Fantascienza, un genere (femminile). Nnedi Okorafor

Pochi anni prima di volare verso l’infinito e oltre, Giuseppe Lippi rilasciava un’intervista alla rivista di fantascienza Robot, pubblicata sul n. 72 dell’autunno 2014 con il titolo La mole è una severa maestra, ovvero “I romanzoni di Urania”, che ironicamente rinviava a quello del romanzo La luna è una severa maestra, di Robert Heinlein, che a suo tempo il periodico mondadoriano pubblicò in due volumi. Dopo aver risposto affermativamente alla domanda se i romanzoni siano «una realtà imposta dal mercato», il compianto direttore di Urania ricordava che «negli anni Ottanta il mercato del libro si è gonfiato e sono nate le moderne tecniche di confezionamento e vendita a tappeto, come se si trattasse di un qualsiasi prodotto voluttuario. Poi, in base al principio che se è voluttuario è meglio che sia anche voluttuoso, il pacco si è ingrossato e si sono potuti ritoccare i prezzi verso l’alto». E aggiungeva: «Ormai gli editori che credono nel formato short sono pochi, e un’inversione a favore della brevità si riscontra soltanto nel nascente mercato degli ebook».

Dopo aver letto Shikasta di Doris Lessing, un numero imprecisato di opere della serie The Alliance-Union universe di Carolyn Cherryh, le 1.334 pagine complessive del dittico Black Out e All Clear di Connie Willis, le espansioni in monumentali trilogie dei romanzi brevi più celebri e riusciti di Nancy Kress (la quale, in un’intervista del 2007 ha l’onestà di affermare: «Scrivere racconti è il mio primo amore. Li preferisco ai romanzi, ma con i racconti non ci si guadagna da vivere»), e ancora The calculating stars di Mary Robinette Kowal (che vale all’autrice «un contratto a sei cifre con Tor Books») e dopo aver ringraziato il cielo che della ponderosa quadrilogia in Italia sia apparso soltanto questo primo volume, approdata ora all’opera omnia di Nnedi Okorafor, chi scrive non può che condividere l’amore di Lippi per «la narrativa agile e asciutta» (a meno di non avere il dono del talento di Vasilij Grossman o di pochi altri).

E, sia per omaggio al grande studioso di letteratura fantastica prematuramente scomparso, sia per l’impossibilità di riprenderne efficacemente il pensiero con parole che non siano le sue, ecco la sintesi perfetta di ciò che è il romanzo lungo in ambito science fiction: «I personaggi vengono descritti minutamente, e pur essendo del tutto fantastici i loro caratteri acquistano un’importanza tale da farceli apparire come un’estensione iperreale di noi stessi; idem per quanto riguarda la loro vita intima, sessuale e ideologica che ci viene svelata in dettaglio (un po’ meno quella intellettuale). Tutto ciò diventa parte integrante dell’azione, a costo di gonfiarla o rimandarla.

Nello stesso tempo si mettono in scena moltitudini di personaggi perché nel moderno romanzo epico non è soltanto l’individuo che conta, ma la folla. Si creano trame complesse che possano reggere l’ossatura di un romanzo lungo e, per evitare la noia, si alternano i punti di vista, creando spesso notevole confusione prima che i vari fili convergano. Lo scopo è meravigliare il lettore con tutti gli espedienti disponibili a uno scrittore di consumato mestiere, e più ancora che meravigliarlo, satollarlo. Nei libri più lunghi capita raramente di essere sorpresi, ma i lettori non ci fanno caso perché al romanzo di fantascienza non chiedono più l’evasione lontano dalla vita, bensì un supplemento di vita condito di eroismo». Grazie Giuseppe, ovunque tu sia, hai dato voce al mio sentire.

