Come abbiamo visto, l’avventura nordica di Léonie d’Aunet inizia quando acconsente a convincere il suo compagno, il pittore Auguste Biard, a unirsi alla spedizione scientifica alle isole Svalbard, ponendo come condizione la propria presenza. Il suo resoconto si apre proprio con le vicende parigine che precedono la partenza: la richiesta del botanico Grimard, gli accordi fra i partecipanti, soprattutto la disapprovazione degli amici, che cercano di scoraggiare questa giovane donna: «Che follia – mi dicevano – diventerai brutta!» «Perché mai?» «Paesi spaventosi; siete troppo giovane e delicata per simili fatiche!» «Alla vostra età si va a ballare, non al Polo!» «E se non faceste ritorno?». Ma d’Aunet sa che non può perdere l’occasione di essere la prima donna, una francese, a mettere piede sull’arcipelago più a nord d’Europa.
Molti anni dopo l’autrice riordina i suoi appunti per una pubblicazione con finalità divulgative ma senza pretese scientifiche e sceglie una forma epistolare dal linguaggio semplice e discorsivo, fatta di molti dialoghi e osservazioni personali. Le nove lettere, per un totale di 365 pagine, sono indirizzate a un fratellastro, Léon de Boynest, che si trova a New York. L’itinerario si presenta subito lungo e faticoso, attraverso Belgio, Olanda, Germania, Danimarca, quindi via mare fino a Göteborg, per proseguire a cavallo e in carrozza in Norvegia fino a Trondheim; qui d’Aunet si imbarca su un piroscafo fino a Hammerfest e raggiunge la corvetta La Recherche, che si dirige all’arcipelago delle Svalbard. L’autrice tornerà sul continente dopo alcune settimane e proseguirà con il compagno via terra (al tempo un viaggio più pericoloso e faticoso della via marittima) attraverso la Finlandia e la Svezia, fino a Stoccolma. Dopo un’ultima tappa a Berlino rientrerà a Parigi. Dalle vicende parigine che precedono il viaggio d’Aunet passa a descrivere il paesaggio fiammingo, le cui caratteristiche di ordine, pulizia, armonia contrasteranno con la natura selvaggia della Scandinavia. In questo mondo così ben organizzato compaiono subito diverse figure femminili, colte nella loro quotidianità, mentre puliscono il cortile di casa oppure sono impegnate a «vestirsi, a passeggiare nel parco; o ancora, sedute presso la finestra, ricamano interrompendosi spesso, per dare un’occhiata al piccolo specchio posto all’esterno», per osservare, non viste, quanto accade nella strada. Seguono le visite ai musei, che permettono a d’Aunet di conoscere Paesi lontani, come la Cina, o di approfondire la cultura olandese, soprattutto la pittura dei paesaggisti e di Rembrandt. Paragonando la storia di Amsterdam a quella di Venezia e ripercorrendo le vicende della libera città di Amburgo l’autrice dimostra la propria cultura, mentre una certa «fragilità femminile», non priva di civetteria, traspare quando lamenta la scomodità di tutti i mezzi di trasporto, siano essi carrozze o battelli; infine, il suo carattere anticonformista la porta a criticare le coltivazioni olandesi, confessando di preferire «un giardino trascurato a uno troppo curato».
Lasciate le grandi città il viaggio continua fino alle rive del Baltico; in questa zona “di mezzo” il paesaggio si fa monotono e l’interesse di d’Aunet si sposta verso le leggende popolari, che gravitano intorno a morti viventi e terribili superstizioni: l’unheimlich, l’ignoto perturbante, fa la sua prima comparsa.
