Ognuno di questi ambiti si richiama alla Memoria.
Liliana Segre, con estrema tenerezza, si è sempre definita “la nonna di tutti i suoi nipoti ideali”, gli studenti che la ascoltano nelle aule. La scuola per lei ha significato la rinascita: per moltissimo tempo è stata una sopravvissuta che non ha avuto il coraggio di sensibilizzare, di fare pubblico il discorso sulla Memoria. Ma a un certo punto la chiamata alla legalità è stata più forte di lei, e ha ricominciato la propria battaglia esattamente laddove la Storia aveva maledettamente interrotto la sua quotidianità. Dalla scuola, appunto. Liliana era solo una ragazzina quando le leggi razziali, nella Milano dei primi anni Quaranta, le hanno impedito di proseguire gli studi, e così rivolgendosi al suo pubblico di giovani è come se la Segre ritornasse anche a parlare alla sé stessa ragazzina che era stata.
In conclusione, faccio mia la riflessione di Ferruccio De Bortoli, Presidente onorario del Memoriale della Shoah, contenuta nella prefazione del libricino suggerito. «L’indifferenza è l’anticamera del pregiudizio, e il pregiudizio si nutre di falsità, percezioni scorrette, verità di comodo. Si alimenta della facile individuazione di bersagli o capri espiatori su cui riversare il nostro malumore… Le parole d’ordine del razzismo, dell’antisemitismo non sono cambiate. Sono le stesse. E oggi più di allora hanno mezzi di diffusione potentissimi. Sui social network è come se si fossero perduti alcuni importanti freni inibitori civici, e dietro la maschera dell’anonimato, si potesse colpire impunemente chiunque», queste le parole del giornalista. E aggiunge una preziosa sintesi di ciò che dovrebbe essere il valore della legalità che le Scuole sono chiamate a trasmettere. «La memoria è un atto di giustizia postumo ma è soprattutto un’orazione civile senza la quale si perde la direzione della Storia e si smarriscono anche le stesse ragioni per le quali siamo insieme, come famiglie, una comunità. Senza memoria il destino è segnato dagli altri. E non sono mai i migliori».
Ecco, la Scuola non per tutti gli studenti assume il medesimo significato con il passare del tempo, non tutti le attribuiscono la stessa importanza. Ma se tutti gli/le studenti, indistintamente da ogni ordine e grado, fossero capaci di cogliere anche solo questa lezione storica e civile sarebbe già tanto. Specialmente, perché sarebbero in grado di diffondere la base profondamente umana che si nasconde dietro ogni storia. E si impegnerebbero a non dimenticarlo.
In copertina: Liliana Segre in visita alle scuole elementari di Sordio, 2019 — foto Ribolini
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Articolo di Francesca Bertuglia

Classe 1996, laureata in Lettere moderne all’Università degli Studi di Milano, cresciuta a stretto contatto con ambiti associativi, da sempre appassionata di letteratura, giornalismo e mondo editoriale. È dell’idea che scrivere di Cultura educhi alla bellezza e alla conoscenza in un’ampia prospettiva.