The Palm TreeBandit (La bandita delle palme) è considerato il primo racconto di Nnedi Okorafor: data al 2000 e gode di notorietà grazie all’inclusione nell’antologia di fantascienza al femminile Sisters of revolution: l’idea di partenza è il racconto di una vicenda matrilineare da parte dell’io narrante alla propria figlia bambina, con la finalità immediata di assorbirne l’attenzione per pettinarle i capelli. La vicenda è quella della bisnonna Yaya, «uno spirito libero» e ribelle, che viola consapevolmente il divieto imposto alle donne di arrampicarsi sugli alberi di palma e di berne il dolce vino, aprendo a un futuro di parità e di autorevolezza per tutte le donne della comunità, a dispetto del capovillaggio ottuso e maschio. Il racconto è piuttosto insignificante e, soprattutto, non presenta alcun elemento fantascientifico: è un apologo sull’astuzia femminile, assunta a strumento di emancipazione; contiene però elementi che caratterizzeranno la futura produzione di Okorafor, che attinge abbondantemente alla tradizione culturale della Nigeria (nazione d’origine dei genitori) e che all’intreccio tra questa cultura e l’ambientazione in un’Africa futura, tribale e tecnologica a un tempo, deve la celebrità.

Copertine dei romanzi di Nnedi Okorafor apparsi in Italia; da sinistra: Chi teme la morte. La profezia di Onye, Gargoyle, Isola del Liri 2015; Laguna, Zona 42, Modena 2017;
Binti. La trilogia, Mondadori Urania Jumbo, Milano 2021

Il primo romanzo di successo (e il primo romanzo per adulti della scrittrice) è Who Fears Death (Chi teme la morte), del 2010, che ha per protagonista la (Young) Black Magic Woman che ricorre, con nomi diversi, in tutti i romanzi di Nnedi: il titolo traduce alla lettera il nome della giovane Onyesonwu, detta Onye, personaggio che dice io, figlia del deserto, amante della libertà, bella e ribelle, prescelta da un destino eccezionale che attraversa vita e morte, che ha facoltà di scrivere e riscrivere la storia, mutandone esiti e conseguenze. Molteplici i temi della narrazione, che si sviluppa in un continente africano percorso da guerre tribali post-apocalittiche − qual è quella tra Nuru e Okeke, i primi dominatori, i secondi schiavi −, nel quale sono diffusi collettori per l’acqua e minuscoli tablet onniscienti, ma che risulta ancora dolorosamente segnato dalle tragedie del presente: lo stupro etnico, l’arruolamento di bambini soldato, la mutilazione genitale femminile, la pratica della lapidazione.

Onye attraversa le fasi della propria vita con determinazione ostinata, fiera della propria eccezionalità, quasi messianica (o cristologica) nella visione della propria fine prossima ventura, certa del ruolo di salvatrice, se non dell’umanità, quanto meno del proprio popolo: da bimba ewu (dalla carnagione e dalla capigliatura chiara, quasi albina), nata da una violenza (la scoperta del «padre» biologico, contrapposto al «papà» adottivo prelude a uno scontro epico), ad allieva mutaforma, alla ricerca della saggezza e dotata di immensa potenzialità, alla scuola dello stregone Aru, è infine a guerriera che intraprende un viaggio iniziatico (in attesa che accada qualcosa che tarda ad accadere), in compagnia dell’amato Mwita, ewu ma generato dall’amore di un uomo Nuru e di una donna Okeke, delle amiche Binta, Luyu, Diti e del fidanzato di quest’ultima, Fanasi. In cammino attraverso il deserto, la compagnia di Onye assapora incontri e affronta pericoli, si disperde e si ricompone, tra dispetti e gelosie, lealtà e sacrificio, in un insieme di luoghi comuni tra fantasy e science fiction, mito e letteratura per la prima adolescenza, Harry Potter e Indiana Jones.

Ricorrendo alla magia la giovane risolve le situazioni più improbabili, talvolta in modo sbrigativo, senza una vera acquisizione di consapevolezza; esemplare in proposito il rito dell’undicesimo anno che Onye affronta tra dubbio e spavalderia e che vanifica qualche anno più tardi, quando si rende conto che l’escissione del clitoride le inibisce il piacere sessuale: allora – oplà! – determina la ricomparsa del piccolo organo genitale sia sul proprio corpo sia su quello delle compagne (altro che Moolaadé, il bellissimo film di Ousmane Sembene sull’argomento).