Una volta in Scandinavia il percorso diventa più propriamente esplorativo e l’autrice manifesta tutta la sua curiosità: a Göteborg è colpita dall’«orrendo cappuccio» delle donne, che le fa somigliare a mostruosi lumaconi; apprezza la vista dall’alto di Cristiania [l’odierna Oslo, non ancora capitale], lamentando però come il sole del nord sia assai fastidioso, «non scalda, […] ma abbronza e fa ammalare». Durante una sosta a una gaard, una fattoria norvegese,apprezza la vita semplice, «fredda, pura e limpida come l’azzurro cielo del Nord, in una regione serena e umile, senza calore, senza tempeste, cui i cuori affaticati guardano con invidia». Il viaggio procede verso nord e la natura selvaggia fa la sua inquietante comparsa: «È qualcosa di spaventoso, guardare così da vicino una di queste enormi montagne delle grandi catene del globo: l’occhio sprofonda in abissi che, da lontano, non sarebbero che fessure, e si stanca di misurarne la profondità: ovunque affilate pietre nere, precipitate dalle cime, giacciono alla rinfusa sul pendio, appena in equilibrio e pronte a riprendere il loro corso alla minima scossa; in alto la neve inaccessibile, in mezzo le rocce impervie, sotto l’abisso insondabile! Non un filo d’erba, non un fiore, non un uccello […] nient’altro che il suono lamentoso del vento […] Immaginiamo così i luoghi sconvolti dalla maledizione divina, dove l’angelo della vendetta insegue l’ombra criminale di Caino!».
L’itinerario verso Trondheim è stato rischioso e la vettura è uscita di strada; la viaggiatrice non si è ferita, la preoccupa piuttosto il suo aspetto: «Dovevo essere orribile: il mio viso era gonfio per le contusioni e pallido per il freddo; i miei abiti stropicciati, bagnati, sporchi di fango completavano un insieme poco grazioso», afferma con discreta civetteria. Le allusioni alla sua persona sono sempre più frequenti: in questo modo l’autrice “incarna” la propria esperienza e la narrazione assume un aspetto più concreto, più coinvolgente per lettori e lettrici. A Trondheim la parigina d’Aunet vorrebbe fare acquisti nei negozi, che espongono «pellicce e stoffe preziose»; comprare si rivela però un’impresa difficile: «il negoziante norvegese ignora l’arte del commercio […] quando ci si avvicina, assume un’aria canaglia che sembra incoraggiare il passante a riflettere attentamente prima di disturbarlo», osserva contrariata di fronte alla ritrosia dei commercianti. L’arrivo dei francesi è salutato in città con una cena in loro onore: è un’occasione per descrivere le portate con molta concretezza, facendo appello a tutti i sensi, non senza un pizzico di arguzia: «[la] zuppa […] una quantità di palline che nuotavano in un succo viola; da lì emanava un odore acre, come un infausto presagio […] Ho avuto la vile idea di lasciare tutto, ma gli occhi di tutti erano puntati su di me. Invocai il mio senso di ospitalità e, raccogliendo tutto il mio coraggio, continuai a ingoiare questa zuppa infernale. In mezzo al conflitto di gusti, sapori e aromi che stordiva completamente il mio palato, ho distinto, in questa bizzarra mischia, lo zucchero, il sapore di selvaggina, il peperoncino, il vino, le uova e tutte le spezie conosciute. L’aggiunta di un po’ di polvere da sparo non mi sarebbe sembrata improbabile».
