Il coraggio di definirsi femminista

Tante volte ho sentito dire, da parte di uomini, ma specialmente di donne, di non considerarsi femministe. L’ho sentito affermare quasi con disprezzo, come se fosse una parola che fa venire il ribrezzo. Altre volte, invece, ho sentito dire che «l’importante sono le azioni, non le parole. Le definizioni non sono importanti». Eppure il linguaggio è il mezzo per dare forma alla realtà in cui viviamo e le definizioni sono usate per qualsiasi aspetto della nostra vita.  

Prima di tutto bisogna chiarire che cos’è il femminismo. Spesso le resistenze nei confronti del termine derivano dall’errato paragone con la parola maschilismo. Maschilismo è la convinzione e l’atteggiamento di superiorità dell’uomo nei confronti della donna. Femminismo non è un suo sinonimo ma un suo opposto. Non un opposto simmetrico ossia “convinzione e atteggiamento di superiorità della donna nei confronti dell’uomo”, ma il contrario: femminismo è volere l’uguaglianza di donne e uomini, dando alle donne gli strumenti per autodeterminarsi.
Il femminismo è nato in risposta a una società in cui le donne erano un mero oggetto degli uomini (ne è un esempio la legge sul delitto d’onore, abolita solo nel 1981, che prevedeva una riduzione di pena per quegli uomini che avessero ucciso la moglie, la figlia o la sorella in difesa del proprio “onore”); in cui le donne non avevano accesso agli stessi lavori degli uomini (fino al 1963 le donne non potevano entrare in magistratura perché «difette per ragioni fisiologiche», in quanto a causa del ciclo mestruale, non sarebbero state in grado di avere un «grande equilibrio» nelle scelte; come dichiarava Antonio Romano, costituente della Democrazia Cristiana); o ancora una società che non considerava le violenze subite sui corpi femminili (solo nel 1996 con le Norme contro la violenza sessuale, lo stupro diventa un reato contro la persona e non più contro la morale).

È la storia che, con leggi non egualitarie, ha legittimato la presunta superiorità maschile sulle donne. Nonostante siano stati fortunatamente raggiunti molti traguardi, la società patriarcale che privilegia l’uomo a discapito della donna continua a sussistere.
Dall’uso di un linguaggio violento e sessista nei confronti delle donne, alle molestie da parte di sconosciuti quando si cammina in strada (catcalling); dalla condivisione non consensuale di foto e video intime (revenge porn), all’imporre una gravidanza alla partner (coercizione riproduttiva), fino ad arrivare al vertice di questa piramide fatta di negazione delle libertà personali, colpevolizzazione della vittima e minimizzazione degli avvenimenti. Il culmine si raggiunge col femminicidio, il cui movente è la pura appartenenza al genere femminile.
A fine novembre del 2021 continua a registrarsi il dato per cui ogni tre giorni una donna viene uccisa dal proprio partner, ex partner o familiare. Tra il 2010 e il 2015, secondo l’Analisi delle sentenze di Femminicidio del Ministero della Giustizia, ci sono stati 417 omicidi di donne, di cui 355 erano femminicidi. Inoltre nel corso degli anni gli omicidi calano ma non i femminicidi. Dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) dal 2004 al 2019 si riscontra un notevole abbassamento della barra degli omicidi maschili e un aumento degli omicidi femminili.

Le donne vengono uccise da partner, ex o familiari; gli uomini da sconosciuti; inoltre 7 donne su 10 vengono uccise nella propria casa e la maggior parte di esse conviveva con il proprio omicida.  

La casa non è più quel luogo sicuro che dovrebbe essere. “L’odio genera odio” e per l’appunto i figli che assistono ad episodi di violenza nei confronti della propria madre hanno più probabilità di adottare un comportamento violento a loro volta.  

Figli che hanno assistito a episodi di violenza sulla propria madre

Possiamo immaginare come in una situazione straordinaria di costrizione in casa, come quella dovuta alla pandemia da Covid-19, le violenze siano aumentate. Nel 2020, c’è stato un incremento del 5,7% di femminicidi e un aumento di chiamate al numero antiviolenza e stalking 1522.   

Andamento delle chiamate al 1522 (confronto trimestre marzo-maggio 2017-2020. In blu la linea del 2020, negli altri colori le linee riferite agli anni precedenti. Fonte: Elaborazione Istat su dati del Dipartimento per le Pari Opportunità)  

Il femminicidio è causato da un sistema patriarcale arcaico, da un retaggio culturale legato alla figura della donna intesa come proprietà dell’uomo, che si arroga la libera scelta sul porre fine alla vita della partner o ex partner. Le lotte femministe non possono esaurirsi finché la società patriarcale continuerà a esistere, concedendo privilegi all’uomo bianco etero e cisgender a discapito di tutte le donne e non solo. Infatti il femminismo contemporaneo riconosce l’esistenza di diversi assi di oppressione da parte della società patriarcale (essere donna e anche nera/disabile/lesbica/trans) e per questo si definisce intersezionale. Credo che l’importanza di definirsi femminista e vivere da tale siano il cardine per un futuro scevro da condizionamenti di genere e disuguaglianze sociali. Essere femminista è un modo di vivere, un impegno politico costante. Non si può essere indifferenti. «L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita». (Antonio Gramsci, La città futura, 1917). Dare una connotazione negativa e fuorviante della parola femminismo è un’azione che ha in sé la volontà di arginare e limitare la strada che porta all’uguaglianza di genere e alla libertà delle persone ed anche per questo dovremmo tutte e tutti definirci femministi senza se e senza ma. 

***

Articolo di Livia Fabiani

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Livia Fabiani vive a Roma, dove si laurea in Architettura alla facoltà di Roma Tre. La sua passione per l’arte e il territorio trovano sintesi ideale nella Street Art. Curatrice indipendente di mostre e murales, dal 2020 è presidente dell’Associazione VenUs per promuovere l’empowerment femminile attraverso l’arte urbana.

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