La narrazione è puntualmente intervallata da un punto di vista differente, che permette di intuirne lo svolgimento a ritroso; la protagonista – progettata per essere un modello femminile positivo ma alternativo (è di sangue misto, disinibita, ribelle: «L’essenza stessa di Onyesonwu era la sfida e il cambiamento») – agisce in nome del riscatto delle donne, dei diversi, degli oppressi; la lotta è quella, eterna, del bene contro il male… Ma il romanzo, vincitore del World Fantasy Award nel 2011, pur offrendo spunti e passaggi interessanti, non convince: per le ragioni suesposte, perché presenta le semplificazioni e le banalità proprie della peggior letteratura per giovani adulti e per le sue interminabili 462 pagine, che ne mettono a nudo la debolezza dell’impianto e la monotona ripetitività. «È stato il libro più difficile che io abbia scritto – afferma l’autrice in un’intervista rilasciata ad americanlibrariesmagazine.org il 23 giugno 2019 – è stato ispirato dalla morte di mio padre: ero molto arrabbiata con lui, per la sua morte dovuta a insufficienza cardiaca e morbo di Parkinson». Il prequel The Book of Phoenix, del 2015, non è tradotto in lingua italiana.

Nnedi Okorafor è anche autrice di numerosi racconti (Internet Speculative Fiction Data Base ne conta quarantasette): Wahala, del 2011, è uno dei due apparsi in Italia, in quanto compreso nell’antologia The Year’s Best SF17 di quell’anno, proposta da Urania nel 2013. «Protagonista –così si legge nella premessa – è un’impavida adolescente nigeriana dotata di poteri telepatici»: è la giovane Fisayo, shadow speaker in grado di parlare con le ombre, in equilibrio precario tra desiderio di fuga e amore per la famiglia, mutante al pari dell’antagonista e coetaneo Ahmed, windseeker con la capacità di volare, arabofono, che dimostra nei confronti di lei un’iniziale diffidenza venata di razzismo in quanto nera e originaria della Nigeria (tema, questo, caro all’autrice).

Le protagoniste di racconti e romanzi di Nnedi Okorafor sono altrettante trasparenti proiezioni di lei: Nnedimma Nkemdili Okorafor nasce infatti a Cincinnati, Ohio, l’8 aprile 1974, da genitori di origine nigeriana, di cultura igbo, che si sono recati negli Stati Uniti nel 1969, negli anni della guerra civile tra Nigeria e repubblica secessionista del Biafra. Cresciuta a Chicago, Nnedi trascorre le vacanze estive con la famiglia nella nazione d’origine: «Nigeria ismy muse», così Okorafor in un’intervista al New York Times del 6 ottobre 2017; e aggiunge: «L’idea che il mondo sia un luogo magico, un luogo mistico, è normale laggiù».

Le opportunità per una bambina e adolescente di colore nella Chicago degli anni Ottanta del secolo scorso non sono le stesse delle coetanee bianche: «era chiaro che essere nera significava essere meno di…», dichiara in un’intervista alla BBC il 1° agosto 2018.

Nnedi Okorafor fotografata nel 2017 nella sua casa di Chicago
(Lyndon French/New York Times)

Appassionata di entomologia, atleta promettente, si dedica alla scrittura dopo essere rimasta temporaneamente paralizzata in seguito a un intervento alla colonna vertebrale, subito a diciannove anni per correggere una grave forma di scoliosi: «the breaking», come lei stessa lo definisce, la porta a elaborare e scrivere short stories per tenere la mente occupata. Quando si riprende, abbandona la scienza per l’umanesimo: compie gli studi in scrittura creativa presso l’Università dell’Illinois, si perfeziona quindi in giornalismo presso l’Università del Michigan e successivamente in inglese presso l’Università dell’Illinois, ove consegue anche un dottorato di ricerca. È ora docente di scrittura creativa all’Università di Buffalo, New York. Il suo amore per la fantascienza non è precoce: «Mi sembrava un mondo sterile, maschile e bianco: ero attratta, piuttosto, da personaggi alieni o animali» (da The Guardian del 18 settembre 2017). La fulminazione e la conversione al genere avvengono grazie a Octavia Butler, grande autrice nera, alla quale Nnedi Okorafor deve moltissimo, sia per la prospettiva africana dei suoi testi, sia per l’attenzione alle grandi questioni della disuguaglianza cosiddetta razziale e di genere, e, soprattutto, per la centralità del tema del cambiamento e dell’ibridazione, sole vie praticabili per un futuro possibile, come si vedrà in particolare nella trilogia di Binti.