Il giorno prima di partire da Trondheim l’escursione alle cascate di Lerfoss, «fra rocce di basalto nero, contro le quali l’acqua ribolliva con una rabbia spettacolare» è una nuova occasione per ribadire la natura sublime della Scandinavia. D’altro canto la passeggiata si rivela «una fatica insostenibile» che provoca all’impavida viaggiatrice una caduta; d’Aunet si descrive con ironia «strisciare come una lumaca» con gli abiti fradici, finché si siede nel fango, piangendo di rabbia. Tornata all’hotel scopre che le sue casse sono già state imbarcate per Hammerfest: non le resta che ripulirsi dall’argilla che la rende «una specie di statua» e avvolgersi in un lenzuolo, per lasciar asciugare i vestiti durante la notte. Verso Hammerfest compaiono edredoni e pulcinella di mare; durante uno scalo sale a bordo un nativo, un arrotino che in inverno produce splendidi coltelli e d’estate li vende sui battelli di passaggio. Osservandolo, d’Aunet intuisce la solitudine dell’inverno senza fine: vendendo i suoi prodotti e chiacchierando con tante persone, l’uomo «provava tutti i piaceri in una volta […] tutta l’allegria di un anno concentrata in poche ore». La vita sul piroscafo è divertente: si tratta di «una specie di omnibus, […] il sogno della vita, l’estate e i suoi raggi benefici, l’incontro con gli amici, le mode, le novità, i romanzi, e qualche volta anche gli stranieri, cosa che però è ancora rara». Per le signore norvegesi è un viaggio di piacere e fanno sfoggio di eleganza: «Tutte le ragazze eleganti del Nordland preparano i loro abiti per questa occasione, e Dio solo sa quante belle cose si possono preparare in un anno! […] Abiti in seta dalle tonalità più allegre, cappelli rosa, sciarpe colorate, cashmere preziosi, piume, nastri, fiori, pizzi, sciarpe; e oro! Collane, orecchini, cinture, anelli, fermagli!». Tutti abiti, afferma d’Aunet con soddisfazione, che imitano lo stile francese. Comunque non solo la moda, ma anche la cultura francese si impone in tutto il nord: nei libri, nei giornali, nei rari teatri.

Distratta dall’ambiente rilassante del piroscafo l’autrice non si è ancora resa conto della durata anomala del giorno. Solo a Hammerfest scrive infastidita: «Ho fatto molta fatica a venire a patti con questi giorni senza fine: mi sono trovata in un disagio e un’ansia inesprimibili; le mie abitudini furono trasformate. Mi alzavo a mezzogiorno, cenavo alle undici di sera, andavo a passeggio alle due del mattino; non sapevo più quando andare a letto e quando alzarmi, e dormire era diventato quasi impossibile per me». Il fenomeno la porta a riflettere sulla situazione opposta, la notte polare: non si può che provare una pietà profonda per chi si trova a vivere nel gelo e nel buio, lontano dal sole «di cui ogni gioia, come ogni fiore, ha bisogno per schiudersi». La tappa successiva del viaggio è Capo Nord, dove purtroppo d’Aunet non può soddisfare il suo desiderio e «far sì che per la prima volta un piede femminile lo calpesti»: La Recherche deve salpare con urgenza per le Svalbard. Ha però il tempo di descrivere l’immagine delle rocce nella loro potenza: «[…] la grande fortezza di terra, che per tanti secoli ha difeso l’Europa dalle invasioni del furioso oceano. La vittoria del colosso granitico non è facile; i suoi ampi fianchi sono solcati da profondi crepacci; le sue gigantesche fondamenta sono scosse e scheggiate. Qua e là si intravede qualche rientranza: questo è il punto in cui un’onda ha asportato un blocco di pietra. Così ho finalmente visto questo famoso Capo Nord, raggiunto da un così piccolo numero di viaggiatori. Lo osservavo sotto un cielo terso, quando le onde verdi dell’oceano calmo gettavano a malapena qualche bianco ricamo di schiuma sui suoi massicci pilastri. L’ho visto nel suo aspetto sereno, illuminato dalla magia di una bella giornata, e mi sono commossa». Tanta bellezza contrasta nuovamente con l’idea della spaventosa notte polare: «Come deve essere in inverno, quando l’Oceano gonfio di tempesta scaglia le sue montagne liquide sulla montagna solida; quando masse di ghiaccio si schiantano con uno tonfo contro le creste di granito, mentre rombi di uragani furiosi si mescolano con i tuoni, e il bagliore nebuloso e sbiadito dell’aurora boreale getta i suoi pallidi raggi su questa lotta eterna e terribile? Oh! deve essere uno spettacolo da terrorizzare l’occhio umano!».
