Emilija Benjamina

“Regina della stampa lettone”: così è passata alla storia Emilija Benjamina, una delle donne più ricche e influenti d’Europa che, con intelligenza, tenacia e spirito imprenditoriale, riuscì a creare dal nulla un impero finanziario.

Era nata a Riga il 10 settembre del 1881 in un’umile famiglia. Il padre, Andris, era un piccolo burocrate statale che, con il misero stipendio, faticava a sostenere le spese necessarie per il sostentamento della moglie e delle tre figlie. Sua madre si chiamava Ede Usins e le sorelle Mina ed Annija. Quest’ultime, crescendo, riuscirono a concretizzare le loro aspirazioni artistiche: Mina, il cui nome d’arte era Tusnelda, diventò una cantante lirica ed Annija un’attrice. Ad Emilija, invece, non interessavano i palcoscenici e le luci della ribalta, lei era attratta dal mondo della stampa e degli affari e già a diciassette anni iniziò a lavorare come agente pubblicitaria e come critica teatrale, collaborando con il giornale ”Rigaer Tagesblatt” che pubblicava in lingua tedesca e il cui proprietario era uno dei membri più importanti della comunità ebraica russa.
Oltre che nel lavoro fu precoce anche nel matrimonio, si sposò presto e diventò la signora Elks. Questa unione fu però disastrosa, i suoi sogni romantici si infransero quando il marito diventò un alcolista e iniziò a maltrattarla.

Emilija, intorno al 1905, incontrò Anton Benjamins, un reporter più grande di lei di ben 21 anni, già coniugato e con tre figli. Tra i due nacque una profonda intesa e, oltre ad un sodalizio d’amore, strinsero un sodalizio d’affari: Anton diventò l’editore del giornale mentre lei ne gestiva brillantemente l’aspetto economico. Nel 1911 Emilija fondò un nuovo giornale: “Jaunakas Zinas” (“Ultime Notizie”), che è stato il primo in lingua lettone e con una distribuzione di massa. Lei era l’editrice e Benjamins il capo redattore. Su quelle pagine scrissero coloro che sarebbero diventati “i fari” della letteratura e della cultura lettone, come lo scrittore Karlis Skalbe e il linguista Janis Endezelinis.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale il giornale continuò a pubblicare gratuitamente gli annunci dei rifugiati che cercavano i familiari dispersi ma, durante l’occupazione bolscevica di Riga, la stampa si interruppe ed  Emilija e Anton si rifugiarono per sei mesi a Berlino. Finita la guerra ricominciarono a pubblicarlo grazie ad un colpo di fortuna che permise loro di avere gratuitamente sia i macchinari di stampa che la carta. Infatti le stampatrici erano state consegnate poco prima dello scoppio del conflitto e la ditta fornitrice era in seguito fallita, mentre le tonnellate di carta, allora un bene prezioso e costoso, furono abbandonate dai bolscevichi che durante la guerra avevano utilizzato la tipografia del giornale per stampare i loro volantini di propaganda.
Nel 1922 Emilija e Benjamins, ottenuti i divorzi dai precedenti coniugi, poterono finalmente sposarsi.

L’ingegno di Emilija la portò a fondare una nuova rivista: “Atputa” che divenne il fulcro della cultura lettone fiorita dopo il governo zarista e la dominazione tedesca. Cominciò inoltre a fare investimenti immobiliari acquistando prestigiosi palazzi, tra cui “Fabu Palace”, la più grande casa di Riga, ed anche una favolosa residenza sul mare nella città di Jurmala ancora oggi ricordata come la casa di Benjamina. Seguirono poi investimenti nel campo dell’industria chimica e fotografica.
Non avendo avuto figli, decise di adottare suo nipote, il figlio maggiore di sua sorella Annija, Juris Benjamins che, essendo un chimico, la coadiuvò nell’amministrazione degli investimenti industriali.

In breve, Emilija divenne la donna più influente della Lettonia tanto che il Primo ministro Karlis Ulmanis, fondatore del Partito lettone dei contadini, non essendo coniugato, la voleva accanto come consigliera in ogni evento importante. Fu così che diventò la First Lady della sua nazione. Si narra che, in uno di questi sontuosi ricevimenti ufficiali, un veggente, conosciuto in tutto il mondo, Eugene Finks, da lei personalmente invitato, le predisse la morte per fame e la sua fine su nude tavole di legno. Né lei, né i presenti diedero peso a quelle parole, e alcuni lo considerarono uno scherzo di cattivo gusto.
Il 14 giugno del 1939 Anton Benjamins morì ed Emilija, da sola, continuò ad amministrare il ricchissimo patrimonio che superava i 60.000 franchi svizzeri e contava ben 12 proprietà. Ma la buona sorte si avviava al declino.
Nel 1940, quando l’Armata Rossa occupò la Lettonia annettendo il Paese all’Unione Sovietica, i suoi beni furono nazionalizzati diventando proprietà del popolo sovietico e lei fu trasferita in un piccolo appartamento.
Anche il giornale cessò la stampa, il 9 agosto 1940, perché aveva una linea editoriale contraria ai totalitarismi sia comunisti che nazionalsocialisti. L’ambasciatore svedese in Lettonia propose ad Emilija di sposarlo per evitarne la persecuzione. Con il matrimonio infatti lei sarebbe diventata cittadina svedese e avrebbe goduto dell’immunità diplomatica. Lei disse che avrebbe accettato se il beneficio fosse stato esteso anche al figlio adottivo. Purtroppo non era possibile ed Emilija rifiutò, aspettando ciò che la sorte le aveva riservato.
Il cognato tentò di salvarla mediando con il governo tedesco ma a causa della precedente linea politica del suo giornale fu lasciata sola e definita una nemica del Reich.
Anche il suo amico Vilis Lacis, nominato nuovo Ministro degli Interni della Repubblica socialista sovietica della Lettonia, le voltò le spalle.
Emilija pagava così il prezzo dello spirito critico ed indipendente della sua linea editoriale.

Il 17 giugno del 1941 la polizia sovietica bussò alla sua porta e la prelevò caricandola su un treno per deportarla in Siberia. Dal 14 giugno del 1941 alla fine dello stesso mese furono deportate dalla Lettonia 28.501 persone, fra cui tanti bambini e bambine. Tra l’altro su quei vagoni ferroviari ne nacquero e morirono subito tanti/e altri/e. Erano viaggi infernali che duravano parecchie settimane, infatti la destinazione finale era lontana ben 6.000 chilometri dalla propria patria. I deportati erano stipati dentro i vagoni e molti si ammalarono di tifo durante il tragitto.
Un sopravvissuto che aveva viaggiato con lei, riferì che alla fine di quel terribile viaggio Emilija, scendendo dal treno, faticava a trasportare il suo bagaglio. Un uomo le si avvicinò per aiutarla ma lei rifiutò dicendo: «Da ora in poi trasporterò io stessa il mio destino». Dai sontuosi palazzi fu catapultata in quella terra gelida, inospitale ed ostile, prigioniera di fame, solitudine e miseria. Il 23 settembre del 1941, poco dopo il suo sessantesimo compleanno, la sua vita si spense: non ce l’aveva fatta a sopravvivere agli stenti.

Emilija morì per fame, a Solikamsk, in Russia, giacendo semplicemente su un letto di nude tavole di legno.

Qui le traduzioni in francese e inglese.

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Articolo di Ester Rizzo

Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) di Licata per il corso di Letteratura al femminile. Collabora con testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Per Navarra edit. ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzoLe Ricamatrici e Donne disobbedienti.

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