L’incontro con Wildseed, forse il romanzo più significativo di Butler, avviene nel 2000 (e infatti la produzione fantascientifica di Okorafor si concentra nel secondo decennio di questo secolo): «[…] ero al Clarion Science Fiction and Fantasy Writers’ Workshop. Ero in libreria durante una pausa e stavo sfogliando la sezione di fantascienza e fantasy. Non avevo mai sentito parlare di Octavia Butler. A quel tempo, tuttavia, stavo scrivendo una storia su una giovane mezzosangue arrabbiata e problematica, con la capacità del volo, nella Nigeria precoloniale. Ho visto un romanzo con una donna nera dall’aspetto misterioso in copertina: questo è il motivo per cui l’ho preso in mano, per la donna africana sulla copertina di un libro nella sezione Fantascienza e Fantasy. Ho letto la prima pagina e i miei occhi sono quasi usciti dalle orbite… Il personaggio principale aveva un nome igbo, viveva in Nigeria ed era una mutaforma! Ho comprato quel libro infernale, l’ho letto e ne sono stata sconvolta» (da un’intervista a Specter Magazine del 2 gennaio 2012). Nel 2011, 2015, 2022, Nnedi Okorafor pubblica i tre volumi della trilogia Akata, per giovani adulti (rispettivamente AkataWitch, Akata Warrior, Akata Woman), che ha per protagonista Sunny Nwazue, una ragazza nigeriano-americana che da New York si trasferisce nel sud-est della Nigeria e scopre di appartenere alla società segreta del Leopardo.

Octavia Butler, grande autrice di science fiction statunitense e modello di NnediOkorafor, in una fotografia del 1988 (Miriam Berkley)

In questi stessi anni, dal 2017 al 2020, collabora con Marvel Comics nella creazione delle avventure di eroi ed eroine di colore: T’Challa, protagonista di Black Panther, e Shuri, sorella minore di questo dotata di straordinarie conoscenze scientifiche e tecnologiche, che dà vita a uno spin off di successo. Il secondo romanzo per il pubblico adulto è Lagoon, del 2014, proposto al pubblico italiano nel 2017 con il titolo Laguna da Zona 42, con traduzione di Chiara Reali. «Grazie a Lagos, Nigeria, per essere Lagos, Nigeria – quello alla città del cuore è il primo dei ringraziamenti in appendice al volume – vent’anni fa sapevo che avrei scritto di te, un giorno. E, un giorno, sarai davvero la città migliore del mondo»: è questa l’opera migliore di Okorafor, almeno tra quelle tradotte in italiano (e forse parte del merito va alla competenza della traduttrice).

Shuri (interpretata dall’attrice Letitia Wright) nel film Black Panther, di Ryan Coogler (2018), tratto da una serie Marvel Comics cui ha collaborato Nnedi Okorafor