Il viaggio prosegue verso l’ultima meta e «la morsa del vento polare» costringe l’autrice a modificare il suo abbigliamento: «Indossavo pantaloni da uomo e una spessa camicia di panno blu, una grossa cravatta di lana rossa, una cintura di pelle nera; stivali foderati di feltro e un berretto da marinaio completavano questo insieme che non deve essere imitato; inutile dire che sotto ero fasciata di flanella. Quando sono salita in coperta, ho aggiunto a questa montagna di lana uno spesso giaccone con cappuccio che mi ha fatto somigliare a un fagotto informe. Mi ero tagliata i capelli, ormai impossibili da districare a causa della loro lunghezza». Essere donna in quest’impresa, lo ha già dichiarato in diverse situazioni, non è semplice.Sulla Recherche d’Aunet si accorge di suscitare perplessità, se non addirittura ostilità, fra i marinai: «Che idea aver portato una donna! Sono gare femminili, viaggi come questo? […] E poi che donna è? ― disse un timoniere, in tono leggermente sprezzante; una donna pallida, snella, magra, con piedi fragili come biscotti e mani che non alzano un remo […] da noi (era Bretone) abbiamo ragazze che non esitano a issare una vela e manovrare una barca; le nostre donne valgono quasi un uomo; ma questa, con il suo contegno parigino, è fragile come un parrocchetto senegalese. Se rimanessimo incagliati nel ghiaccio, morirebbe al primo raffreddore: questo è certo!». Per contro, l’equipaggio si rivela anche protettivo: il capitano le ha ceduto la cabina, dove «il pavimento era stato coperto con diverse pelli di renna, tutti gli oblò erano ermeticamente chiusi, il letto coperto con un piumino; era, a dire il vero, molto più un nido che una stanza». Comunque, in caso di pericolo, i marinai si impegnano a «fare di tutto per salvare la sua vita», poiché «ne va del coraggio e del prestigio dell’equipaggio».
Avanzando verso le Svalbard aumentano le difficoltà: dopo le febbri durante il percorso via terra, la giovane donna deve sopportare il mal di mare, «la mezzanotte gemella del mezzogiorno […] lo sconvolgimento di tutte le mie abitudini, e il cibo ultra-tonico […] tutto questo mi teneva in una costante agitazione nervosa; mi sembrava di vivere un incubo». Solo a questo punto d’Aunet inserisce qualche dettaglio tecnico sulla posizione delle isole e qualche informazione sulle specie di uccelli che la nave incontra, probabilmente tratta da alcune letture o suggerita dagli esperti della spedizione. Il mare rimane burrascoso per cui non può neppure salire in coperta, ma una volta a terra, approdando alla Baia Maddalena, assiste allo spettacolo formidabile e sublime del disgelo: «[…] lo scintillio dei diamanti, le sfumature abbaglianti dello zaffiro e dello smeraldo mescolate in una sostanza sconosciuta e meravigliosa. Queste isole galleggianti […] cambiano forma in ogni momento […] architetture di tutti gli stili e di tutti i tempi: campanili, minareti, colonne, archi […] il formidabile tumulto del disgelo». Lo spettacolo, «terribile e magnifico, allucina lo spirito e lo riempie di sensazioni indicibili, miste di spavento e ammirazione». Se la natura delle Svalbard è sempre orribile e attraente allo stesso tempo, una nuova, sconvolgente esperienza l’attende a terra: dapprima incontra «scheletri di giganti» che altro non sono se non ossa di foche e trichechi abbandonati dai pescatori; più avanti, arriva a un vero cimitero dove biancheggiano ossa umane: non essendo possibile scavare tombe, i cadaveri sono stati solo coperti da pietre e successivamente devastati dal groshomme, l’orso bianco. Infine, anche la tempesta che coglie La Recherche sulla via del ritorno attrae e spaventa al tempo stesso: tra iceberg che si ergono come piramidi «[…] le onde erano alte, sottili e trasparenti, tanto che il cielo si vedeva attraverso ciascuna di esse come attraverso uno specchio appannato; una leggera schiuma vorticava sopra ogni onda come un pennacchio bianco… Ho trovato [il mare] così bello che ho dimenticato di averne paura».