Strutturata in tre atti (Benvenuti, Risveglio, Simbiosi) presenta una prima parte ben costruita e dal ritmo serrato, che nell’intreccio di personaggi e situazioni, quotidiane o paradossali, ricorda la narrativa del grande, misconosciuto Chester Himes: apparentemente per puro caso, in realtà per disegno destinico, si incontrano e interagiscono Adaora, biologa marina, Anthony, rapper ghaniano, Agu, soldato dall’inscalfibile senso dell’onore, proprio quando a Lagos si compie l’approdo (anzi, l’ammaraggio) di un’astronave aliena. Il contatto con la popolazione terrestre è affidato a Ayodele, ambasciatrice mutaforma che assume le sembianze di donna (ma all’occorrenza sa trasformarsi in lucertola) perché «gli esseri umani fanno molta fatica a relazionarsi con quello che non somiglia loro»; questa è portatrice del «cambiamento», positivo o negativo in base ai comportamenti degli uomini e delle donne che hanno a che fare con lei e con la sua specie, nonché con le creature marine che vivono nelle acque della laguna. Una molteplicità colorata di uomini e donne: padre Oke, guida spirituale di una setta cristiana integralista; Chris, marito di Adaora, e i loro figli Kola e Fred; Philo, donna di servizio della famiglia, con il fidanzato Moziz; gli amici di questo, piccoli delinquenti borderline, Jacobs, Tolu e Troy; Fisayo, sorella di Jacobs, di giorno segretaria, di notte prostituta a Bar Beach e dintorni; e ancora i soldati dell’esercito, le drag queen dell’Anello Nero, i fedeli della congregazione di padre Oke, le bande di area boys, il bambino muto che diviene emblema della vittima innocente…

La celebre fotografia ritrae Hector Pieterson, il bambino dodicenne morto negli scontri di Soweto il 16 giugno 1976, simbolo delle vittime innocenti dell’intolleranza, menzionata da Nnedi Okorafor in Lagoon (Sam Nzima)

La varia umanità che popola la prima parte del romanzo, quasi una corale chiassosa ma vitalissima, si disperde nel secondo atto, che dà sguardo e voce a singoli personaggi, rendendo ragione del loro passato e svelandone l’eccezionalità (ovvero i superpoteri che uniscono in squadra i tre protagonisti); si concentra nella rappresentazione dell’assalto che da più parti giunge alla casa di Adaora, nel tentativo di catturare Ayodele e nella sceneggiatura del caos africano, con Lagos in fiamme («Dopotutto non era mica la prima volta che invadevano la Nigeria»). Nella kermesse che vira verso la tragedia, entrano in gioco, per accumulo, anche divinità e simboli della cultura igbo: Ijele, «la grande maschera di tutte le maschere, uno dei più potenti spiriti della Nigeria» e la collezionista di ossa che si nutre di carne e sangue lungo la strada tra Lagos e Benin.

Fino alla terza parte, quando creature mostruose dell’immaginario marino (da Plinio il Vecchio a Jules Verne) emergono dalle acque portando morte e terrore («pesci enormi, pesci corazzati, pesci spinati, squali mostruosi, un pesce spada gigante»), ma anche quando gli esseri alieni si mescolano alla popolazione locale compiendo buone azioni e il loro potere misterioso ridona vita e vigore alla Nigeria, che finalmente può avviarsi verso un futuro possibile, mentre il grande ragno femmina Udide Okwanka, da secoli e secoli, nelle fondamenta della città, intesse storie…

Ma progressivamente, con il procedere delle pagine, il ritmo si scompone, l’invenzione narrativa si indebolisce fino a scadere nell’ovvio, diversi aspetti nella vicenda sono lasciati irrisolti, quando non inducono al dubbio, a partire dalla necessità di un intervento esterno (alieno) per produrre l’atteso cambiamento di cui il genere umano non sembra capace: nel solco di Octavia Butler – il riferimento è in particolare alla trilogia Xenogenesis – la salvezza per il genere umano non può che giungere dall’accettazione dell’altro e dall’ibridazione.

Il penultimo dei Ringraziamenti in appendice al romanzo (l’ultimo è per la figlia Anyaugo) va al celebre film di fantascienza sudafricano District 9, di Neill Blomkamp (2009): «Questo romanzo nasce dalla mia rabbia nei confronti di District 9, ma presto è diventato qualcosa di molto diverso». La stessa Nnedi Okorafor, che District 9 ha fatto «incazzare così tanto» – per l’immagine negativa del gruppo di nigeriani, malavitosi e prostitute, che ha parte nella vicenda (a suo tempo il governo della Nigeria chiese formalmente di non proiettare la pellicola nella capitale Abuja) – dedica il libro successivo, Binti, del 2015, «alla piccola medusa azzurra che, in quel giorno di sole, vidi nuotare nella laguna di Khalid, a Sharja, negli Emirati Arabi Uniti». Nulla da eccepire sulla piccola medusa azzurra (se non la filiazione diretta dagli alieni Oankali del romanzo Down, primo della serie Xenogenesis di Butler, sia per l’aspetto fenotipico sia per la capacità di risanare le ferite), ma sugli Emirati Arabi Uniti sì, perché ne sono ben note le politiche discriminatorie nei confronti delle donne, almeno fino a tutto il 2020, e le gravi violazioni dei diritti umani verso gli indispensabili lavoratori migranti (soprattutto asiatici, non africani).

Nnedi Okorafor con la figlia Anyaugo (dal profilo Twitter della scrittrice, 23 ottobre 2016)

È comunque la rabbia la cifra della scrittura di Nnedi Okorafor, con il suo portato di scompostezza e violenza, nonché la caratteristica principale dei suoi personaggi femminili; Binti, protagonista di una trilogia di romanzi narrati in prima persona ai quali si aggiunge un racconto di media lunghezza, non fa eccezione. Nei consueti ringraziamenti alla fine del (primo) volume, questa volta la figlia undicenne Anyaugo è menzionata per prima: «per aver sostanzialmente inventato la trama di questo racconto», che, pur avendo ottenuto Nebula e Hugo Award nel 2016, risente di assenza di progettazione e modalità di procedere infantile.
Ambientato in un’Africa occidentale del futuro remoto, il romanzo pone al centro l’adolescente Binti, di cultura himba (Nigeria settentrionale), che fugge di nascosto dalla propria casa nel deserto, portando con sé un astrolabio multimediale e un oggetto magico, un indecifrabile edan, per raggiungere la prestigiosa università multiculturale del pianeta Oomza Uni, per la quale è stata selezionata e che effettivamente raggiunge, dopo un traumatico incontro con una specie aliena, quella delle Meduse, fiere e feroci. La storia è di assoluta banalità: prevedibile, improbabile (non nello sviluppo degli eventi, ma nella struttura della narrazione), irrisolta. La protagonista è una copia di Onyesonwu (e una proiezione di Okorafor): amante della matematica, ossessionata dalla tradizione (nella trilogia sono innumerevoli le volte in cui lei si cosparge di otijze, preparato a base di argilla rossa con cui le donne himba coprono pelle e capigliatura), capace di mediare ostilità e «armonizzare» antagonismi (al paridi Lilith, protagonista di Down, e di altre donne delle opere di Butler), spesso sull’orlo di un’esplosione di rabbia incontrollabile.

I personaggi sono grezzi, senza sfumature né profondità psicologica: le Meduse, per esempio, nel breve volgere di poche pagine passano dall’essere spietate assassine ad alleate di Binti; il consesso di alieni che popolano Oomza Uni – per aspetto riconducibili a granchi, insetti, ragni – è imbarazzante nella sua ovvietà, con evidenti reminiscenze di vari episodi della saga Star Wars; il finale è semplicemente stucchevole. La salvezza del genere umano giungerà grazie a popoli nativi e culture tribali? Può darsi, ma non dalla trilogia (più un racconto) intitolata a Binti, pubblicata integralmente in Urania Jumbo nel maggio 2021.

Giovane di cultura himba con pelle e capigliatura ricoperti di otijze, il preparato a base di argilla rossa ampiamente citato nella trilogia dedicata a Binti (dal profilo Twitter della scrittrice, 10 giugno 2015)

Il secondo capitolo, in base alla volontà dell’autrice, è il testo scritto per ultimo: Binti. Sacred Fire, del 2019 (titolo italiano Binti. Il fuoco sacro). È un racconto interlocutorio, una prosecuzione con correzione di prospettiva opportuna ma poco efficace rispetto al testo capostipite (inizia dove questo finisce), che funge da raccordo con il romanzo successivo, Binti. Home, del 2017 (Binti. Ritorno a casa). Binti. Sacred Fire presenta la vita universitaria della giovane protagonista, la nostalgia per la famiglia e la casa, il turbamento dovuto al ricordo vivido e ricorrente del trauma subito durante il viaggio per Oomza Uni. Si sofferma sulle amicizie che la uniscono a molteplici diversità: la medusa Okwu (già coprotagonista del primo episodio), la trans Haifa (ammiccamento alla tematica LGBTQ), la cosiddetta Orsa (riconducibile a un Ewok de Il ritorno dello Jedi). Il finale provvisorio prelude (post eventum) al ritorno di Bintia casa, su Terra.