Al ritorno sul continente d’Aunet abbandona il mondo chiuso della Recherche e prosegue per il villaggio minerario di Kaafiord, divenuto importante grazie al «genio imprenditoriale» inglese che ha importato legno dall’Inghilterra, operai dalla Cornovaglia ― in una parola «civiltà» ― e trasformato un villaggio sperduto in una cittadina con confortevoli abitazioni, arredate con tappeti, pianoforti, quadri, dove si consuma cibo adeguato e si incontrano «giovani Miss dagli abiti scollati e uomini eleganti». Qui una famiglia inglese la trae d’impaccio, regalandole una sella da donna, necessaria per il viaggio attraverso la Finlandia, per non dover cavalcare «come un uomo, il che era imbarazzante e spaventoso». D’Aunet attraversa nuovamente luoghi orridi: rocce, colline aride e incolte, nessun sentiero, nessun rumore e, in alto, il cielo melanconico e grigio del nord; i viaggiatori sono alla mercé di Abo, la guida lappone, che procede «come un generale», dormono in tenda o in alloggi di fortuna, perfino in una slitta, sono tormentati dalle zanzare. Giunta, infine, in un villaggio lappone (che non esita a definire «un agglomerato di esseri immondi») d’Aunet non sa resistere al desiderio di un bagno caldo: «Ho fatto come in un paese conquistato» afferma, entrando in una tenda dove due donne, una vecchia («un mostro di bruttezza») e una giovane «graziosa, per essere una lappone», stanno scaldando acqua calda su un fuoco. Le donne fuggono spaventate quando comincia a spogliarsi, credendola un uomo a causa dei suoi abiti maschili, racconta divertita.
Nuovi pericoli attendono i viaggiatori sulle rapide dei fiumi Muonio e Tornio: «È capitato che la chiglia della barca toccasse qualche roccia […] ne siamo stati scioccati ma, prima ancora che la paura passasse, la barca era rimbalzata come una palla in mezzo al vortice di una cascata, che si vendicava dei viaggiatori spericolati inzuppandoli». Tutte le difficoltà del percorso sono però compensate dallo spettacolo dell’aurora boreale, cui l’autrice assiste ben tre volte e che riferisce a lettori e lettrici. A Muonio l’esperienza è indescrivibile: «un fuoco di pallida luce all’orizzonte, […] dal punto centrale si allargano scie di luce mobile che assumono ogni forma […] serpenti infuocati […] Il cielo è coperto di innumerevoli spirali di fiamme contorte e diffuse, che ondeggiano come pennacchi nel respiro di un vento misterioso! […] La spettatrice tace, la narratrice è tentata di buttare via la penna». L’aurora di Kengis è meno sconvolgente, «una corona» intorno alla luna, seguita da un’abbondante nevicata e da un’alba rosea la mattina seguente. Infine una terza aurora, del tutto differente, appare nel sud della Svezia, quando il cielo notturno si colora dei toni del rosso. Oltre al paesaggio e ai fenomeni naturali la narratrice riporta il suo interesse per le persone con cui viene in contatto. Il suo punto di vista è principalmente estetico: le donne danesi sono massicce, «brutte di corpo e con grandi piedi». A Cristiania, durante una serata a teatro, può farsi un’idea «della moda norvegese», non particolarmente raffinata; le donne le sembrano «graziose» ma hanno «denti guasti e orecchie grandi». Invece, è positivo il giudizio sulle norvegesi della gaard, di costituzione «sana e robusta […] con una carnagione splendente che le fa sembrare più belle di quanto non siano», mentre la capigliatura dei bimbi è una straordinaria «seta bianca».
I Lapponi occupano tutta la quarta lettera del libro. La descrizione dei dettagli è impietosa: i copricapi delle donne, specie di cuffie blu o verdi, le trasformano in specie di «buffe Minerve […] al tempo stesso fiere e brutte». Un uomo ha nella borsa «il suo arsenale […] un coltello, una grossa pistola vecchia senza grilletto, del tabacco da fumo, una scatola di corteccia di betulla piena di burro di latte di renna, un pezzo di pesce affumicato e un’intera scorta di fieno sminuzzato, destinato a sostituire quello nella sua scarpa nel caso si bagnasse […] queste borse di solito emanano un odore tremendamente disgustoso», conclude l’autrice. Per fortuna, «in mezzo a tutta questa bruttezza, appare qualcosa di affascinante. È la culla dei bambini: qui si esprime tutto il lusso, tutta la poesia del povero Lappone; la tenerezza materna si trasforma in eleganza». Costruita in legno e ricoperta di cuoio, è imbottita di pelliccia di lepre bianca come le piume di cigno e sostenuta da cinghie di cuoio, che evitano la caduta del neonato. È decorata da perline colorate e catenine di cuoio o argento, che ondeggiando divertono il piccolo; la donna la porta a tracolla, «come una chitarra», appesa alla schiena durante le marce. Il giudizio negativo di d’Aunet sul popolo lappone non si distacca da quello comunemente espresso al tempo: «non mangiano pane né indossano biancheria, ignorano scienza e arte», sono quasi del tutto analfabeti, non capiscono la morale religiosa, vivono nell’inerzia, «senza bisogni, senza piaceri, senza aspirazioni». I loro molti difetti sono parzialmente giustificati dall’influenza negativa del clima artico, che li rende apatici e privi di interessi.
Viaggiare attraverso la Finlandia consente a d’Aunet di incontrare una cultura quasi del tutto sconosciuta in Francia. I finlandesi sono infatti considerati una razza «a parte», che esprime nelle rune «una mitologia assai differente da quella scandinava […] complessa, originale, misteriosa e bizzarra», simile a quella della Grecia classica, che con il suo panteismo popola la vasta solitudine di esseri singolari e delle loro avventure. I finlandesi sono descritti come una “razza” opposta ai lapponi: sono forti e robusti, alti e biondi, hanno occhi blu e pelle bianchissima. Inoltre sono ordinati, lavoratori e tutti alfabetizzati come gli altri Scandinavi. Come in Lapponia, d’Aunet si sofferma nuovamente sul rapporto madre-bambino, che evidenzia il profondo legame con la natura: la madre «chiamava la figlia mio ramo verdeggiante, mio uccellino cinguettante, mia poesia». Infine, accenna di sfuggita e con un certo imbarazzo al «bain finlandais» (la sauna) che è possibile in tale stato di promiscuità solo grazie alle abitudini «pure» e al sangue «tiepido» degli abitanti.
Il ritorno a Stoccolma rappresenta il rientro nel “mondo civilizzato”, nel quale d’Aunet è però a disagio per il suo «aspetto da nomade mendicante […] Ho indossato il mio unico vestito, un vestito di velluto, bello, spesso e morbido in passato, ma rammendato durante il viaggio ogni sera. Non avevo il cappello e, come se non bastasse, dopo aver perquisito ogni angolo del sacco che fungeva da baule mi sono ritrovata tre guanti della stessa mano. Ho nascosto la mano senza guanto sotto un grande scialle, e sono uscita armata di tutta la mia audacia. Nonostante i miei sforzi per non apparire troppo eccentrica, destavo molta curiosità». Con grande sollievo ritrova la sua “femminilità” indossando abiti appropriati: «devo confessare che, in tutta la debolezza della mia natura femminile, ho provato un grandissimo piacere nel mettere un abito pulito, con grandi balze, e un cappello di tulle leggerissimo, coperto di fiori, pieno di quella grazia con cui le modiste parigine hanno il monopolio». Può dunque affrontare la cena dal console, dove è al centro dell’attenzione e la sua esperienza desta grande interesse. L’ultima tappa rappresenta un altro significativo trionfo per questa ragazza semplice, ma coraggiosa e anticonformista: in una Berlino monotona e grigia un viaggiatore straordinario, l’ormai anziano esploratore Alexander von Humboldt, si offrirà di farle da guida nei palazzi e nei musei.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.