In Binti. Home la condizione post-traumatica della giovane è ripresa e amplificata per giustificare il proseguo della storia, ma il tentativo di rendere psicologicamente più complesso il personaggio naufraga nell’iterazione dei medesimi moduli narrativi e nella sostanziale mancanza di idee nuove; anche in questo caso, poi, il testo ha la malcelata funzione di preparare il terzo e ultimo romanzo della serie. La sovrapposizione di nuove vicende e l’intervento di nuovi personaggi – amici, familiari, la Maschera della Notte, l’intera comunità del villaggio di Binti, il popolo del deserto cui appartiene la nonna materna della protagonista – non giovano: il focus è comunque incentrato sull’archetipo del figlio, in questo caso figlia, dalla nascita fuori del comune, dal destino eccezionale, capace di coniugare culture e identità, e per questo superiore ai propri simili (con evidente superbia), cui si aggiunge il tema del ritorno a casa e del riconoscimento della propria origine; e ancora il riferimento, vero e proprio topos in ambito science fiction, ai giganteschi umanoidi venuti dalle stelle («gli alti uomini d’oro», Lemuriani o altro che siano), che hanno lasciato traccia genetica di sé negli Enyi Zinarya, perché la salvezza è nella capacità di accogliere l’altro e nel meticciato (sì, esattamente come in Lagoon).

L’ego smisurato di «Binti Ekeopara Zuzu Dambu Kaipk aMedusa Enyi Zinariya di Osemba» si espande ulteriormente in Binti. The Night Masquerade, del 2018 (Binti. La Maschera della Notte), concepito come gran finale della trilogia: accanto alla protagonista sono ancora una volta il celenterato Okwu e il figlio del popolo del deserto Mwinyi, già compagno di viaggio nel capitolo precedente (entrambi amati, da entrambi lei assimila porzioni di patrimonio genetico), con un ruolo di primo piano nel secolare conflitto tra Khoush (gruppo etnico maggioritario) e Meduse, ora riacceso con forza. Non manca neppure il resurrexittertia die (letteralmente!) di Binti, novella Messia che pronuncia il verbo galileiano «Tutto è matematica. […] La vita, l’universo, ogni cosa».

Nnedi Okorafor in una fotografia del 2017 (Beth Gwinn/WriterPictures)

Nnedi Okorafor è autrice che non ama le etichette (perciò chi scrive si asterrà dall’attribuirgliene): sul braccio sinistro ostenta un tatuaggio con il simbolo nsibidi (sistema di simboli della Nigeria meridionale) che significa «narratrice» e di sé stessa dice di essere «una scrittrice di cose strane»; rifiuta la definizione di autrice afroamericana (termine che «dovrebbe scomparire», perché non rende ragione di chi proviene, come lei, dalla diaspora africana); privilegia l’espressione african science fiction rispetto ad afrofuturism, vocabolo utilizzato negli Stati Uniti per designare la particolare visione del futuro del musicista SunRa e della stessa Octavia Butler (citazioni dalle interviste al New York Times e a Okay Africa, quest’ultima ascrivibile al 2017).

E per la fantascienza africana la scrittrice rivendica un ruolo positivo e potenzialmente salvifico: essa è, infatti, «un braccio di una creatura che ne ha molteplici e che ha il potere di risolvere i problemi del continente – afferma nell’intervista alla BBC – stimola l’immaginazione, si concentra sulla possibilità: strumenti essenziali per trovare soluzioni a problemi che possono sembrare impossibili da risolvere».

In copertina: Gino Andrea Carosini, Nnedi Okorafor.

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Articolo di Laura Coci

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Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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